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Memorie di un delitto
Memorie di un delitto
Memorie di un delitto
E-book255 pagine3 ore

Memorie di un delitto

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Info su questo ebook

Un grande thriller
Una nuova indagine dei fratelli Corsaro

L’avvocato Roberto Corsaro riceve una strana lettera nel suo studio: un’anziana nobildonna vuole incontrare lui e il fratello Fabrizio, giornalista, per proporre loro un incarico. Incuriositi, i Corsaro accettano l’invito e raggiungono la donna a Modica. Il compito che l’anziana affida loro è però più complicato del previsto: dovranno riaprire un caso di omicidio risalente a trent’anni prima, una torbida storia che ruota intorno all’uccisione, in una villa di Cefalù, di una giovane ragazza. Attraverso le loro indagini e i racconti di chi visse in prima persona quella vicenda, i fratelli Corsaro compiranno un viaggio a ritroso nel tempo, scoprendo una Sicilia diversa… e una terribile verità.

Una villa a Cefalù 
Un delitto rimasto impunito 
Il caso che nessuno voleva riaprire…

Il giallo dell'anno
Un successo del passaparola

Hanno scritto dei suoi libri: 

«Linguaggio agile e accattivante. Personaggi veri, non figurine da film. Lettori, i fratelli Corsaro sono tornati!» 
Il Foglio 

«Salvo Toscano tiene sotto scacco il lettore con timbri e registri diversi. Vertigini che in un giallo sono tutto.» 
Il Giornale di Sicilia 

«Toscano è un narratore brillante e ironico, capace di tessere trame avvincenti e di sviluppare con estremo rigore le sue indagini poliziesche. La voce più amata del giallo italiano.» 
Il Mattino 

«Tensione analitica e sensibilità psicologica, humour e macabro manovrati con maestria.» 
Corriere della Sera

«Una prosa scorrevole e agile, piena di rimandi all’attualità. Un romanzo appassionante, da leggere tutto d’un fiato.» 
La Repubblica

«Il brio della lingua isolana, protagonisti coloriti e indagini avvincenti sono gli ingredienti dei libri di Salvo Toscano. La sua cifra ironica inoltre crea un effetto empatico che si rivela una scelta vincente.»
La Repubblica
Salvo Toscano
È giornalista e scrittore. È stato semifinalista al Premio Scerbanenco e finalista al Premio Zocca Giovani. È autore dei romanzi incentrati sulle indagini dei fratelli Corsaro (Ultimo appello, L’enigma Barabba, Sangue del mio sangue, Insoliti sospetti, Una famiglia diabolica, L’uomo sbagliato, La tana del serial killer e Memorie di un delitto) e di Falsa testimonianza e Joe Petrosino. Il mistero del cadavere nel barile. È stato tradotto nei Paesi di lingua inglese.
LinguaItaliano
Data di uscita2 lug 2021
ISBN9788822758781
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    Anteprima del libro

    Memorie di un delitto - Salvo Toscano

    EN.jpg

    Indice

    Parte prima

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Parte seconda

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Parte terza

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Parte quarta

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Epilogo. Racconto di Roberto Corsaro

    Epilogo. Racconto di Fabrizio Corsaro

    Nota dell’autore e ringraziamenti

    narrativa_fmt.png

    2909

    Le indagini dei fratelli Corsaro comprendono:

    Ultimo appello

    L’enigma Barabba

    Sangue del mio sangue

    Insoliti sospetti

    Una famiglia diabolica

    L’uomo sbagliato

    La tana del serial killer

    Memorie di un delitto


    Prima edizione ebook: luglio 2021

    Pubblicato in accordo con Studio Olati

    © 2021 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    Copertina © Sebastiano Barcaroli

    ISBN 978-88-227-5878-1

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma

    Salvo Toscano

    Memorie di un delitto

    Una nuova indagine dei fratelli Corsaro

    OMINO.jpg

    Newton Compton editori

    Poiché tutti i mortali sono come l’erba

    e ogni loro splendore è come fiore d’erba.

    L’erba inaridisce, i fiori cadono,

    ma la parola del Signore rimane in eterno.

    E questa è la parola del Vangelo

    che vi è stato annunziato.

