Le Baccanti
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Anteprima del libro
Le Baccanti - Giulia Marino
Lindemann
INTRODUZIONE
Riscrivere un classico è sempre un piccolo sacrilegio. I capolavori del passato ci appaiono come reliquie da conservare e ammirare a rispettosa distanza, senza alzare un dito su di esse, poiché il minimo contatto potrebbe contaminarle e spogliarle della particolare magia che emanano, e più questi meravigliosi tesori sono antichi e noti al mondo, più ci sentiamo in dovere di tenere le mani basse. Per questa ragione reagiamo tutti con istintiva diffidenza ogni volta che un artista ambizioso entra nella zona di profanazione
per manipolare qualche reliquia. E puntualmente, prima ancora d’aver avuto modo di conoscere l’opera partorita dal profanatore, si leva un’antipatica vocina nella nostra testa: avevamo davvero bisogno di questo remake?
Nonostante io stessa rimaneggi miti e storie del passato, mi trovo spesso intrappolata in questo meccanismo di rifiuto preventivo a proposito di riscritture e remake, ed è un pensiero che mi tormenta all’inizio di ogni processo creativo; un pensiero che mi ricorda che sono una profanatrice, e che non dovrei fare ciò che sto per fare, perché qualsiasi cosa farò verrà considerata un affronto alla bellezza dell’opera originaria. Del resto, i capolavori non si possono superare. Ma per quanto riguarda le riscritture, il dibattito è più complesso di come appare, perché se da un lato è vero che impastare un capolavoro è un gesto sacrilego, dall’altro è innegabile che esso contribuisca a far vivere in eterno l’opera adattandola ai tempi e ai lettori moderni.
Personalmente concordo con Calvino quando dice che un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire
, ma ritengo anche che per continuare a parlarci esso debba mettersi in movimento, trasformarsi, affacciarsi a nuova vita. Ecco, dunque, il vero dilemma: difendere la sacralità del testo originario, rendendolo di fatto accessibile soltanto a un ristretto numero di addetti ai lavori, o permettere che sia reinterpretato attraendo così una più ampia platea di lettori, correndo però il rischio di snaturare la sua essenza?
Come in Storie di Dei
, io ho scelto di scrivere e rischiare. Non la definirei neppure una scelta, quanto piuttosto una necessità: chi scrive o crea opere artistiche d’altro genere sa che non ci si può trattenere quando l’ispirazione è ai massimi livelli, e Le Baccanti
di Euripide è stata, per me, una gigantesca sorgente d’ispirazione. Neanche sforzandomi sarei riuscita a ignorare il fascino di questa sublime tragedia, che a distanza di secoli riesce ancora a commuovere. Essa è veramente un capolavoro. Così scavai tra le sue parole e la studiai a fondo, perdendomi negli innumerevoli simbolismi e ambiguità come ci si perde in un labirinto di specchi, perché un’opera avente per protagonista il Dio della Follia non può che stordire, e giunta al termine della mia assimilazione cominciai a scrivere, rimanendo sempre un passo indietro rispetto ai personaggi e senza mai concedere alla trama di librarsi in aria. Allontanarmi dalla tragedia euripidiana non è mai stato un mio desiderio e, sebbene sia rivestita di fantasia, l’opera che vi apprestate a leggere rimane Le Baccanti
: il contrasto tra Dioniso e Penteo, il delirio mistico che consuma le donne tebane, la violenza delle menadi guidate da Agave, il travestitismo, gli impulsi selvaggi, il dolore e l’immensa fragilità umana… I temi portanti della tragedia ci sono tutti e non avrebbe potuto che essere così.
