Elogio del suicidio
Di Andros
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Recensioni su Elogio del suicidio
1 valutazione1 recensione
- Valutazione: 5 su 5 stelle5/5Un bel libro che amplia gli orizzonti sulla questione del suicidio. L'autore come un autentico filosofo, ha il coraggio di trattare un simile argomento e ci mette di fronte alla realtà di questo fenomeno, che in fondo non è così atroce se si hanno a disposizione i metodi giusti. Questo libro parla proprio di uno di questi metodi oltre che della libertà di ognuno di noi di starci a questo gioco chiamo vita oppure uscirene senza danneggiare se stessi e gli altri.
Anteprima del libro
Elogio del suicidio - Andros
Indice
Prefazione
Preludio
Storia della morte voluta
I freddi numeri
Predisposizione, Motivo, Approccio e Metodo
Alla luce del male oscuro
Le dure conseguenze
La parola alla difesa
È così assurdo?
Il farmaco salvamorte
Conclusioni
Bibliografia
I libri di Andros
Si dice che la speranza sia l'ultima a morire,
ma a volte morire è l'ultima speranza.
Andros
Prima edizione aprile 2018
© 2018 Andros
www.androsofia.com
In copertina, la scultura di Andros
'Prima che sia troppo tardi', 1986
ISBN: 9788827827727
Youcanprint Self-Publishing
Prefazione
Questo singolare libro di Andros, artista e scrittore abituato a provocare e stupire con le sue opere e con i suoi testi, è dedicato a uno dei più grandi tabù dei nostri tempi. Pur essendo un fenomeno diffuso e in costante crescita, il suicidio non è mai portato all’attenzione dai media, con la scusa che parlarne potrebbe portare ad altri suicidi per emulazione. Una paura che di fatto impedisce qualsiasi riflessione sul tema.
Andros però non ha paura di parlarne, anche in modo schietto e per nulla consolatorio, come è solito fare nei suoi libri e anche nelle sue opere d’arte.
Difatti, le opere di Andros, soprattutto sculture, ma anche dipinti, installazioni, performance e altro, sono spesso crude, trasgressive, come testimonia la scultura del 1986 ‘Prima che sia troppo tardi’, posta sulla copertina del presente libro, per la quale sembra essere nata. Il tema del suicidio è in effetti da sempre caro ad Andros, che lo ha toccato più volte, per esempio con l’opera ‘Suiciety (40 seconds)’, del 2013, dodici sculture che rappresentano i dodici metodi per uccidersi più utilizzati, metodi che sono anche descritti in questo ‘Elogio del suicidio.’
Stavolta ha però pensato di affrontare questo argomento spinoso con un saggio articolato, dall’approccio insolito e dalle conclusioni eterodosse.
I libri di Andros del resto hanno sempre qualcosa di unico, di originale, si soffermano su argomenti poco trattati, oppure su argomenti noti ma osservandoli da un punto di vista diverso da quello ordinario. Per esempio, i suoi libri sull’utilizzo delle resine in modi artistici, unici in Italia per completezza, oppure il voluminoso saggio ‘Storia dell’artista’, probabilmente unico al mondo a trattare la storia dell’arte come la storia della figura dell’artista. Per quanto riguarda invece la narrativa, ha persino inventato un genere, la fantarte, con il romanzo a episodi ‘I Supererrori.’
Anche nel caso del presente libro, Andros spiazza già dal titolo, che fa il verso al celebre ‘Elogio della follia’ di Erasmo da Rotterdam, e continua a spiazzare nelle serrate pagine del saggio. È quindi ovvio che non si tratta di un libro contro il suicidio o contro chi intenda commetterlo, né si sofferma sulla prevenzione, magari consigliando delle strategie da attuare, ma non è neanche un manuale d’uso per gli aspiranti suicidi, o un invito a diventarlo. Questo saggio tende piuttosto ad analizzare il complesso fenomeno del suicidio, miscelando toni freddi e razionali ad altri sentiti e passionali, e a riconoscerne l’ineluttabilità, e la necessità di trattarlo a mente aperta e se il caso di favorirlo, o meglio, di favorire la diffusione di metodi meno brutali e più sicuri di quelli solitamente utilizzati per togliersi la vita.
Come Andros stesso scrive, si tratta in fin dei conti di un elogio della libertà di scelta, anche della scelta della propria fine.
Il libro solleva molte questioni, espone tante domande al lettore, e non a caso, si apre con una domanda e si chiude con una domanda.
Domande alle quali spesso è difficile dare risposta, e alle quali talvolta è difficile essere in disaccordo con le risposte suggerite da Andros, per quanto possano a tutta prima sembrare eccessive ed estreme. Ciò che conta, comunque, non è dargli ragione o condividere le sue posizioni, ma mantenerci aperti alle idee senza rifiutarle a priori, anche se lontane dalle nostre, rifletterci e farle crescere dentro noi. Non si può mai dire quali di esse possano portare dei buoni frutti.