    1 Pietro, 1, 25-26

    È chiaro che il pensiero dà fastidio

    Anche se chi pensa è muto come un pesce

    Anzi è un pesce

    E come pesce è difficile da bloccare

    Lucio Dalla, Com’è profondo il mare

    6 agosto 1989

    Buona domenica. E che domenica! C’è una meraviglia di giornata fuori. Fa caldo, sì, ma stamattina andremo in barca e già mi vedo sparire inghiottita nel blu come una sirena. Il mio costume nuovo farà impazzire maschi e femmine. Le seconde di invidia, i primi, be’… Ieri sera l’ho riprovato e sembra fatto apposta per me. Mio fratello, con quel suo modo di parlare e di pensare da bestia, direbbe che mi sono fatta sangue da sola. Ma io non sono mio fratello. Per fortuna.

    Stanotte ho fatto un sogno strano. Di solito non ricordo quello che sogno ma stamattina quando mi sono svegliata ce l’avevo ancora in testa. Da principio era il mio solito sogno. Dovevo essere interrogata in fisica quel giorno e non avevo studiato. E nel sogno mi dicevo: Ketty, tu non ci vai più al liceo, nessuno ti può interrogare in fisica, ma non riuscivo a convincermi lo stesso. Poi alla fine il vecchio Morici mi chiamava davvero alla cattedra per farmi nera ma a quel punto mi ritrovavo davanti a uno specchio e… ed ero vecchia! Avevo almeno quarant’anni, forse di più, sembravo mia zia Gisella, con le rughe, il trucco pesante e tutto quanto. È stato terribile!

    Per fortuna quella bestia di mio fratello aveva messo la musica ad alto volume di prima mattina: i Guns, un casino da farti scoppiare la testa. E mi sono svegliata.

    Vorrei non dover mai invecchiare. Vorrei avere vent’anni per sempre. Vorrei non diventare mai come i genitori dei miei amici, così tristi, spenti, falsi e falliti. Vorrei che non arrivasse mai il giorno in cui i rimpianti del passato saranno più numerosi dei progetti per il futuro, oddio, se ci penso muoio.

    Ecco, oggi voglio farmi questa promessa: io non invecchierò.

    E se lo dico lo faccio.

    L’indice tornò su quelle ultime due righe. Una volta e una volta ancora. Un sorriso appena accennato s’increspò sul viso.

    Poi la mano chiuse il vecchio diario, senza proseguire oltre nella lettura di quella pagina.

    «Sei stata accontentata. Troia».

    Parte prima

    I morti

    One, two, three, four, five, six, seven

    All good children go to Heaven

    You Never Give Me Your Money

    The Beatles, 1969

    1

    Racconto di Roberto Corsaro

    Il mio matrimonio era sopravvissuto al lockdown e questo era già il primo miracolo. Il secondo lo accolsi con ancor più sollievo. Notai, in quei giorni di fine giugno in cui pian piano la vita sembrava, illusoriamente avremmo compreso poi, tornata a una sorta di quasi normalità, come la mia ferita cominciasse a non fare più male. L’atroce vicenda del serial killer mi aveva lasciato cicatrici profonde non solo nell’anima ma anche nel corpo. C’erano voluti mesi di fisioterapia per tornare a usare il braccio sinistro in modo accettabile. E il dolore fisico in quei mesi era stato un compagno costante. Ma con l’arrivo del caldo pareva che non solo il virus bastardo ma anche i postumi della coltellata che m’ero buscato in quell’indimenticabile giornata stessero sparendo.

    Da un pezzo, a ogni modo, dopo un primo periodo di attenzioni e coccole, non fregava più niente a nessuno della mia convalescenza. Mia moglie trascorreva una parte consistente della sua giornata ad augurare ogni sorta di mali al governo, abbuffandosi di ore e ore di talk show televisivi che parlavano solo del virus. Mia figlia Rebecca, sempre più donna e sempre più bella, mi riservava poche ed essenziali parole e trascorreva quasi tutto il tempo murata viva nella sua stanza come una monaca di clausura. Mio figlio Giacomo, ancora per poco bambino, cominciava a manifestare i primi segni di insofferenza ai miei abbracci ed era troppo preso dalla sua nuova passione del momento, i manga giapponesi, per curarsi di me.

    Ero rimasto io con i miei sensi di colpa per tutta la storia del serial killer. Per la vita che si era spenta il giorno in cui quella storia era finita tragicamente, per tutto ciò che aveva preceduto quella morte, in primis il mio invaghimento, era più comodo chiamarlo così ora che tutto era finito, per un’altra donna.

