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Il commissario Botteghi e il mago: L'ultima illusione di Wetryk
Il commissario Botteghi e il mago: L'ultima illusione di Wetryk
Il commissario Botteghi e il mago: L'ultima illusione di Wetryk
E-book266 pagine3 ore

Il commissario Botteghi e il mago: L'ultima illusione di Wetryk

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Info su questo ebook

“Ma come si fa? Come si fa a scrivere così bene una storia che ispirandosi a Wetryk, famoso illusionista livornese degli anni Venti del secolo scorso, ha il pregevole merito di affascinare il lettore fin dalle prime righe? Il mago delineato storicamente, in funzione del superbo plot narrativo dell'autore, ha la prerogativa di far germogliare nell'inconscio del lettore una piacevole trepidante magica suspence in attesa di scoprire il trucco e... l'assassino!
Diego Collaveri e' bravo? No. Di più'.”
(Silvan)
Livorno. La morte di un notaio, in una villetta liberty sul viale Italia, sembra legata alla vendita dell’immobile e al suo originale proprietario Antonio Pastacaldi, conosciuto in tutto il mondo come Wetryk, illustre mago livornese del secolo scorso, oggi dimenticato, ritiratosi misteriosamente all’apice del successo. L’interesse degli acquirenti, appartenenti al settore illusionismo, verrebbe dal casuale ritrovamento di una lettera in cui il mago rivela di un favoloso trucco per il suo grande rientro, purtroppo mai avvenuto, ma l’apparizione di un fantomatico erede sta rischiando di scombinare i loro piani. Pur affascinato dal mistero di Wetryk, il commissario si mostrerà scettico, restando coi piedi per terra, fino a quando una scoperta eccezionale lo farà ricredere. Riscoprendo l’ascesa e la caduta nell’oblio del nome di Wetryk, riuscirà Botteghi a strappare il velo dell’illusione che nasconde la verità sul caso, restituendo al tempo stesso alla città il suo illustre concittadino, rivelandone l’antico segreto?

Diego Collaveri. Dal 1992 al 2000 lavora in campo musicale, collaborando con Emi Music come chitarrista, arrangiatore e paroliere. Nel 2000 comincia a scrivere narrativa e poesia, ottenendo premi e riconoscimenti. Nel 2001 vira verso la sceneggiatura, prima teatrale e poi per il cinema breve; l'anno successivo con la prima regia vince il concorso Minimusical indetto da La Repubblica e Fandango, con quest'ultima collaborerà come sceneggiatore per i successivi quattro anni. Intraprende un percorso didattico/formativo con vari registi italiani (tra cui Paolo Virzì, Davide Ferrario, Ruggero Deodato, Francesco Falaschi, Umberto Lenzi), studiando storia della cinematografia mentre lavora sui vari set. Nel 2003 fonda la Jolly Roger productions, etichetta indipendente per produzioni video(videoclip, backstage, live show, booktrailer). Nel 2006 viene invitato dall’Universtià di Pisa, dipartimento Cinema Musica Teatro, a intervenire nell’ambito del seminario “il cinema classico Hollywoodiano”. Nel 2009 viene inserito nell’Enciclopedia degli Scrittori Contemporanei. Nel 2013 alcuni suoi racconti noir sono apparsi sul settimanale Cronaca Vera. Dal 2014 collabora con LaTelaNera.com come critico cinematografico. Dal 2015 al 2017 è docente di sceneggiatura e storia del cinema presso Scuola di Scrittura Carver di Livorno.Nel 2018 è tra i docenti del corso Form.Ed – Tecnico della Gestione delle Fasi di Lavorazione Editoriale indetto da Provincia di Livorno e Regione Toscana.È tra gli ideatori di “Paura sotto la Pelle”, prima rassegna di incontri in Italia dedicata al genere mistery/crime e le sue trasposizioni tra narrativa, cinema e fumetto, tenutasi a Bologna a dicembre 2017, patron Pupi Avati.Finalista Premio Alberto Tedeschi – Il Giallo Mondadori 2015. Finalista Garfagnana in Giallo 2016 e 2017. Menzione speciale della giuria Festival Giallo Garda 2017 e 2018, Premio Best al premio letterario internazionale di Montefiore 2018. Oltre alla serie Anime Assassine, nel genere noir è autore per Fratelli Frilli Editori di L’Odore Salmastro dei Fossi, Il Segreto del Voltone, La Bambola del Cisternino(in concorso al Premio Scerbanenco 2017).
LinguaItaliano
Data di uscita1 ott 2018
ISBN9788869432996
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    Il commissario Botteghi e il mago - Diego Collaveri