Ammetto, però, che è stato difficile trasformare il lavoro di Euripide in romanzo. I problemi sono stati molteplici e si sono presentati fin dalla prima stesura. Le Baccanti
nasce tra il 407 e il 406 a.C. come opera teatrale e, in quanto tale, ha una struttura che fatica a rientrare negli schemi del romanzo; basti pensare alla presenza del coro che interagisce coi personaggi o a scelte narrative ormai considerate inaccettabili, come il deus ex machina. Il romanzo, inoltre, necessita di quel tocco di realismo in più
necessario a far funzionare il tutto, ad aiutare il lettore a immergersi in un mondo dettagliato e credibile, e non solo accennato: ecco perché ciò che funziona a teatro – per esempio, la scelta di rappresentare Penteo a corte senza alcun parente, a eccezione di Cadmo, malgrado il re i familiari li avesse, stando alla tradizione mitologica – non può funzionare in un romanzo. Per questa ragione mi sono concessa di affiancare al sovrano due personaggi d’invenzione e, soprattutto, i parenti stretti che Euripide non nomina, ma che a mio parere meritano di far parte della tragedia in quanto legati a essa da vincoli di sangue: un atto compiuto per amore del realismo, che spero non scandalizzi troppo.
Ovviamente mi sono soffermata molto sui personaggi di Dioniso e Penteo, i veri e indiscussi protagonisti dell’opera. Euripide li tratteggia appena, dandone una visione semplificata e priva di approfondimento caratteriale, ma questo non deve stupirci: sia nelle opere teatrali, sia nei miti di tradizione antica, i simbolismi e la morale hanno la precedenza sull’introspezione psicologica dei protagonisti coinvolti. Ho voluto, quindi, puntare la lente d’ingrandimento sui due avversari e, al contempo, approfondire ognuno di loro singolarmente per sentire cosa avevano da dire. Preferisco non aggiungere altro riguardo a Dioniso e Penteo: desidero che li scopriate da soli durante la lettura e che, giunti al capitolo finale, traiate le vostre personali conclusioni sull’intera vicenda.
Mi avvio verso la conclusione di questa modesta introduzione ricordandovi che lo scopo primario di questo romanzo è suscitare nel lettore emozioni sincere, accompagnandolo pagina dopo pagina nel vortice del delirio bacchico. Mi rendo conto che non è cosa facile conquistare un lettore e guidarlo mano nella mano fino alla fine, e che è ancora più difficile riuscirci quando si cammina su una via antica e sacra come quella di un grande classico, ma se Dioniso vorrà vi abbandonerete alla commozione, allo spavento, all’eccitazione sfrenata. E io, come voi, sarò felice.
Vi lascio alle baccanti.
Buona follia.
Giulia Marino
Gennaio 2020
1
Se solo avesse potuto e fosse stato folle a sufficienza da compiere un simile affronto, quella notte Penteo avrebbe afferrato il Dio Hypnos per il collo e lo avrebbe obbligato a fargli dono del più profondo e rigenerante dei riposi. Un sonno dolce, amico, in grado di allontanarlo, seppure per poche ore, dall’opprimente realtà che lo circondava. Ma l’Addormentatore sembrava averlo dimenticato o, peggio, sembrava che stesse ignorando di proposito le sue preghiere, e ciò lo rendeva furente.
Era il re di Tebe. Come poteva tollerare che i suoi sudditi dormissero beati nei loro giacigli di paglia, mentre lui, nipote di Cadmo, fissava il soffitto con occhi insonni? Come poteva Hypnos spargere il sonno ovunque tranne che sulla sua povera mente? Non i porcari, non i mercanti. Lui, Penteo, detentore del trono tebano, aveva un disperato bisogno di dormire perché sulle sue spalle gravava il peso di ciò che stava accadendo nella Città dalle Sette Porte.
Si rigirò tra le coperte trascinandosele dietro. Il focolare era acceso: un rettangolo di fuoco scoppiettante nel nero della camera. Con le lucerne spente, il camino poteva ben poco contro le tenebre della notte, se non spargere nell’ambiente il suo aroma di legna bruciata. Il buio copriva ogni dettaglio della stanza come un telo scuro, appiattendo la sua ricchezza: pitture murarie multicolori, tappeti di lana persiana, vasi in ceramica decorata. L’eleganza degli arredi s’intravedeva appena, come se la camera stessa si fosse addormentata e avesse smesso di accecare col suo sfarzo brillante.
