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Le Baccanti
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E-book403 pagine4 ore

Le Baccanti

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Nella notte buia un’epidemia di follia si diffonde tra le vie di Tebe. Le donne gridano, si denudano, fuggono dalle case nascondendosi nelle foreste del monte Citerone dove, alla luce della luna, cantano inni barbari e celebrano riti misteriosi. A invasarle è uno straniero col fascino di Afrodite, le vesti in pelliccia di leopardo e il capo coronato d’uva profumata: Dioniso, il Signore del Delirio e dell’Ebbrezza, il più “terribile e dolce tra gli Dei”, che nella Città dalle Sette Porte cerca vendetta e adorazione. Ma Penteo, orgoglioso re di Tebe, è intenzionato a riportare l’ordine nel regno e ordina ai suoi soldati d’arrestarlo. Una dichiarazione di guerra che condurrà i due uno di fronte all’altro. E specchiandosi nel figlio di Zeus, il sovrano inizierà a perdere se stesso e le proprie convinzioni, scivolando in una dimensione di dolorosa e crescente follia.
LinguaItaliano
Data di uscita28 feb 2020
ISBN9788831661102
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    Anteprima del libro

    Le Baccanti - Giulia Marino

    Lin­de­mann

    INTRODUZIONE

    Ri­scri­ve­re un clas­si­co è sem­pre un pic­co­lo sa­cri­le­gio. I ca­po­la­vo­ri del pas­sa­to ci ap­pa­io­no co­me re­li­quie da con­ser­va­re e am­mi­ra­re a ri­spet­to­sa di­stan­za, sen­za al­za­re un di­to su di es­se, poi­ché il mi­ni­mo con­tat­to po­treb­be con­ta­mi­nar­le e spo­gliar­le del­la par­ti­co­la­re ma­gia che ema­na­no, e più que­sti me­ra­vi­glio­si te­so­ri so­no an­ti­chi e no­ti al mon­do, più ci sen­tia­mo in do­ve­re di te­ne­re le ma­ni bas­se. Per que­sta ra­gio­ne rea­gia­mo tut­ti con istin­ti­va dif­fi­den­za ogni vol­ta che un ar­ti­sta am­bi­zio­so en­tra nel­la zo­na di pro­fa­na­zio­ne per ma­ni­po­la­re qual­che re­li­quia. E pun­tual­men­te, pri­ma an­co­ra d’aver avu­to mo­do di co­no­sce­re l’ope­ra par­to­ri­ta dal pro­fa­na­to­re, si le­va un’an­ti­pa­ti­ca vo­ci­na nel­la no­stra te­sta: ave­va­mo dav­ve­ro bi­so­gno di que­sto re­ma­ke?

    No­no­stan­te io stes­sa ri­ma­neg­gi mi­ti e sto­rie del pas­sa­to, mi tro­vo spes­so in­trap­po­la­ta in que­sto mec­ca­ni­smo di ri­fiu­to pre­ven­ti­vo a pro­po­si­to di ri­scrit­tu­re e re­ma­ke, ed è un pen­sie­ro che mi tor­men­ta all’ini­zio di ogni pro­ces­so crea­ti­vo; un pen­sie­ro che mi ri­cor­da che so­no una pro­fa­na­tri­ce, e che non do­vrei fa­re ciò che sto per fa­re, per­ché qual­sia­si co­sa fa­rò ver­rà con­si­de­ra­ta un af­fron­to al­la bel­lez­za dell’ope­ra ori­gi­na­ria. Del re­sto, i ca­po­la­vo­ri non si pos­so­no su­pe­ra­re. Ma per quan­to ri­guar­da le ri­scrit­tu­re, il di­bat­ti­to è più com­ples­so di co­me ap­pa­re, per­ché se da un la­to è ve­ro che im­pa­sta­re un ca­po­la­vo­ro è un ge­sto sa­cri­le­go, dall’al­tro è in­ne­ga­bi­le che es­so con­tri­bui­sca a far vi­ve­re in eter­no l’ope­ra adat­tan­do­la ai tem­pi e ai let­to­ri mo­der­ni.