    LIVORNO, 1935

    Una mano elegante scostò la tenda, lasciando entrare la luce della Luna nella penombra della stanza. Il bianco riflesso attraversò come una lama il pavimento, rivelando la precisa alternanza del marmo bianco e nero, fino a riflettersi nei due grandi specchi sulla parete opposta. L’uomo guardò attraverso il vetro. Dall’altra parte della strada le austere mura dell’Accademia Navale sembravano frapporsi tra il suo sguardo e quel luccichio lontano d’acqua che scintillava silente tra onde confuse nell’oscuro abbraccio della notte. Quando aprì il finestrone e una folata di aria fresca mista a salmastro s’infranse sul suo volto, socchiuse gli occhi, lasciandosi trasportare dai ricordi di mille viaggi.

    Un brivido impercettibile gli attraversò il corpo, come nell’attimo in cui tutti quegli sguardi nella penombra si ritrovavano completamente rapiti da lui, col fiato sospeso tanto da sentire nel silenzio solo il battito forte dei loro cuori emozionati.

    Nella sua mente, il silenzio della strada sotto fu soppiantato dall’eco irruenta di scroscianti applausi esplosi all’improvviso.

    Un sorriso di soddisfazione gli si dipinse sul volto; reclinò leggermente la testa all’indietro, allargando le braccia verso quel pubblico immaginario, come a volerlo abbracciare per ringraziarlo.

    Una vocina lontana risuonò nella stanza. «Babbo».

    L’uomo aprì gli occhi, tornando alla realtà del mare in lontananza.

    Il rumore dei passi di una bambina gli si fece vicino.

    «Dimmi, tesoro» rispose, chiudendo la finestra.

    «È pronta la cena» sorrise, quasi intimorita ma estasiata dalla figura paterna.

    L’uomo le si avvicinò, poi all’improvviso l’afferrò e tra le risate giocose dei due la sollevò da terra un paio di volte, prima di prenderla in braccio e stringerla forte.

    La bambina lo abbracciò carica d’amore e lui si perse nel calore di quella stretta.

    La posò delicatamente, per poi abbassarsi alla sua altezza.

    «Guarda un po’ cos’ho trovato» disse, mostrandole una mano vuota.

    La piccola trattenne il fiato, con gli occhioni spalancati avidi di curiosità; lui chiuse le mani e quando le riaprì una bambolina di pezza era magicamente apparsa dove prima non c’era niente.

    «L’hai trovata, babbo!» Saltellò dalla gioia, scuotendo i lunghi boccoli scuri.

    «Era qui in laboratorio» disse, guardandola con una punta di severità.

    Lei si rannicchiò in un timido sorriso birichino.

    «Lo sai che non devi lasciare le tue cose qui» la redarguì con gentilezza, prima di rialzarsi in piedi. «Andiamo a cena adesso» concluse.

    La bambina fece qualche passo, poi notò al centro della stanza una cassa di legno aperta, al cui interno, tra la paglia arruffata, la luce della Luna si rifletteva su qualcosa.

    Si avvicinò curiosa; affondò le mani nel morbido imballaggio fino a toccare qualcosa di rotondo.

    «Babbo, questa cos’è?» domandò di fronte all’oggetto sconosciuto.

    L’uomo infilò le mani eleganti tra la paglia e tirò fuori una sfera di colore scuro.

    I suoi occhi profondi e magnetici sembrarono perdersi nel riflesso del pallore lunare sulla liscia superficie.

    Il silenzio tornò prepotente all’interno della stanza.

    «Il mio trucco più grande» esclamò febbrilmente compiaciuto.

    LIVORNO, OGGI

    Un Libeccio tagliente, levatosi durante la notte, sferzava le onde per poi sputarne brandelli contro la facciata dei palazzoni su viale Italia.

    Nei pressi della Terrazza Mascagni, parte più elegante della passeggiata di Livorno, il mare si divertiva a invadere la suggestiva pavimentazione di marmo a scacchiera, portando con sé un pungente profumo di salmastro e iodio.

    Le poche macchine che transitavano venivano letteralmente strapazzate dal vento, che sembrava a un pelo dal ribaltarle.