Penteo osservò le lingue di fuoco che s’innalzavano dai ceppi incandescenti dentro al camino, e a poco a poco la sua invidia si spense. Sapeva che era impossibile che i suoi sudditi stessero dormendo. Tebe era silenziosa, ma il suo era il silenzio teso dell’insonnia; il silenzio di chi non può dormire perché troppo spaventato, arrabbiato, smarrito, e rifugge il sonno per timore degli incubi.
Il re si tirò su, allungò una mano verso il tavolino circolare accanto al letto e afferrò la coppa che vi era posata sopra. Bevve. L’infuso alle erbe era ancora tiepido e gli corse giù per la gola in pochi istanti, lasciandogli sulla lingua un retrogusto dolciastro. Rovesciò la testa indietro, per far scivolare in bocca le ultime gocce, quindi posò la coppa e si ributtò giù.
Aveva fatto fatica a chiedere a Leonte, il suo fidato medico, di preparargli qualcosa che lo aiutasse a dormire. A dirla tutta, si era vergognato da morire. La mancanza di sonno, in quelle circostanze, era un indicatore di ansia e tutto desiderava, lui, tranne che passare per ansioso. Ma doveva dormire, così a voce bassa, prima di ritirarsi in camera, aveva chiesto l’aiuto del medico. In fin dei conti, non era andata così male. Il vecchio aveva annuito senza mostrare alcuno stupore – era pur sempre l’uomo che si era curato di ogni suo malanno, dai tempi in cui era ancora un bambino che si sbucciava le ginocchia o sudava per la febbre – e dieci minuti più tardi gli aveva inviato un servo in camera, con una coppa fumante tra le mani. Lui aveva bevuto: camomilla, passiflora, tiglio e chissà quale altra erba sconosciuta, con una goccia di miele. Un infuso gradevole che, però, non aveva sortito alcun effetto. Certi mali vanno sopportati fino all’ultima fitta di fastidio. E basta.
Innervosito, Penteo stropicciò il guanciale e si rigirò. La luce grigia che penetrava dalla finestra scivolò sul suo volto stressato, creando un cupo gioco di ombre.
Era un sovrano giovane, sulla soglia delle ventitré primavere, coi capelli castani e gli occhi ambrati e lucenti come quelli di Echione, suo padre. Portava il viso sbarbato come gli atleti delle palestre. Il naso era dritto e lievemente curvo in punta, eredità di sua nonna Armonia. Il mento tondo e largo, identico a quello di suo nonno Cadmo. Nel complesso era affascinante e ben proporzionato, ma tutto di lui emanava ostilità e, per quanto bello fosse, nessuna tebana aveva mai sospirato al suo passaggio né lo aveva mai salutato con gioia. E men che meno sarebbe accaduto ora.
(Penteo)
Il re osservò il quadrato di cielo blu che si stagliava sulla parete nera. Aveva l’impressione che qualcuno, da qualche parte, gli stesse parlando. Una presenza lontana, misteriosa. L’ennesimo scherzo della stanchezza. Forse.
Chiuse gli occhi.
(Sono qui)
(La senti la mia potenza?)
Penteo infilò la mano sotto alle lenzuola e scese giù, tra le gambe. Cominciò a toccarsi. Colpi a pugno chiuso, dal principio lenti poi frettolosi, che gli offrirono immediato godimento mentre coi pensieri attingeva al pozzo delle sue inconfessabili fantasie. Amava e odiava perdersi in quell’atto, che prima lo scaraventava tra le stelle e dopo lo schiacciava a terra, a fare i conti con la propria vergogna. Desiderava essere un virtuoso, un puro, un illuminato. Un sovrano in grado di attrarre su di sé gli occhi glauchi della saggia e casta Atena. Ma ora aveva bisogno di ritrovare il suo equilibrio e di stare bene, almeno per un po’.