    Per­so­nal­men­te con­cor­do con Cal­vi­no quan­do di­ce che un clas­si­co è un li­bro che non ha mai fi­ni­to di di­re quel che ha da di­re, ma ri­ten­go an­che che per con­ti­nua­re a par­lar­ci es­so deb­ba met­ter­si in mo­vi­men­to, tra­sfor­mar­si, af­fac­ciar­si a nuo­va vi­ta. Ec­co, dun­que, il ve­ro di­lem­ma: di­fen­de­re la sa­cra­li­tà del te­sto ori­gi­na­rio, ren­den­do­lo di fat­to ac­ces­si­bi­le sol­tan­to a un ri­stret­to nu­me­ro di ad­det­ti ai la­vo­ri, o per­met­te­re che sia rein­ter­pre­ta­to at­traen­do co­sì una più am­pia pla­tea di let­to­ri, cor­ren­do pe­rò il ri­schio di sna­tu­ra­re la sua es­sen­za?

    Co­me in Sto­rie di Dei, io ho scel­to di scri­ve­re e ri­schia­re. Non la de­fi­ni­rei nep­pu­re una scel­ta, quan­to piut­to­sto una ne­ces­si­tà: chi scri­ve o crea ope­re ar­ti­sti­che d’al­tro ge­ne­re sa che non ci si può trat­te­ne­re quan­do l’ispi­ra­zio­ne è ai mas­si­mi li­vel­li, e Le Bac­can­ti di Eu­ri­pi­de è sta­ta, per me, una gi­gan­te­sca sor­gen­te d’ispi­ra­zio­ne. Nean­che sfor­zan­do­mi sa­rei riu­sci­ta a igno­ra­re il fa­sci­no di que­sta su­bli­me tra­ge­dia, che a di­stan­za di se­co­li rie­sce an­co­ra a com­muo­ve­re. Es­sa è ve­ra­men­te un ca­po­la­vo­ro. Co­sì sca­vai tra le sue pa­ro­le e la stu­diai a fon­do, per­den­do­mi ne­gli in­nu­me­re­vo­li sim­bo­li­smi e am­bi­gui­tà co­me ci si per­de in un la­bi­rin­to di spec­chi, per­ché un’ope­ra aven­te per pro­ta­go­ni­sta il Dio del­la Fol­lia non può che stor­di­re, e giun­ta al ter­mi­ne del­la mia as­si­mi­la­zio­ne co­min­ciai a scri­ve­re, ri­ma­nen­do sem­pre un pas­so in­die­tro ri­spet­to ai per­so­nag­gi e sen­za mai con­ce­de­re al­la tra­ma di li­brar­si in aria. Al­lon­ta­nar­mi dal­la tra­ge­dia eu­ri­pi­dia­na non è mai sta­to un mio de­si­de­rio e, seb­be­ne sia ri­ve­sti­ta di fan­ta­sia, l’ope­ra che vi ap­pre­sta­te a leg­ge­re ri­ma­ne Le Bac­can­ti: il con­tra­sto tra Dio­ni­so e Pen­teo, il de­li­rio mi­sti­co che con­su­ma le don­ne te­ba­ne, la vio­len­za del­le me­na­di gui­da­te da Aga­ve, il tra­ve­sti­ti­smo, gli im­pul­si sel­vag­gi, il do­lo­re e l’im­men­sa fra­gi­li­tà uma­na… I te­mi por­tan­ti del­la tra­ge­dia ci so­no tut­ti e non avreb­be po­tu­to che es­se­re co­sì.