    Il piccolo promontorio dei Bagni Pancaldi, simbolo di un passato in cui la città era stata soggiorno dei regnanti d’Italia, sembrava inghiottito dalle alte montagne d’acqua che senza pietà s’infrangevano contro il cemento dello stabilimento balneare. Sembrava che la furia degli elementi facesse di tutto per riappropriarsi di quel misero spazio, facendo lambire le fondamenta dalle onde e lasciando che il vento facesse scricchiolare il verde legno smaltato delle cabine.

    Appena passata la struttura, unico riparo dal mare aperto, le maestose mura dell’Accademia Navale poco distante si presentavano alla vista, con l’alto pennone del Brigantino che svettava tra i tetti ordinati dei casermoni.

    Ogni tanto un inaspettato cavallone, fomentato dall’ira della tempesta, si allungava scavalcando il parapetto proprio in quel punto, schiaffeggiando con violenza i veicoli che lenti transitavano, come a voler schiacciare un insetto fastidioso.

    «E che cazzo!» esclamai per l’acqua che si era infranta all’improvviso contro il finestrino.

    «Boia; che libecciata, commissario» sbottò Busdraghi, uno dei miei agenti, guidando con prudenza. «Meglio andare pianino, vai, che chissà dove ci butta questo vento con tutto il salmastro sulla strada».

    «No, no; meglio se ti dai una mossa e arriviamo subito, che in macchina non mi fai fumare» brontolai in astinenza da nicotina.

    «Commissario, dé; sta diventando peggio delle donne incinte che devono andare in bagno ogni du’ minuti» mi redarguì.

    Busdraghi, o Panzer come lo chiamavo io per schernire quegli addominali che nonostante la tanta palestra proprio non volevano venir fuori, sapeva sempre strapparmi un sorriso con la sua ironia.

    Passato il punto più critico, l’auto proseguì tranquilla accanto alla piazzetta dov’era situato il chiosco della Baracchina Bianca, ritrovo mondano per gli aperitivi del sabato sera, un po’ meno storico della più nobile Baracchina Rossa, meta ideale per un aperitivo in riva al mare, posta qualche centinaia di metri più avanti. Una cosa che da sempre apprezzo dei livornesi è la capacità semplicistica di affibbiare nomignoli in grado di carpire in pieno le caratteristiche fisiche; in effetti si sarebbe potuto disquisire ore sulla differenza storica, stilistica ed economica dei due luoghi, ma in definitiva la cosa che all’occhio le distingueva era il colore: una bianca e l’altra rossa.

    L’austera cancellata verde dell’Accademia Navale ci scorse di lato. Ogni volta che ci passavo davanti non potevo fare a meno di ricordare tutti i noiosi racconti di mia madre, da piccolo, sulle sue zie e la loro frequentazione del Circolo Ufficiali, dove spesso venivano invitate a feste e gran balli di società ai quali si recavano in abiti talmente sfarzosi da apparire ai suoi occhi come principesse.

    Io mi sorbivo ogni volta le stesse storie, in silenzio, annuendo per compiacerla mentre mi chiedevo come mai allora fossimo così poveri.

    Pochi metri e ci trovammo tra le imponenti bianche facciate di Barriera Margherita, che troneggiavano speculari l’una di fronte all’altra. L’antico accesso doganale, voluto nell’Ottocento dal Granduca Leopoldo II come delimitazione soggetta a dazio comunale, era divenuto nei primi anni del secolo successivo capolinea della linea ferroviaria Pisa-Tirrenia-Livorno, fornendo un collegamento con la zona balneare del Calambrone fino agli anni Sessanta, quando la tratta era stata chiusa e gli edifici abbandonati.

    Le luci dei lampeggianti si fecero sempre più forti.

    Busdraghi accostò l’auto a bordo strada e restò un attimo a bocca aperta fissando le villette in stile liberty che sfilavano dal lato opposto, dove appunto si trovavano le volanti.

    «Ho sempre sognato di entrare in una di quelle, chissà come sono dentro» ammise con occhi sognanti.

    «Che culo che c’abbiano ammazzato uno, eh?» Scoppiai a ridere, ma il mio umorismo macabro fu subito punito con furenti attacchi di tosse.

    «Ovvia, commissario; si metta nei miei panni» spiegò. «Per uno nato e cresciuto nel rione Ovosodo è come essere in trasferta a Beverly Hills».

    «Già» concordai. «Ma come vedi alla fine non è tutto oro quel che luccica».