(Non resistermi)
(Penteo)
Il tebano sentì il piacere crescere e crescere, un fuoco che dall’inguine si propagò al ventre, al petto, alle guance. Si sfregò più velocemente, come se volesse punirsi, e mentre si affrettava verso l’apice lo desiderò davvero.
(Accettami)
(E andrà tutto bene)
Penteo raggiunse l’orgasmo, le sue dita s’inumidirono. Emise un gemito e continuò a torturarsi in preda alle fiamme, poi il suo piacere si spense. Sospirò pesantemente, come un lottatore giunto alla fine della più ardua delle gare, e i suoi occhi stremati tornarono al soffitto. Fu solo un momento, poi si richiusero, vinti dalla sensazione di pace che solo la vetta del godimento sessuale è in grado d’offrire. Ascoltò il proprio respiro affaticato e gli sembrò di starsi squagliando, di stare diventando un tutt’uno con le lanose coperte e le lenzuola umide di sudore.
Non più un sovrano, non più un uomo.
Solo un insignificante niente.
Infine, Hypnos calò su di lui e gli sfiorò la fronte con le sue soporifere dita. Un tocco soave, quasi una carezza, e Penteo cominciò a sognare ciò che era accaduto.
Clangore di ferro.
Un fracasso metallico che squarcia la notte e si ripete uguale a se stesso, assordante come mille fulmini scagliati da Zeus nel medesimo momento.
Penteo si sveglia di soprassalto, i suoi occhi sconvolti incontrano il nero del buio che pervade la stanza. Lo sconquasso ferroso gli rimbomba nelle orecchie come un terribile insulto. Proviene da fuori, dalla strada. Un esercito nemico che picchia le spade contro gli scudi, forte, sempre più forte. Non può essere altro che quello. Tutti i cani di Tebe abbaiano sopra al grido di quelle armi.
Il re scaraventa via le coperte e si scaglia fuori dalla stanza, lanciandosi nel corridoio. I suoi piedi scalzi saltano con fastidio sul gelido pavimento. La veste da notte, lunga fino al ginocchio, non riesce a proteggerlo dal freddo che aleggia nel palazzo. Scende le scale che conducono al piano inferiore, senza sapere dove sta andando, e gira l’angolo. Servi impazziti gli corrono incontro e lo sommergono col loro terrore.
«Non lo so! Non lo so!» grida, precipitandosi nella sala dei ricevimenti. Chilone, il suo consigliere, lo assale. È pallido e i suoi occhi sono enormi come quelli di un gufo.
«Dov’è mio nonno?» chiede il sovrano e subito si pente di quella domanda. Spetta a lui, e a nessun altro, risolvere la situazione.
«In camera. Credo stia arrivando» risponde il consigliere. «Maestà, cosa-»
Penteo esce dalla sala e si tuffa su per i gradini che conducono alle terrazze. Il palazzo reale è l’edificio più alto di tutta l’acropoli. Da lì potrà vedere l’esercito. Il gelo della notte lo aggredisce e gli scuote la veste. Fa freddo lassù, malgrado gli enormi bracieri che ardono agli angoli della terrazza. Si affaccia. Le sue dita si aggrappano alla pietra, come gli artigli di un’aquila intorno al corpo della preda.
Tebe è deserta.
Nessun esercito, nessun invasore.
Solo i tetti delle case, gli usci illuminati dalle torce, le strade vuote.
Eppure il rumore scuote ancora l’aria, inconfondibile fracasso di ferro. I cani abbaiano e abbaiano. Penteo non capisce. Sta accadendo qualcosa sotto a quei tetti, e non è qualcosa di buono.
È sul punto di andarsene e scendere di sotto, quando la verità si rivela.