    Am­met­to, pe­rò, che è sta­to dif­fi­ci­le tra­sfor­ma­re il la­vo­ro di Eu­ri­pi­de in ro­man­zo. I pro­ble­mi so­no sta­ti mol­te­pli­ci e si so­no pre­sen­ta­ti fin dal­la pri­ma ste­su­ra. Le Bac­can­ti na­sce tra il 407 e il 406 a.C. co­me ope­ra tea­tra­le e, in quan­to ta­le, ha una strut­tu­ra che fa­ti­ca a rien­tra­re ne­gli sche­mi del ro­man­zo; ba­sti pen­sa­re al­la pre­sen­za del co­ro che in­te­ra­gi­sce coi per­so­nag­gi o a scel­te nar­ra­ti­ve or­mai con­si­de­ra­te inac­cet­ta­bi­li, co­me il deus ex ma­chi­na. Il ro­man­zo, inol­tre, ne­ces­si­ta di quel toc­co di rea­li­smo in più ne­ces­sa­rio a far fun­zio­na­re il tut­to, ad aiu­ta­re il let­to­re a im­mer­ger­si in un mon­do det­ta­glia­to e cre­di­bi­le, e non so­lo ac­cen­na­to: ec­co per­ché ciò che fun­zio­na a tea­tro – per esem­pio, la scel­ta di rap­pre­sen­ta­re Pen­teo a cor­te sen­za al­cun pa­ren­te, a ec­ce­zio­ne di Cad­mo, mal­gra­do il re i fa­mi­lia­ri li aves­se, stan­do al­la tra­di­zio­ne mi­to­lo­gi­ca – non può fun­zio­na­re in un ro­man­zo. Per que­sta ra­gio­ne mi so­no con­ces­sa di af­fian­ca­re al so­vra­no due per­so­nag­gi d’in­ven­zio­ne e, so­prat­tut­to, i pa­ren­ti stret­ti che Eu­ri­pi­de non no­mi­na, ma che a mio pa­re­re me­ri­ta­no di far par­te del­la tra­ge­dia in quan­to le­ga­ti a es­sa da vin­co­li di san­gue: un at­to com­piu­to per amo­re del rea­li­smo, che spe­ro non scan­da­liz­zi trop­po.

    Ov­via­men­te mi so­no sof­fer­ma­ta mol­to sui per­so­nag­gi di Dio­ni­so e Pen­teo, i ve­ri e in­di­scus­si pro­ta­go­ni­sti dell’ope­ra. Eu­ri­pi­de li trat­teg­gia ap­pe­na, dan­do­ne una vi­sio­ne sem­pli­fi­ca­ta e pri­va di ap­pro­fon­di­men­to ca­rat­te­ria­le, ma que­sto non de­ve stu­pir­ci: sia nel­le ope­re tea­tra­li, sia nei mi­ti di tra­di­zio­ne an­ti­ca, i sim­bo­li­smi e la mo­ra­le han­no la pre­ce­den­za sull’in­tro­spe­zio­ne psi­co­lo­gi­ca dei pro­ta­go­ni­sti coin­vol­ti. Ho vo­lu­to, quin­di, pun­ta­re la len­te d’in­gran­di­men­to sui due av­ver­sa­ri e, al con­tem­po, ap­pro­fon­di­re ognu­no di lo­ro sin­go­lar­men­te per sen­ti­re co­sa ave­va­no da di­re. Pre­fe­ri­sco non ag­giun­ge­re al­tro ri­guar­do a Dio­ni­so e Pen­teo: de­si­de­ro che li sco­pria­te da so­li du­ran­te la let­tu­ra e che, giun­ti al ca­pi­to­lo fi­na­le, tra­ia­te le vo­stre per­so­na­li con­clu­sio­ni sull’in­te­ra vi­cen­da.