    Aprii lo sportello, ma il vento me lo strappò letteralmente di mano. Il Libeccio soffiava talmente forte che si faceva fatica a stare in piedi; questo però non mi dissuase dal tentare di accendere una sigaretta, operazione che alla fine fallì miseramente.

    Attraversammo la strada e ci trovammo ai piedi di una delle due costruzioni palindrome subito dopo l’inizio della schiera di caseggiati. Probabilmente all’origine dovevano far parte del medesimo complesso, forse con un colonnato nel mezzo, ma in seguito erano state separate.

    Lo stupore di Busdraghi per tanta bellezza nei balconi finemente lavorati, nell’armonia delle cornici scolpite, era davvero giustificato. Sembrava di trovarsi davanti a un antico maniero di un gran signore, con l’alta torretta che svettava sul fianco destro della palazzina, sovrastante tutta la strada.

    Non lo volli ammettere, ma anch’io ero un po’ emozionato di entrarci dentro dopo le tante e tante volte che l’avevo ammirata da fuori. In particolare, proprio quella, come la gemella, mi aveva sempre trasmesso una sensazione di austera magnificenza, nell’alternanza elegante dei colori beige e rosso mattone.

    Notai Busdraghi pulirsi maniacalmente le scarpe sullo zerbino prima di entrare.

    L’interno non era da meno dell’esterno.

    Ogni particolare rispecchiava esattamente l’impressione avuta da fuori, creando un alone reverenziale piuttosto importante. In particolare, l’imponente scalinata di marmo nero che portava al piano superiore toglieva il fiato.

    Gli agenti ci dovettero indicare la strada, tanto eravamo imbambolati dallo stupore.

    Una volta saliti, trovammo da un lato due antiche porte; una di queste conduceva a un’angusta scala di pietra che comunicava direttamente con l’ultimo piano della torretta. Giunti quasi in cima, dopo un piccolo disimpegno, facemmo ancora qualche gradino prima che lo stretto corridoio si aprisse in un’ampia stanza luminosissima.

    Tutte le pareti avevano dei grossi finestroni in legno, ornati da pesanti tende di damasco, da cui si poteva godere una vista davvero unica.

    Dall’altra parte della strada si vedeva l’Accademia Navale e, oltre ancora, l’infinito orizzonte del mare.

    Mi voltai indietro e trovai le verdi colline della Valle Benedetta, placide e silenti.

    Dall’apertura a sinistra invece si vedeva bene il declivio fino alla zona di Montenero, dove giaceva il grande Santuario, e più in là, le rovine dell’austero mausoleo costruito per Galeazzo Ciano, tanto odiate dai livornesi. Dal lato opposto, invece, scorci di Livorno nei tetti dei quartieri vicini, persino del campo da calcio dell’Accademia Navale.

    Peccato trovarsi in quella stanza per una ragione così cupa, sarebbe stato un paradiso in una bella giornata estiva, con la luce del sole a illuminare tutto.

    Il mio sguardo seguì le dritte linee del marmo a scacchiera sul pavimento, fino a un corpo privo di vita, con Bertini, capo della scientifica, chino su di lui.

    L’amico alzò lo sguardo non appena mi avvicinai.

    «Mario, ma hai visto che roba?» sussurrò tutto esaltato dalla magnificenza della casa.

    «Il cadavere? Certo che l’ho visto, ma pensavo l’avessi visto anche tu» lo presi in giro.

    Bertini si sistemò gli spessi occhiali, infastidito dalla mia battuta. «Vedo che ti sei portato dietro la solita simpatia».

    «Non vuole lasciarmi» sorrisi. «Si sa chi è?»

    «Corrado Nenciati, anni sessantuno; titolare dello studio notarile omonimo» annunciò altisonante.

    «Lo conoscevi?» mi sorpresi.

    «No, aveva il portafoglio» mi rispose beffardo, prendendo dalla sua borsa la bustina di plastica in cui l’aveva riposto. «E prima che tu me lo chieda: l’hanno afferrato con forza alla gola e strangolato. Ha tentato di reagire, ma l’assassino doveva essere più prestante».

    «Quando è morto?» chiesi.

    «Mario, lo sai che servono gli esami per essere...» ma non lo feci finire.

    «E dai, non mi serve il minuto esatto» lo zittii. «Dammi un orario approssimativo, in modo che possa cominciare a farmi un’idea».

    Bertini sbuffò. «Tra le diciotto e le ventiquattro di ieri».

    «E ti pare poco?» sottolineai. «Aveva altro in tasca?»