    Mi sentivo sporco e manchevole nei confronti della mia famiglia e a ogni occasione, per compensare quel senso di difetto, ero accondiscendente verso qualsiasi richiesta o capriccio dei miei congiunti, che in quel periodo si usava molto chiamarli così. E fu in questo contesto che maturò l’ingresso in casa mia di Fortunato.

    Galeotta fu una gita fuori porta della famiglia Corsaro nel mese di giugno, dopo la prolungata clausura. Rebecca un po’ controvoglia accettò di trascorrere un intero weekend con la sua famiglia. Andammo a Mazara del Vallo, visitammo insieme la casbah, mangiammo couscous di quello fatto come si deve, facemmo anche un paio di bagni nell’acqua gelida del Canale di Sicilia, fu una bella cosa. Ai ragazzi piacque, Monica fu amabile come sempre quando riesce a rilassarsi, insomma, tutto stava andando per il meglio. Accadde però che durante una passeggiata finimmo davanti a un negozio di animali. C’era in bella mostra un cucciolotto tutto pelo, un cagnolino davvero minuscolo che intenerì Monica, di norma abbastanza refrattaria al richiamo della fauna. E fu così che Giacomo reclamò di entrare a dare un’occhiata. Dissi di sì, pur annusando il pericolo. Non che io non ami gli animali, ma mi piacciono soprattutto nei documentari, quando si trovano a qualche migliaio di chilometri di distanza. L’idea di averne uno mi ha sempre terrorizzato, l’eventualità che una seppur adorabile creatura a quattro zampe potesse condizionare la vita mia e della mia famiglia non l’avevo mai nemmeno considerata. Fin quando, in quel maledetto pomeriggio in un maledetto negozio di animali di Mazara del Vallo, il destino beffardo non volle che i miei figli si imbattessero in Fortunato. Che in effetti, a dirla tutta, le quattro zampe non le aveva affatto, essendo un pesce. Un pesce rosso, per la precisione. Orbo, anzi, guercio, sempre per la precisione. Per una malformazione congenita aveva un occhio solo. Rebecca se ne accorse e si intenerì, Giacomo la trovò, parole sue, «una figata», Monica cominciava già ad averne abbastanza e si lamentava sottovoce, ma non troppo, della puzza di merda che emanavano alcune gabbie.

    «Papà, non lo prenderà mai nessuno, povero, portiamocelo a casa», uscì dalla bocca di mia figlia, ex bambina. Tenera. Il ragazzo del negozio, un ventenne con qualche piercing di troppo per i miei gusti, gli ultimi scampoli d’acne e chewing gum in ruminazione, la osservò con aria compiaciuta, o forse concupiscente (da quando Rebecca era diventata signorina avevo l’impressione che tutti i maschi che le gravitavano attorno fossero delle potenziali minacce), e osservò che era una cosa molto bella da dire. Bastardo.

    «Tesoro, sei molto sensibile e questo ti fa onore, ma come facciamo con un pesce? Siamo in vacanza e una volta tornati a Palermo dove…».

    «Questo non è un problema, le do un sacchetto pieno d’acqua e lui può stare lì per qualche giorno. E comunque, se volete, quella boccia piccola costa pochissimo», si intromise il giovanotto dalle cartilagini bucherellate. Bastardo l’ho già detto?

    «Dai, papà, Rebecca ha ragione, non lo vorrà nessuno. La sua fortuna è stata incontrarci. Anzi, sai che ti dico? Lo chiameremo Fortunato!», rilanciò Giacomo su di giri.

    «Ma… Monica, ti prego, di’ qualcosa», balbettai con le spalle al muro sperando nel soccorso di mia moglie.

    Ora, in tanti conoscerete quel vecchio apologo che narra di due vicini che si odiavano a morte e litigavano sempre. Il re un giorno disse a uno dei due bifolchi: ti farò un regalo, ma sappi che tu riceverai quello che chiederai per te e il tuo vicino otterrà esattamente il doppio di quello che avrai tu. Che vuoi, allora? Il tizio ci rimuginò sopra per un po’ e infine rispose: «Maestà, cavatemi un occhio!».

    Ecco, mia moglie quel pesce non lo avrebbe mai voluto, nemmeno in padella. E se per assurdo io un giorno fossi ammattito e glielo avessi portato a casa lei mi avrebbe con ogni probabilità tirato la boccia in testa. Ma in quel momento la mia consorte pur di mettersi contro di me si astenne dal dire l’unica frase sensata possibile, e cioè ragazzi smettetela di rompere le palle, pronunciandone un’altra, che era in pieno stile Monica.