Le porte delle case si aprono, le donne escono fuori. Reggono tra le mani padelle e mestoli di bronzo, li schiantano gli uni sugli altri. Penteo sussulta stupefatto. Le donne stanno ferme sulle soglie, a creare fracasso come unite da un’invisibile e collettiva isteria. Il re vede i mariti precipitarsi fuori, li scorge mentre cercano di strappare dalle loro mani le pentole. Le donne li spintonano, scivolano dalle loro braccia come triglie appena pescate e continuano a picchiare i mestoli. Nelle colluttazioni alcuni uomini cadono a terra, le grida si sommano al clangore del bronzo.
«Che fai? Sei impazzita?»
«Smettila subito!»
«Torna in casa!»
«Ma cosa ti succede?»
Penteo scuote la testa, incredulo di fronte allo spettacolo che gli si para davanti, appena oltre le mura dell’acropoli. Avverte una presenza alle spalle, si volta e vede suo padre Echione. Indossa l’armatura intarsiata da comandante delle guardie reali, l’elmo calato sul volto come di consueto. I suoi occhi inumani – gli occhi del drago – sono accesi come gocce di magma. Nelle tenebre della notte, per un secondo Penteo lo trova terrificante. Lui, lo Sparto, nato dai denti del drago ucciso da Cadmo ai tempi della fondazione di Tebe, è un essere sovrumano. Una creatura di poche parole a cui il vecchio regnante, suo suocero, aveva scelto di non cedere il trono della città. Non sarebbe stato un buon re, un essere simile, per questo Cadmo lo aveva scavalcato investendo tutto sul nipote. Echione non si era contrariato e aveva accettato con piacere il comando dell’esercito. Era nato con la corazza addosso e con la corazza addosso sarebbe morto.
«È incredibile!» dice Penteo, rigirandosi a guardare le donne.
Echione lo affianca senza dire nulla. Guarda giù, impaziente. Sa che a breve riceverà degli ordini ed è pronto ad agire.
Penteo scorge qualcosa sotto di sé, alla base del palazzo. È sua madre Agave, figlia di Cadmo. Esce dal portone principale battendo le mani. Dietro di lei appaiono le sue sorelle, Ino e Autonoe. Il re le osserva a bocca aperta. Hanno i capelli sciolti sulla schiena, i piedi scalzi, le vesti da notte così leggere da far intravedere i corpi nudi. Battono le mani con energia, le loro teste dondolano di qua e di là, pesanti come meloni. Pochi passi e alle loro spalle si apre un ventaglio di donne. Escono dal portone, picchiando i mestoli e i palmi.
Sono le serve della reggia.
Tutte le serve.
«Ma che…?» Penteo osserva con occhi sbarrati la bianca emorragia di ancelle che dal palazzo si sparge per le strade dell’acropoli. Poi, il fragore metallico si ferma. Le tebane si arrestano, mestoli e padelle cadono a terra. Gli uomini si scambiano occhiate guardinghe, i cani continuano ad abbaiare. Qualcuno poggia le mani sulle spalle della moglie, qualcun altro la scuote.
Le donne sembrano essersi trasformate in statue di marmo.
Penteo trattiene il fiato. L’atmosfera è tesa, strana, come se tutta Tebe si stesse preparando a qualcosa di terrificante. Apre la bocca, la richiude.
Non sa cosa dire né cosa fare.
Poi, le donne gridano. Urla d’euforia simili ai richiami delle amazzoni scuotono la città dalle fondamenta alle fronde degli alberi. Penteo sente il sangue ghiacciarsi. Le donne corrono giù per le strade, lasciandosi le case alle spalle. Anche Agave e le sorelle saltano e gridano, e tutte insieme si precipitano fuori dall’acropoli sfrecciando tra le vie dell’asty, il cuore della città. Durante la corsa in molte si strappano le tuniche di dosso, rimanendo completamente nude, mentre i mariti tentano di afferrarle senza alcun risultato. Sono veloci. Puledre ribelli fuggite dal recinto.