    «Solo chiavi, una forse della casa e l’altra di sicuro dell’auto con cui è venuto» rispose mostrando lo stemma Mercedes impresso sopra una di queste. «Non sarebbe una cattiva idea mandare qualcuno dei tuoi a cercarla, tanto sarà parcheggiata qui in zona» suggerii. «Magari dentro c’è qualcosa di utile».

    Annuii.

    «Commissario» mi chiamò una voce conosciuta da un angolo della stanza. «Venga qui a vedere».

    Mi avvicinai a Mantovan, l’altro agente della mia squadra, che stava osservando delle spaccature nel muro.

    «Guardi qua». Indicò con una penna il punto in cui l’intonaco era rotto. «Lo hanno fatto usando quello». Mi mostrò un pesante candelabro ammaccato. «Ci sono altre due aperture. Lì e laggiù. Vede i calcinacci sul pavimento?» Puntò il dito.

    «Fa pensare che cercassero qualcosa» affermai, accovacciandomi per vedere meglio.

    «Una cassaforte» ipotizzò.

    Mantovan aveva una mente talmente acuta che spesso le sue intuizioni erano state risolutive, ma era ancora troppo giovane, per questo lo chiamavo sempre il ragazzo; un giorno sarebbe diventato davvero un bravissimo poliziotto e forse, se fosse rimasto a Livorno, avrebbe fatto in breve carriera e i colleghi avrebbero smesso di vederlo solo come quello venuto dal Nord.

    «Sai quanti soldi ci sono nel portafoglio?» gli domandai indicando col capo la vittima.

    «Circa duecento euro» rispose rapido.

    «Ha al polso l’orologio?» continuai.

    Mantovan annuì, intuendo dove volessi andare a parare.

    «Vista così sembra un novellino che ha perso lucidità più che un professionista» spiegai. «Non si è preso il contante, né gli oggetti personali di valore, ma si è solo concentrato a spaccare in cerca di un malloppo più consistente».

    Mi tirai in piedi facendo scricchiolare le ginocchia. «Ohiohiohi» mi lamentai mentre mi stiravo. «Senza contare che in genere una cassaforte è dietro a un quadro o a un mobile. Avrebbe avuto più senso cercarla giù, non trovi?»

    «Cosa ne pensa?» mi domandò.

    «Niente» sbadigliai. «Magari quei buchi ci son sempre stati, oppure li han fatti proprio per farci perder tempo ad arrovellarci sopra; è un po’ prematuro anche solo mettersi a far congetture» risposi. «Panzer!» chiamai l’agente, che si precipitò. «Contatta lo studio del notaio, cerchiamo di scoprire cosa ci faceva qui e che relazione aveva con questa casa» ordinai.

    «Volo» replicò puntuale.

    «Chi ha trovato il corpo?» mi rivolsi a Mantovan.

    «Una signora che viene ogni tanto a far le pulizie, questa mattina» mi aggiornò.

    «L’hai già interrogata?»

    «Appena poche domande, aspettavo lei perché immaginavo volesse parlarle di persona» ammise.

    «Dammi solo un secondo» dissi, tornando vicino a Bertini.

    «Impressioni?» lo provocai.

    «Io non ho impressioni. Noi siamo la scientifica, non tiriamo a indovinare» si irritò come volevo. «Raccogliamo dati per ricostruire fatti».

    «Bene, ricostruisci allora» continuai a punzecchiarlo. «Intanto ci sarà qualcos’altro che puoi dirmi».

    «A dire il vero sì» mi stupì. «Sembra ci siano dei residui nel punto in cui l’hanno stretto alla gola, probabilmente l’assassino indossava dei guanti».

    «Quindi niente impronte» sospirai.

    «Non sottovalutare cosa possono raccontarci delle fibre» mi redarguì.

    «No, no. Tutto fa» replicai. «Però vedi di farmi avere i risultati alla svelta. Non so perché, ma ho la strana sensazione che questo caso diventerà una rogna» affermai, massaggiandomi alla base della nuca dove già cominciavo a sentire il solito fastidio, sintomo di un’indagine complicata.

    Raggiunsi Mantovan al piano di sotto, dove era in compagnia della signora delle pulizie: una donnetta di una certa età, dai capelli corti, con indosso una tuta blu per star comoda sul lavoro.