    Mi av­vio ver­so la con­clu­sio­ne di que­sta mo­de­sta in­tro­du­zio­ne ri­cor­dan­do­vi che lo sco­po pri­ma­rio di que­sto ro­man­zo è su­sci­ta­re nel let­to­re emo­zio­ni sin­ce­re, ac­com­pa­gnan­do­lo pa­gi­na do­po pa­gi­na nel vor­ti­ce del de­li­rio bac­chi­co. Mi ren­do con­to che non è co­sa fa­ci­le con­qui­sta­re un let­to­re e gui­dar­lo ma­no nel­la ma­no fi­no al­la fi­ne, e che è an­co­ra più dif­fi­ci­le riu­scir­ci quan­do si cam­mi­na su una via an­ti­ca e sa­cra co­me quel­la di un gran­de clas­si­co, ma se Dio­ni­so vor­rà vi ab­ban­do­ne­re­te al­la com­mo­zio­ne, al­lo spa­ven­to, all’ec­ci­ta­zio­ne sfre­na­ta. E io, co­me voi, sa­rò fe­li­ce.

    Vi la­scio al­le bac­can­ti.

    Buo­na fol­lia.

    Giu­lia Ma­ri­no

    Gen­na­io 2020

    1

    Se so­lo aves­se po­tu­to e fos­se sta­to fol­le a suf­fi­cien­za da com­pie­re un si­mi­le af­fron­to, quel­la not­te Pen­teo avreb­be af­fer­ra­to il Dio Hyp­nos per il col­lo e lo avreb­be ob­bli­ga­to a far­gli do­no del più pro­fon­do e ri­ge­ne­ran­te dei ri­po­si. Un son­no dol­ce, ami­co, in gra­do di al­lon­ta­nar­lo, sep­pu­re per po­che ore, dall’op­pri­men­te real­tà che lo cir­con­da­va. Ma l’Ad­dor­men­ta­to­re sem­bra­va aver­lo di­men­ti­ca­to o, peg­gio, sem­bra­va che stes­se igno­ran­do di pro­po­si­to le sue pre­ghie­re, e ciò lo ren­de­va fu­ren­te.

    Era il re di Te­be. Co­me po­te­va tol­le­ra­re che i suoi sud­di­ti dor­mis­se­ro bea­ti nei lo­ro gia­ci­gli di pa­glia, men­tre lui, ni­po­te di Cad­mo, fis­sa­va il sof­fit­to con oc­chi in­son­ni? Co­me po­te­va Hyp­nos spar­ge­re il son­no ovun­que tran­ne che sul­la sua po­ve­ra men­te? Non i por­ca­ri, non i mer­can­ti. Lui, Pen­teo, de­ten­to­re del tro­no te­ba­no, ave­va un di­spe­ra­to bi­so­gno di dor­mi­re per­ché sul­le sue spal­le gra­va­va il pe­so di ciò che sta­va ac­ca­den­do nel­la Cit­tà dal­le Set­te Por­te.

    Si ri­gi­rò tra le co­per­te tra­sci­nan­do­se­le die­tro. Il fo­co­la­re era ac­ce­so: un ret­tan­go­lo di fuo­co scop­piet­tan­te nel ne­ro del­la ca­me­ra. Con le lu­cer­ne spen­te, il ca­mi­no po­te­va ben po­co con­tro le te­ne­bre del­la not­te, se non spar­ge­re nell’am­bien­te il suo aro­ma di le­gna bru­cia­ta. Il buio co­pri­va ogni det­ta­glio del­la stan­za co­me un te­lo scu­ro, ap­piat­ten­do la sua ric­chez­za: pit­tu­re mu­ra­rie mul­ti­co­lo­ri, tap­pe­ti di la­na per­sia­na, va­si in ce­ra­mi­ca de­co­ra­ta. L’ele­gan­za de­gli ar­re­di s’in­tra­ve­de­va ap­pe­na, co­me se la ca­me­ra stes­sa si fos­se ad­dor­men­ta­ta e aves­se smes­so di ac­ce­ca­re col suo sfar­zo bril­lan­te.