    «Tu gli hai detto che potevano entrare? Ora te la sbrighi tu».

    E fu così che Fortunato entrò nel nostro stato di famiglia.

    Ne prendemmo due, per la precisione. Perché poi magari Fortunato si sarebbe sentito solo, osservò Rebecca. L’altro, pure lui un testa di leone, aveva spiegato il brufoloso commesso, sembrava messo meglio del compagno con un occhio solo. Giacomo lo battezzò Goku, come il protagonista di Dragon Ball, perché, disse, si vedeva che era un duro. Infatti, morì tre giorni dopo. Lo trovammo stecchito nella boccia, mentre Fortunato, disinteressandosi delle sue sorti, vagava bel bello. Supposi che la buonanima fosse schiattata per indigestione, visto che ogni giorno si faceva fuori il suo cibo e almeno la metà di quello di Fortunato. Giacomo propose di dargli degna sepoltura nel vaso di una pianta che abbiamo in balcone ma Monica, che già cominciava ad averne abbastanza, afferrò la salma per la pinna caudale, disse solenne «addio pesce» e affidò Goku al gabinetto tirando lo sciacquone.

    Fu forse in quel momento di estremo commiato che qualcosa di misterioso scattò nella mente della mia compagna di vita, uno di quegli interruttori che ogni tanto le si accendono e la portano ad abbracciare una causa con tutta sé stessa. Da quel giorno, infatti, Monica cominciò a osservare Fortunato con sempre maggiore attenzione, fino a maturare un comportamento ossessivo.

    Una notte, un incubo terribile mi riportò nella tana del serial killer. Rividi Licia Foti, il sangue, gridai per la paura. Mi svegliai sudato e ansimante. E mentre assaporavo il sollievo di mettere a fuoco che era stato solo un sogno mi accorsi dell’assenza di Monica al mio fianco. Guardai la sveglia, erano le tre di notte. Dove era finita mia moglie?

    Mi alzai perplesso e la trovai in soggiorno, in ginocchio su una sedia, che fissava la boccia illuminandola con una piccola torcia che a volte usava per leggere.

    «Monica ma che diavolo stai facendo?»

    «Secondo te che ha?», domandò lei senza nemmeno guardarmi, fissava ancora il pesce.

    «Non lo so, avrà sonno. Vieni a letto, sono le tre».

    «Non mangia più».

    «Mangia, mangia, l’ho visto io», obiettai sbadigliando.

    «Ci prova ma poi sputa il cibo. Fa feci filamentose lunghe e trasparenti e tende a stare sempre in superficie», rispose lei. Mi domandai se non fossi ancora nel pieno dell’incubo.

    «Amore, scusa, ma sono le tre di notte e noi davvero stiamo disquisendo della cacca filamentosa del pesce?»

    «Guarda, guarda!», mi invitò lei tutta concentrata, gli occhiali poggiati sul suo piccolo, delizioso naso. «Sulla coda sembra avere una patina bianca, da ieri tiene una branchia chiusa. Sul lato dell’occhio gli è spuntato una specie di puntino».

    «Magari gli sta spuntando l’altro occhio… Monica, amore, vieni a letto. Domani interessiamo le autorità preposte».

    Si arrese controvoglia e mi seguì.

    Lo zio di una compagna di classe di Rebecca aveva un acquario dalle parti di viale Strasburgo. La scoperta fu salutata da Monica con entusiasmo. Il caso del pesce monocolo, inappetente e con la branchia chiusa venne sottoposto al suddetto zio, una specie di Capitan Findus con tanto di pipa spenta in bocca.

    La sua sentenza inappellabile mi parve velata da un leggerissimo conflitto d’interessi. Il nostromo spiegò che a Fortunato serviva un acquario più grande, un filtro e un farmaco per debellare i parassiti, peraltro di sua produzione. Carichi di merce e alleggeriti di un centinaio di euro tornammo a casa fiduciosi.

    La cifra insanguinata nei primi giorni parve ben spesa perché in effetti Fortunato riprese a nutrirsi regolarmente. Monica e Rebecca furono entrambe molto sollevate, Giacomo mi confidò che aveva un piano per bollire il pesce su un fornello e fare uno scherzo a mamma, gli suggerii di accantonarlo.