Leonardo Spalla
Preludio
Non essere mai nati è la
cosa migliore e la seconda,
una volta venuti al mondo,
tornare lì donde si è giunti.
Sofocle
Avete mai pensato al suicidio? Forse no, ma è più probabile che, almeno una volta nella vita, ci abbiate pensato, o forse ci penserete in futuro. Non dovete dirlo in giro, si tratta solo di ammetterlo per un attimo a voi stessi. I pensieri di morte sono come la masturbazione: quasi tutti la praticano, ma pochi lo ammettono. Come ha scritto Camus: «Tutti gli uomini sani hanno pensato al suicidio.» Magari è stato solo un pensiero accarezzato per pochi secondi, in un periodo difficile della vostra vita, quando tutto sembrava nero e senza via d’uscita. Magari dopo un lutto o un fallimento, ma è stato solo un pensiero fuggevole, perché in fondo voi la vita l’amate. C’è tanto più bene che male nella vostra vita, non prendereste mai sul serio il pensiero di togliervela.
Se è così, complimenti, siete fortunati, o forse bravi, oppure bravi e fortunati, ma non tutti lo sono altrettanto.
Per alcuni la vita è sofferenza su sofferenza, insopportabile agonia, inutile stillicidio o noiosa routine, per alcuni quel pensiero è ‘il’ pensiero, quello che sovrasta tutti gli altri. Non è incubo, è sogno.
Strano soggetto il suicidio. Anche le parole del suicidio suonano strane: ‘uccidersi’ e ‘ammazzarsi’ fanno pensare a un omicidio; anche ‘commettere suicidio’ fa pensare a un crimine; ‘togliersi la vita’ fa pensare che la vita sia come un abito che indossiamo e che smettiamo; ‘togliersi di mezzo’ è forse il più denigratorio, fa pensare che siamo dopotutto un fastidio, e che uccidendoci togliamo il disturbo; ‘darsi la morte’ è consolatorio, fa pensare a un dono che facciamo a noi stessi; ‘scegliere la morte’ dà l’idea del controllo, e mi sembra forse quello più adeguato.
Ancora più strana è la reazione della gente a un suicidio o a un tentativo di suicidio. Ci sono rabbia e sorpresa, anche quando il rischio era palese, ma soprattutto c’è il rifiuto, il tentativo disperato di negare l’intento suicida. Qualsiasi suicidio fallito porta con sé il sospetto, il dubbio che si sia trattato di un atto simbolico, di una finta, di un tentativo di attirare l’attenzione di qualcuno, anche quando i fatti dimostrano il contrario, quando cioè dopo il tentativo la persona tiene a debita distanza gli altri o addirittura elimina dalla propria vita il soggetto del supposto interesse.
Per definizione, si pensa che chi riesce nel tentativo volesse morire, mentre chi non riesce non lo volesse davvero, ma le cose sono un po’ più complesse, il passaggio alla morte non è così scontato, e talvolta muore chi voleva solo fare un gesto simbolico mentre chi voleva davvero andarsene fallisce miseramente. Le incognite sono tante, e uccidersi è più difficile di quanto si possa pensare, spesso si riesce nell’intento solo dopo vari tentativi.
È più comodo pensare che si sia trattato di una finzione. Ripulisce le coscienze, sgrava da ogni possibile colpa, vera o presunta, e toglie quel fastidioso pensiero dalla mente: si può davvero preferire la morte alla vita.
Quando si parla di suicidio tutti si mettono sulla difensiva, come se il solo toccare l’argomento mettesse in dubbio la loro esistenza, così tutti diventano di colpo innamorati della vita, anche se fino a un secondo prima se ne lamentavano. Poco importa se poi si sfondano di alcol, fumo o droghe, se vanno a 200 all’ora con le loro auto o se fanno altre scelte di vita fatali. Tutti atteggiamenti alimentati dall’istinto di morte, ma tollerati e persino favoriti, versioni etiche del suicidio sulle quali non si discute. Finché il suicidio è lento, rateizzato, dall’apparenza casuale, allora è socialmente accettabile, se invece è fatto di colpo e con consapevolezza, impiccandosi o lanciandosi da un palazzo, allora non va bene.
In fondo è la fretta che disturba. Ucciditi con calma, e nessuno ti dirà nulla, anzi, sarai ‘figo’, uno che sa vivere, uno che si gode la vita, se invece provi a farlo di colpo sei uno che finge, oppure un malato di mente da tenere a distanza.
Eppure il suicidio non è solo un atto del momento, può essere l'insieme di atti commessi, oppure non commessi - per esempio, non curarsi -, protratti nel tempo.