    Pen­teo os­ser­vò le lin­gue di fuo­co che s’in­nal­za­va­no dai cep­pi in­can­de­scen­ti den­tro al ca­mi­no, e a po­co a po­co la sua in­vi­dia si spen­se. Sa­pe­va che era im­pos­si­bi­le che i suoi sud­di­ti stes­se­ro dor­men­do. Te­be era si­len­zio­sa, ma il suo era il si­len­zio te­so dell’in­son­nia; il si­len­zio di chi non può dor­mi­re per­ché trop­po spa­ven­ta­to, ar­rab­bia­to, smar­ri­to, e ri­fug­ge il son­no per ti­mo­re de­gli in­cu­bi.

    Il re si ti­rò su, al­lun­gò una ma­no ver­so il ta­vo­li­no cir­co­la­re ac­can­to al let­to e af­fer­rò la cop­pa che vi era po­sa­ta so­pra. Bev­ve. L’in­fu­so al­le er­be era an­co­ra tie­pi­do e gli cor­se giù per la go­la in po­chi istan­ti, la­scian­do­gli sul­la lin­gua un re­tro­gu­sto dol­cia­stro. Ro­ve­sciò la te­sta in­die­tro, per far sci­vo­la­re in boc­ca le ul­ti­me goc­ce, quin­di po­sò la cop­pa e si ri­but­tò giù.

    Ave­va fat­to fa­ti­ca a chie­de­re a Leon­te, il suo fi­da­to me­di­co, di pre­pa­rar­gli qual­co­sa che lo aiu­tas­se a dor­mi­re. A dir­la tut­ta, si era ver­go­gna­to da mo­ri­re. La man­can­za di son­no, in quel­le cir­co­stan­ze, era un in­di­ca­to­re di an­sia e tut­to de­si­de­ra­va, lui, tran­ne che pas­sa­re per an­sio­so. Ma do­ve­va dor­mi­re, co­sì a vo­ce bas­sa, pri­ma di ri­ti­rar­si in ca­me­ra, ave­va chie­sto l’aiu­to del me­di­co. In fin dei con­ti, non era an­da­ta co­sì ma­le. Il vec­chio ave­va an­nui­to sen­za mo­stra­re al­cu­no stu­po­re – era pur sem­pre l’uo­mo che si era cu­ra­to di ogni suo ma­lan­no, dai tem­pi in cui era an­co­ra un bam­bi­no che si sbuc­cia­va le gi­noc­chia o su­da­va per la feb­bre – e die­ci mi­nu­ti più tar­di gli ave­va in­via­to un ser­vo in ca­me­ra, con una cop­pa fu­man­te tra le ma­ni. Lui ave­va be­vu­to: ca­mo­mil­la, pas­si­flo­ra, ti­glio e chis­sà qua­le al­tra er­ba sco­no­sciu­ta, con una goc­cia di mie­le. Un in­fu­so gra­de­vo­le che, pe­rò, non ave­va sor­ti­to al­cun ef­fet­to. Cer­ti ma­li van­no sop­por­ta­ti fi­no all’ul­ti­ma fit­ta di fa­sti­dio. E ba­sta.

    In­ner­vo­si­to, Pen­teo stro­pic­ciò il guan­cia­le e si ri­gi­rò. La lu­ce gri­gia che pe­ne­tra­va dal­la fi­ne­stra sci­vo­lò sul suo vol­to stres­sa­to, crean­do un cu­po gio­co di om­bre.

    Era un so­vra­no gio­va­ne, sul­la so­glia del­le ven­ti­tré pri­ma­ve­re, coi ca­pel­li ca­sta­ni e gli oc­chi am­bra­ti e lu­cen­ti co­me quel­li di Echio­ne, suo pa­dre. Por­ta­va il vi­so sbar­ba­to co­me gli atle­ti del­le pa­le­stre. Il na­so era drit­to e lie­ve­men­te cur­vo in pun­ta, ere­di­tà di sua non­na Ar­mo­nia. Il men­to ton­do e lar­go, iden­ti­co a quel­lo di suo non­no Cad­mo. Nel com­ples­so era af­fa­sci­nan­te e ben pro­por­zio­na­to, ma tut­to di lui ema­na­va osti­li­tà e, per quan­to bel­lo fos­se, nes­su­na te­ba­na ave­va mai so­spi­ra­to al suo pas­sag­gio né lo ave­va mai sa­lu­ta­to con gio­ia. E men che me­no sa­reb­be ac­ca­du­to ora.