    «Buongiorno, signora; sono il commissario Botteghi» mi presentai. «Immagino che l’agente avrà già preso le sue generalità e una deposizione, ma avrei bisogno di farle due domande. È lei che ha trovato il corpo?»

    «Questa mattina» annuì spaventata.

    «Ha la chiave?» chiesi.

    «Sì, certo» replicò. «Qui non ci abitano da un po’».

    «Ah» mi sorpresi. «Da chi ha avuto l’incarico?»

    «Non lo so» rispose. «Io vado dove mi manda la ditta».

    Mi voltai verso Mantovan, che annuì intuendo immediatamente l’ordine di approfondire.

    «Mi racconti come è andata» ripresi.

    «Niente, sono arrivata a metà mattinata perché preferisco far prima le scale dei condomini, tanto qui non c’è nessuno e poi ci vengo solo un martedì ogni due settimane» disse.

    «Ha notato qualcosa di strano? La porta era aperta?» chiesi.

    «No, chiusa; ma non con mandata» rispose. «Non c’era niente di diverso dal solito, almeno al piano terra e al primo. Quando poi sono salita su... Ohiohi, guardi» si portò la mano alla bocca. «Meglio se non ci penso».

    «Per caso ha notato quelle spaccature sul muro?»

    «Cosa? No, no» si affrettò a rispondere. «Son venuta via di rincorsa appena ho visto tutto quel sangue».

    «Capito» sbuffai. «Quindi le pareti erano intatte l’ultima volta che c’è stata?»

    «Certo» replicò veloce.

    «Bene, direi che è tutto» le strinsi la mano. «La ringrazio per la collaborazione, se avremo bisogno la ricontatteremo noi. Vada pure a casa adesso».

    La donnetta non se lo fece ripetere due volte.

    «Che ne dice?» arrivò precisa la curiosità di Mantovan.

    «Oh, ma sei una palla, eh» brontolai. «Ma cosa vuoi che ne sappia? Potrebbe esser stata pure lei a spaccare il muro alla ricerca della cassaforte, una volta visto che il vecchio era morto».

    L’agente mi guardò interdetto. «Ma lo pensa davvero?»

    «No» sospirai infastidito. «Mi dici che ti prende ultimamente? Sei di un ansioso allucinante».

    Il ragazzo diventò rosso. «Mi dispiace, commissario» si scusò. «Ero solo curioso».

    «E questo va bene, ma non devi lasciare che la curiosità e la voglia di risolvere il caso abbiano la meglio sulla lucidità» lo bacchettai, impartendogli un’importante lezione. «Dai respiro alle tue idee, non avere fretta di inseguire le conclusioni. È come quando sei fuori con una ragazza, se hai troppa fretta di concludere stai pur certo che lei lo annuserà da un chilometro e non te la darà mai. Invece se stai nel tuo e attendi che le cose procedano da sole: ZAC! Cerca di cogliere il momento giusto di ogni situazione per girarla a tuo favore».

    «Capito» annuì poco convinto.

    Poi, chissà perché, mi balenò in testa il pensiero che Mantovan usciva con mia figlia Valentina e mi sentii quello che si era dato la zappa sui piedi da solo. «Dimentica l’ultima parte, era una cazzata» mi affrettai a metterci una pezza.

    Lasciai il ragazzo sul luogo del delitto e raggiunsi Busdraghi al piano terra.

    «Novità?» gli domandai.

    «Allo studio ci aspettano» rispose.

    «E si riparte» sbuffai al pensiero di dover uscire di nuovo con quel tempo da lupi.

    Lo studio del notaio si trovava in via Diaz, una traversa agli Scali D’Azeglio dove abitavo. Ecco perché quel nome non era nuovo, dovevo essere passato davanti alle eleganti targhe in ottone riportanti l’incisione Nenciati, circa un miliardo di volte.

    Era sempre affascinante entrare in quei palazzoni storici, al cui interno un trionfo di marmo abbagliava gli occhi. L’unica pecca, almeno a mio avviso, erano gli angusti ascensorini di vetro installati nello spazio ricavato al centro del vano scale; li avevo sempre odiati, pur non soffrendo di claustrofobia. L’idea di restare bloccato a una certa altezza mi disturbava parecchio, ma non quanto il pensiero che quella cabina traballante fosse retta da due misere funi d’acciaio che si sarebbero potute spezzare in qualsiasi momento, facendo schiantare la cabina.

    «Commissario, tutto bene?» mi chiese Busdraghi vedendomi pensieroso.

    «Sì, sì» feci il vago,

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