Questi e altri atteggiamenti che alla lunga possono rivelarsi mortali, che lo psichiatra Karl Menninger chiamava ‘suicidio cronico’, meglio noto come ‘suicidio mascherato’, rivelano la voglia di darsi la morte mediante la ripetuta esposizione a comportamenti autodistruttivi.
Il suicidio rateizzato non sconvolge, anzi, non è neanche visto come tale, ma quello fatto di colpo invece sconvolge eccome, ed è fatto oggetto di ostracismo. Come vedremo, si tenta di annullarlo, di prevenirlo in ogni modo, seppure con risultati discutibili. Si tenta di negarne la liceità, e soprattutto di relegarlo nel campo della patologia: il suicidio, e ciò che porta al suicidio, sono malattie da curare.
È chiaro che il suicidio è un tabù all’interno di un tabù. La morte è il tabù per eccellenza, e darsi la morte, sceglierla consapevolmente, è il tabù del tabù, un tabù al quadrato. Come dicevo, strano soggetto il suicidio, ma ancora più strani siamo noi esseri umani, quando ci rapportiamo a fenomeni come il suicidio. La logica cede il passo all’irrazionalità, il cervello alla pancia, gli occhi restano chiusi, per non vedere la realtà dei fatti e non doverli affrontare per quello che sono e non per quello che vorremmo che fossero.
Venendo al presente libro, prima di tutto dirò cosa non è: non è un vero e proprio elogio del suicidio, il titolo è provocatorio. Più che un elogio del suicidio è un elogio della libertà di scelta, anche di quella più estrema. Non intendo esaltarlo né spingere alcuno a scegliere questa via d’uscita, né, d’altro canto, intendo convincere il lettore che la vita non debba mai essere abbandonata volontariamente, per alcun motivo. Tanti libri sul suicidio non sono che papiri moralistici, che tentano di convincere quanto bella sia la vita e come debba essere sempre vissuta fino alla fine ‘naturale’, che ormai è sempre meno naturale, visti i tempi supplementari garantiti dai prodigi della medicina. Spesso colpevolizzano oltre ogni dire l’aspirante suicida, caricandolo di colpe e responsabilità, verso se stesso e verso il prossimo, verso Dio e verso lo Stato, e accusandolo di essere un vigliacco che sceglie la vita più facile.
In questo saggio intendo passare al setaccio queste e altre convinzioni mostrandone i punti deboli, ed elencare i motivi per cui la scelta del suicidio dovrebbe essere quanto meno rispettata.
Non mi soffermerò su tecnicismi filosofici sul valore della vita, quello che mi preme far capire è che, non importa quale sia stato il percorso psicologico, filosofico ed esistenziale che ha portato la persona a preferire la morte, essa ha tutto il diritto di sceglierla, perché se non si ha il diritto di scegliere se vivere o morire allora non si ha alcun diritto.
Questo libro intende suggerire che, al contrario di ciò che pensano i più, il suicidio non sia sempre espressione di una malattia mentale, ma che possa trattarsi della scelta legittima di una mente sana. Intende inoltre sostenere che il suicidio sia un fenomeno connaturato alla nostra stessa umanità, e che non potrà quindi mai essere del tutto eliminato, nonostante le tante associazioni dedite al seppur nobile compito di prevenire il suicidio. Infine, intende sostenere l’idea che un metodo affidabile e incruento dovrebbe essere messo a disposizione degli aspiranti suicidi, venduto in farmacia come qualsiasi altro presidio medico. Perché senza di esso la libertà di morte non è altro che la libertà di soffrire inutilmente, rischiando di fallire.
Storia della morte voluta
La morte è davanti a me oggi,
come la guarigione di un malato,
come la brama di un uomo di
vedere di nuovo la sua casa,
dopo molti anni di prigionia.
‘Uomo che discute di suicidio con
la propria anima’ Egitto, 2100 a. C. circa.
Il suicidio ha una storia lunga almeno quanto quella dell’essere umano. Si può supporre non temendo smentita che esso nasca con la coscienza. Appena l’essere umano diventa consapevole di sé, appena si rende conto di essere vivo e di essere destinato a morire, comincia a domandarsi se valga la pena esistere, continuare a vivere. Talvolta decidendo per il no, per vari e spesso solidi motivi.
Nel corso della Storia l’approccio al suicidio è mutato più volte, ed è stato visto e trattato in modi diversi. L’idea che ne avevano i greci e i romani era diversa da quella dei cristiani, così come diversa fu l’idea che ne ebbero umanisti e illuministi. Fino ad arrivare a noi, che stentiamo ad aggiornare le nostre idee sul suicidio e ad adattarle al mondo in cui viviamo.
Nei primi periodi della Storia, l’autodistruzione era vista come una prova di coraggio, la morte era preferita al disonore, e il concetto di autoimmolazione era parte delle religioni - e in alcuni casi lo è ancora oggi. Eppure, fin dall’antichità, la pratica di porre fine anzitempo alla propria vita viene punita, e il