    (Pen­teo)

    Il re os­ser­vò il qua­dra­to di cie­lo blu che si sta­glia­va sul­la pa­re­te ne­ra. Ave­va l’im­pres­sio­ne che qual­cu­no, da qual­che par­te, gli stes­se par­lan­do. Una pre­sen­za lon­ta­na, mi­ste­rio­sa. L’en­ne­si­mo scher­zo del­la stan­chez­za. For­se.

    Chiu­se gli oc­chi.

    (So­no qui)

    (La sen­ti la mia po­ten­za?)

    Pen­teo in­fi­lò la ma­no sot­to al­le len­zuo­la e sce­se giù, tra le gam­be. Co­min­ciò a toc­car­si. Col­pi a pu­gno chiu­so, dal prin­ci­pio len­ti poi fret­to­lo­si, che gli of­fri­ro­no im­me­dia­to go­di­men­to men­tre coi pen­sie­ri at­tin­ge­va al poz­zo del­le sue in­con­fes­sa­bi­li fan­ta­sie. Ama­va e odia­va per­der­si in quell’at­to, che pri­ma lo sca­ra­ven­ta­va tra le stel­le e do­po lo schiac­cia­va a ter­ra, a fa­re i con­ti con la pro­pria ver­go­gna. De­si­de­ra­va es­se­re un vir­tuo­so, un pu­ro, un il­lu­mi­na­to. Un so­vra­no in gra­do di at­trar­re su di sé gli oc­chi glau­chi del­la sag­gia e ca­sta Ate­na. Ma ora ave­va bi­so­gno di ri­tro­va­re il suo equi­li­brio e di sta­re be­ne, al­me­no per un po’.

    (Non re­si­ster­mi)

    (Pen­teo)

    Il te­ba­no sen­tì il pia­ce­re cre­sce­re e cre­sce­re, un fuo­co che dall’in­gui­ne si pro­pa­gò al ven­tre, al pet­to, al­le guan­ce. Si sfre­gò più ve­lo­ce­men­te, co­me se vo­les­se pu­nir­si, e men­tre si af­fret­ta­va ver­so l’api­ce lo de­si­de­rò dav­ve­ro.

    (Ac­cet­ta­mi)

    (E an­drà tut­to be­ne)

    Pen­teo rag­giun­se l’or­ga­smo, le sue di­ta s’inu­mi­di­ro­no. Emi­se un ge­mi­to e con­ti­nuò a tor­tu­rar­si in pre­da al­le fiam­me, poi il suo pia­ce­re si spen­se. So­spi­rò pe­san­te­men­te, co­me un lot­ta­to­re giun­to al­la fi­ne del­la più ar­dua del­le ga­re, e i suoi oc­chi stre­ma­ti tor­na­ro­no al sof­fit­to. Fu so­lo un mo­men­to, poi si ri­chiu­se­ro, vin­ti dal­la sen­sa­zio­ne di pa­ce che so­lo la vet­ta del go­di­men­to ses­sua­le è in gra­do d’of­fri­re. Ascol­tò il pro­prio re­spi­ro af­fa­ti­ca­to e gli sem­brò di star­si squa­glian­do, di sta­re di­ven­tan­do un tutt’uno con le la­no­se co­per­te e le len­zuo­la umi­de di su­do­re.

    Non più un so­vra­no, non più un uo­mo.

    So­lo un in­si­gni­fi­can­te nien­te.

    In­fi­ne, Hyp­nos ca­lò su di lui e gli sfio­rò la fron­te con le sue so­po­ri­fe­re di­ta. Un toc­co soa­ve, qua­si una ca­rez­za, e Pen­teo co­min­ciò a so­gna­re ciò che era ac­ca­du­to.