«Raduna i soldati!» grida Penteo al padre, il volto deformato dalla rabbia. «Che nessuna donna fugga da Tebe!»
Echione si tuffa giù dalla gradinata della torre. Mezzo minuto e le vie si riempiono di soldati a cavallo e a piedi. Le donne, però, sono già fuggite. Le guardie sfrecciano in mezzo agli uomini che gridano e corrono per le strade. Il comandante e i suoi sottoposti si lanciano al galoppo fuori dalla città in direzione della campagna. I soldati a piedi si disperdono tra le vie e le case, alla ricerca di donne nascoste.
Nessuno sa cosa stia accadendo, ma tutti sanno che deve finire.
«Penteo!»
Il re si gira e vede il nonno salire gli ultimi gradini. Ha il fiato corto e indossa ancora la veste da notte, una tunica di lino bianco lunga fino ai malleoli.
«Ti ho cercato dappertutto. Hai visto che-»
«Torna a dormire» risponde il giovane re con aria sicura, scrutando la città. «È tutto sotto controllo.»
Cadmo lo affianca. Con una mano si asciuga la fronte rugosa, velata di sudore freddo. «Sapevo sarebbe accaduto.»
Penteo si rigira e lo guarda negli occhi, più irritato che sorpreso. «Che stai dicendo?»
«Tiresia lo aveva predetto.»
«Hah! Tiresia!» Penteo sputa a terra. Non gli è mai piaciuto quell’uomo né ha mai creduto alla genuinità della sua chiaroveggenza, ben nota in tutta la Beozia. «Il tuo oracolo personale.»
«Le sue visioni sono annebbiate, ma vere» continua Cadmo, con voce severa. Ha recuperato il fiato e ora si erge a schiena dritta accanto al nipote. «Urla inumane saliranno al cielo nella città del Drago e tutti sapranno che è giunta l’ora di Bromio
. Queste sono state le sue parole.»
«Bromio?» Penteo arriccia il naso. «E chi cazzo è Bromio? Ah, lasciami indovinare. Tiresia non può saperlo perché le sue visioni sono annebbiate.»
Il volto di Cadmo si scurisce. «Dovresti avere più rispetto di lui.»
«E tu dovresti smetterla di credere a tutto ciò che dice. È solo un truffatore.»
«Hai mandato le guardie contro le donne?»
«Sì. Ciò che è accaduto è intollerabile.»
«E cosa pensi di fare, quando gli uomini le riporteranno indietro?»
«Lo deciderò appena sarà il momento.»
«Agisci saggiamente.» Cadmo non aggiunge altro e si ritira.
Penteo indugia, poi si ritira a sua volta.
Un’ora più tardi, nella sala del trono, Echione comunica al figlio che le donne sono fuggite.
«Ne abbiamo catturate quindici» dice.
«Eravate a cavallo!» grida Penteo, incredulo. «Come hanno fatto a sfuggirvi?»
«Erano veloci. Molto. E spaventavano i cavalli. Tutti abbiamo rischiato di finire a terra. Le bestie s’impennavano.»
«Potevate abbandonare la groppa e rincorrerle a piedi!»
«Lo abbiamo fatto. Ma erano più veloci di noi.»
«Siete degli idioti, questa è la verità!»
Echione non batte ciglio. È abituato alle sfuriate del figlio e, a differenza sua, non possiede un orgoglio da poter ferire. Lui comanda le guardie reali e obbedisce agli ordini. E basta. «Sono fuggite a sud, in direzione del Monte Citerone. Erano nude come ninfe, rapide come lepri. Le abbiamo viste saltare tra gli alberi, strappare l’edera dalle cortecce e intrecciarla ai capelli. Ridevano e correvano, senza mai fermarsi a prendere fiato. Poi le abbiamo perse di vista, all’altezza dei campi d’orzo di Loutofi.»