    Il terzo giorno, però, intervenne un’ulteriore svolta. Ero appena arrivato in studio accaldato, mi stavo togliendo la giacca e intanto a mente predisponevo un piano della giornata, il cui piatto forte era preparare un interrogatorio per un processo molto delicato, una storiaccia di violenze e abusi su una povera ragazza disabile, per l’indomani. Avevo preso la posta dalla cassetta, tra cui una bella busta di quelle che non si vedevano più e che mi aveva fatto pensare ai tempi in cui Monica studiava fuori e ci scrivevamo lettere d’amore lunghissime, prima che le e-mail e i cellulari ammazzassero la poesia. Stavo giusto osservando la busta quando Monica mi telefonò.

    «Robbi, è pazzesco! Una cosa paurosa, guarda!».

    Era fuori di sé.

    «Guardo cosa, amore? Siamo al telefono, non è che…».

    «Cretino, guarda WhatsApp, ti ho mandato il video», strillò alterata. E chiuse.

    Temetti di aprire un video in cui mi appariva Fortunato trasformato in un gigantesco ciclope, tipo i meganoidi di Daitarn III, che mi distruggeva la casa. Fuocherello. Il video in effetti ritraeva il pesce, che nuotava sparato verso le pareti dell’acquario sbattendoci contro ripetutamente, come un Mister Magoo ubriaco. La parte peggiore di me non riuscì a trattenere una risata. Ritrovai il contegno e chiamai mia moglie.

    «Hai visto? È grave, secondo me», fece lei, preoccupata.

    «Sì, perché alla lunga potrebbe sfondare l’acquario che è costato un sacco di soldi».

    «Sei un idiota! Io sto chiamando il veterinario, poi se tu mi vuoi aiutare bene, sennò farò tutto da sola come ho fatto per una vita, avvocato!».

    Riattaccò infuriata. Non ci provai nemmeno a richiamarla. Mi concentrai sulla busta, lessi quel «Preg.mo Avv. Roberto Corsaro», scritto a penna in una calligrafia ottocentesca e mi incuriosii ancor di più. Afferrai un tagliacarte e aprii la busta.

    E fu così che questa storia cominciò.

    2

    Racconto di Fabrizio Corsaro

    Gli uomini trascorrono buona parte della propria esistenza a pianificarla. Intanto la vita procede, sotto il loro naso, mentre fanno programmi. E decide lei dove portarti, malgrado i tuoi piani. È una regola che tutti prima o poi sperimentano. E che di norma, una volta sperimentata, dimenticano dopo qualche tempo. Eppure la gioia e la sofferenza inattese stanno sempre lì, dietro l’angolo, pronte a ricordartelo di nuovo.

    L’assurda storia di quella specie di serial killer scervellato che quasi mi accoppava un fratello si era chiusa da pochi giorni. Era un insulso giovedì, una di quelle giornate che nella vita dovrebbe fare volume e basta. Il mondo ancora non sapeva cosa fosse il Covid e nessuno possedeva una mascherina.

    Ero a casa, senza impegni. Per quel poco che lavoravo ormai, non faceva notizia. Un giorno alla settimana mi toccava il turno di libertà, un altro giorno ero in cassa integrazione, la domenica per risparmiar soldi il nostro editore alla canna del gas teneva quanti più di noi poteva a casa, insomma, non avevo mai oziato tanto nella mia vita come in quel periodo.

    Erano più o meno le tre del pomeriggio. Avevo mangiato un panino con Maria, avevamo fatto due chiacchiere con il sottofondo della TV accesa, solo per cinque minuti avevamo parlato della sua gravidanza e del bambino che sarebbe arrivato, poi c’eravamo messi a fare taglio e cucito sulla nuova fidanzata di un nostro conoscente, una tizia manco trentenne, poppe sufficienti ad allattare un asilo nido, trucco da mistress e un idioma solo lontanamente imparentato con l’italiano. Era stato divertente, c’è sempre piaciuto tanto ridere insieme. Avevamo anche sfiorato il discorso della cameretta, che ogni tanto riemergeva come un fiume carsico. La casa era un po’ piccola per l’arrivo del bambino, obiettava Maria. Ma io non l’avrei cambiata con nessun’altra al mondo e lei lo sapeva.

    C’eravamo fatti un caffè, io avevo evitato di fumarci su, come facevo a casa da quando Maria era incinta. Poi mi ero ritirato in camera a guardare una strampalata serie TV di supereroi su Amazon e intorno al dodicesimo minuto mi ero appisolato. Ero caduto in un sonno tanto profondo da sognare. Un sogno che ricorderò per tutta la vita e che per molto tempo tenni per me. Non so se c’entrasse qualcosa

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