    Clan­go­re di fer­ro.

    Un fra­cas­so me­tal­li­co che squar­cia la not­te e si ri­pe­te ugua­le a se stes­so, as­sor­dan­te co­me mil­le ful­mi­ni sca­glia­ti da Zeus nel me­de­si­mo mo­men­to.

    Pen­teo si sve­glia di so­pras­sal­to, i suoi oc­chi scon­vol­ti in­con­tra­no il ne­ro del buio che per­va­de la stan­za. Lo scon­quas­so fer­ro­so gli rim­bom­ba nel­le orec­chie co­me un ter­ri­bi­le in­sul­to. Pro­vie­ne da fuo­ri, dal­la stra­da. Un eser­ci­to ne­mi­co che pic­chia le spa­de con­tro gli scu­di, for­te, sem­pre più for­te. Non può es­se­re al­tro che quel­lo. Tut­ti i ca­ni di Te­be ab­ba­ia­no so­pra al gri­do di quel­le ar­mi.

    Il re sca­ra­ven­ta via le co­per­te e si sca­glia fuo­ri dal­la stan­za, lan­cian­do­si nel cor­ri­do­io. I suoi pie­di scal­zi sal­ta­no con fa­sti­dio sul ge­li­do pa­vi­men­to. La ve­ste da not­te, lun­ga fi­no al gi­noc­chio, non rie­sce a pro­teg­ger­lo dal fred­do che aleg­gia nel pa­laz­zo. Scen­de le sca­le che con­du­co­no al pia­no in­fe­rio­re, sen­za sa­pe­re do­ve sta an­dan­do, e gi­ra l’an­go­lo. Ser­vi im­paz­zi­ti gli cor­ro­no in­con­tro e lo som­mer­go­no col lo­ro ter­ro­re.

    «Non lo so! Non lo so!» gri­da, pre­ci­pi­tan­do­si nel­la sa­la dei ri­ce­vi­men­ti. Chi­lo­ne, il suo con­si­glie­re, lo as­sa­le. È pal­li­do e i suoi oc­chi so­no enor­mi co­me quel­li di un gu­fo.

    «Dov’è mio non­no?» chie­de il so­vra­no e su­bi­to si pen­te di quel­la do­man­da. Spet­ta a lui, e a nes­sun al­tro, ri­sol­ve­re la si­tua­zio­ne.

    «In ca­me­ra. Cre­do stia ar­ri­van­do» ri­spon­de il con­si­glie­re. «Mae­stà, co­sa-»

    Pen­teo esce dal­la sa­la e si tuf­fa su per i gra­di­ni che con­du­co­no al­le ter­raz­ze. Il pa­laz­zo rea­le è l’edi­fi­cio più al­to di tut­ta l’acro­po­li. Da lì po­trà ve­de­re l’eser­ci­to. Il ge­lo del­la not­te lo ag­gre­di­sce e gli scuo­te la ve­ste. Fa fred­do las­sù, mal­gra­do gli enor­mi bra­cie­ri che ar­do­no agli an­go­li del­la ter­raz­za. Si af­fac­cia. Le sue di­ta si ag­grap­pa­no al­la pie­tra, co­me gli ar­ti­gli di un’aqui­la in­tor­no al cor­po del­la pre­da.

    Te­be è de­ser­ta.

    Nes­sun eser­ci­to, nes­sun in­va­so­re.

    So­lo i tet­ti del­le ca­se, gli usci il­lu­mi­na­ti dal­le tor­ce, le stra­de vuo­te.

    Ep­pu­re il ru­mo­re scuo­te an­co­ra l’aria, in­con­fon­di­bi­le fra­cas­so di fer­ro. I ca­ni ab­ba­ia­no e ab­ba­ia­no. Pen­teo non ca­pi­sce. Sta ac­ca­den­do qual­co­sa sot­to a quei tet­ti, e non è qual­co­sa di buo­no.