Penteo si sfiora il mento. È stupito, ma cerca di non darlo a vedere. «Credi che vogliano nascondersi sul Citerone?»
«Ne sono sicuro. Gridavano al monte, al monte
.»
«Dove sono le quindici donne che avete catturato?»
«Nel cortile. Anche loro sono nude e-»
«Falle vestire.»
«Sarà fatto.»
«Poi rinchiudile in prigione.»
Il Drago non batte ciglio. Giustizia e ingiustizia sono concetti a lui estranei. «Ai tuoi ordini» dice, poi si gira e fa per andarsene.
Penteo si schiarisce la voce. «…e mia madre?» domanda, con evidente fatica. Toccare l’argomento gli è doloroso come ricordare una brutta figura. «Sai che è fuggita anche lei. L’hai vista dalla terrazza.»
Il comandante non si scompone, uno dei pochi mariti, in tutta la città, a non sentirsi abbandonato dalla sposa: il suo cuore sovrumano gestisce le emozioni in maniera differente. «Non l’abbiamo trovata. Né lei né le sorelle.»
«Lo immaginavo. Puoi andare.»
Echione si allontana e Penteo rimane solo nella notte.
Le donne nelle prigioni sono odiose. Ridono e picchiano le mani a terra, come scimmie nella giungla. Penteo fa loro visita una sola volta, ma non riesce a instaurare alcun dialogo. Quelle femmine gli ridono in faccia, strisciano sul muro della cella sussurrando misteriose parole sulla pietra, come se dall’altra parte qualcuno le stesse ascoltando. A volte gridano, a volte danzano strappandosi di dosso i pepli che, per suo ordine, sono tenute a indossare.
Il sogno di Penteo si mescola alla fantasia. La realtà perde spessore e importanza.
Sono belle, quelle donne. La prigionia non sembra sporcarle né deprimerle, ma ancora più attraenti sono coloro che hanno trovato rifugio tra gli alberi del Citerone. Donne tebane e straniere, giunte da terre sconosciute e lontane. Hanno i seni nudi, adorni di collane d’edera e bacche di mirto. Ballano alla luce della luna, ebbre di vino si leccano a vicenda tra le cosce, si accoppiano coi satiri, si toccano da sole, mai sazie di piacere. E Penteo le vede e desidera unirsi a loro, e in quell’inganno onirico così simile alla realtà – che, più che un sogno, sembra quasi una visione oracolare – vorrebbe vivere per sempre, perché quelle femmine sono troppo belle e seducenti, e lui non ha mai desiderato nulla nella vita, come ora desidera farsi consumare dal calore del loro branco. E loro si chinano su di lui come tigri alla fonte e in quella calca che profuma di pelle, muschio e fogliame una delle femmine gli si mette a cavalcioni sul bacino, e ora tutto funziona, ora il suo migliore soldato è pronto alla battaglia perché quelle donne sanno come sciogliere ogni sua inibizione, ogni sua sotterranea paura, e i loro capelli sono decorati con grappoli d’uva viola e gialla, le loro mani corrono dappertutto sul suo corpo, e in quell’orgia calda e intima lui si sente spaventosamente bene, e con un gemito di piacere la femmina lo possiede, accogliendo in sé la sua asta, e lui gode e sospira e nella nebbia del desiderio vede la bella selvaggia cambiare, i suoi connotati trasformarsi come riflessi sull’acqua increspata.
Ora non è più una fanciulla, ma un bellissimo ragazzo.
Un giovane coi capelli lunghi e scuri come il più aromatico dei vini, gli occhi verdi come scarabei di giada. Le sue gote sono purpuree per il piacere, il petto velato di sudore. Dal capo coronato d’edera gli pendono grappoli d’uva rossa e dorata. Sorride. Un sorriso indisponente, ma in qualche modo anche dolce.
Penteo lo guarda ipnotizzato. Sente le mani posarsi sui glutei di lui, le dita stringersi contro la sua volontà. Il ragazzo le ha condotte là e ora le preme contro la pelle per farsi afferrare.
«Ti piace?» gli domanda ancheggiando sopra di lui e accogliendo il suo fallo.
Il re cerca di parlare, si sforza, ma dalla sua bocca escono solo ansimi. Quanto lo eccita quel giovane dagli occhi di bosco! Il suo corpo armonioso e bollente, la manualità da prostituta esperta, il viso da fanciulla, così femmineo eppure maschile! Darebbe fuoco al proprio regno per lui, sterminerebbe la propria famiglia per lui, farebbe qualunque cosa, anche uccidersi, se solo lui glielo chiedesse. E ora gli affonda le unghie nelle natiche, voglioso di godere e farlo godere, e i grappoli d’uva che gli incorniciano il volto dondolano avanti e indietro a ogni spinta dei lombi, insieme ai boccoli bruni, e il ragazzo gli parla, ma la sua voce giunge da fuori,
(Abbandonati a me, Figlio del Drago)
(So che lo vuoi)
non appartiene al sogno, ma a Penteo non importa, lui sta godendo e godendo e godendo, e le donne tutt’intorno si stanno toccando e baciando, e la luna è alta nel cielo, e ovunque echeggia il rullo dei tamburi e…
Penteo aprì gli occhi. La luce che entrava dalla finestra gli ferì le pupille come se qualcuno gliele avesse urtate con le dita. Il cielo era azzurro pallido, l’aria aveva ancora l’odore della legna del focolare ormai ridotta a un cumulo di cenere. L’alba del quarto giorno dalla fuga delle donne era trascorsa da un paio d’ore.
Si girò sulla schiena e capì subito d’essere eccitato. Vide le coperte tendersi verso l’alto all’altezza dell’inguine, una piccola piramide di stoffa calda. Come a tutti gli uomini, anche a lui capitava di svegliarsi con quel genere di tensione, ma stavolta era differente.
Scese a toccarsi e capì subito che avrebbe potuto continuare: la sua voglia di scaricarsi era urgente.
Si morse il labbro e ritirò la mano.
Non ricordava cosa avesse sognato, ma aveva la certezza che non fosse onorevole, non per il re che desiderava essere, e il ricordo di ciò che aveva fatto la sera precedente era ancora vivo e ingombrante nella sua mente.
Rivolse il viso alla finestra e, fissando il cielo, attese che la voglia calasse quanto bastava per potere uscire dalla stanza senza imbarazzanti prominenze. Una decina di minuti e il suo corpo si rassegnò.
Uscì, scese le scale ed entrò nei bagni chiudendo la porta dietro di sé, poi si spogliò e si rovesciò un secchio d’acqua fredda sulla testa. Fu traumatico, ma anche rigenerante, come l’estrazione di una spina dalla carne. Quindi si asciugò, indossò uno dei suoi chitoni dagli orli fregiati, si posò sul capo la corona d’oro ereditata da Cadmo e si avviò verso la sala del trono.
2
La reggia era immensa, un complesso di androni e sale dalle pareti mosaicate tutto chiuso in se stesso, che Cadmo ed Echione avevano costruito assieme anni addietro, pietra su pietra. La corte interna era un quadrato perfetto, contornato da panchine di legno e colonne. Al centro, preannunciata da un largo tappeto blu mare che copriva buona parte del pavimento, si ergeva una statua di Penteo scolpita in puro marmo bianco, che troneggiava sull’ambiente e incuteva nel visitatore un vago senso di soggezione. Le porte erano scure e massicce con le maniglie di bronzo. Sulle ante era intagliata la sagoma stilizzata di un drago, lo stemma della casata reale; un simbolo che si riproponeva sui tendaggi cobalto che pendevano dal soffitto e sui grossi vasi di ceramica agli angoli delle stanze dai quali traboccavano mazzi di rose tristi, in via