    È sul pun­to di an­dar­se­ne e scen­de­re di sot­to, quan­do la ve­ri­tà si ri­ve­la.

    Le por­te del­le ca­se si apro­no, le don­ne esco­no fuo­ri. Reg­go­no tra le ma­ni pa­del­le e me­sto­li di bron­zo, li schian­ta­no gli uni su­gli al­tri. Pen­teo sus­sul­ta stu­pe­fat­to. Le don­ne stan­no fer­me sul­le so­glie, a crea­re fra­cas­so co­me uni­te da un’in­vi­si­bi­le e col­let­ti­va iste­ria. Il re ve­de i ma­ri­ti pre­ci­pi­tar­si fuo­ri, li scor­ge men­tre cer­ca­no di strap­pa­re dal­le lo­ro ma­ni le pen­to­le. Le don­ne li spin­to­na­no, sci­vo­la­no dal­le lo­ro brac­cia co­me tri­glie ap­pe­na pe­sca­te e con­ti­nua­no a pic­chia­re i me­sto­li. Nel­le col­lut­ta­zio­ni al­cu­ni uo­mi­ni ca­do­no a ter­ra, le gri­da si som­ma­no al clan­go­re del bron­zo.

    «Che fai? Sei im­paz­zi­ta?»

    «Smet­ti­la su­bi­to!»

    «Tor­na in ca­sa!»

    «Ma co­sa ti suc­ce­de?»

    Pen­teo scuo­te la te­sta, in­cre­du­lo di fron­te al­lo spet­ta­co­lo che gli si pa­ra da­van­ti, ap­pe­na ol­tre le mu­ra dell’acro­po­li. Av­ver­te una pre­sen­za al­le spal­le, si vol­ta e ve­de suo pa­dre Echio­ne. In­dos­sa l’ar­ma­tu­ra in­tar­sia­ta da co­man­dan­te del­le guar­die rea­li, l’el­mo ca­la­to sul vol­to co­me di con­sue­to. I suoi oc­chi inu­ma­ni – gli oc­chi del dra­go – so­no ac­ce­si co­me goc­ce di mag­ma. Nel­le te­ne­bre del­la not­te, per un se­con­do Pen­teo lo tro­va ter­ri­fi­can­te. Lui, lo Spar­to, na­to dai den­ti del dra­go uc­ci­so da Cad­mo ai tem­pi del­la fon­da­zio­ne di Te­be, è un es­se­re so­vru­ma­no. Una crea­tu­ra di po­che pa­ro­le a cui il vec­chio re­gnan­te, suo suo­ce­ro, ave­va scel­to di non ce­de­re il tro­no del­la cit­tà. Non sa­reb­be sta­to un buon re, un es­se­re si­mi­le, per que­sto Cad­mo lo ave­va sca­val­ca­to in­ve­sten­do tut­to sul ni­po­te. Echio­ne non si era con­tra­ria­to e ave­va ac­cet­ta­to con pia­ce­re il co­man­do dell’eser­ci­to. Era na­to con la co­raz­za ad­dos­so e con la co­raz­za ad­dos­so sa­reb­be mor­to.

    «È in­cre­di­bi­le!» di­ce Pen­teo, ri­gi­ran­do­si a guar­da­re le don­ne.

    Echio­ne lo af­fian­ca sen­za di­re nul­la. Guar­da giù, im­pa­zien­te. Sa che a bre­ve ri­ce­ve­rà de­gli or­di­ni ed è pron­to ad agi­re.

    Pen­teo scor­ge qual­co­sa sot­to di sé, al­la ba­se del pa­laz­zo. È sua ma­dre Aga­ve, fi­glia di Cad­mo. Esce dal por­to­ne prin­ci­pa­le bat­ten­do le ma­ni. Die­tro di lei ap­pa­io­no le sue so­rel­le, Ino e Au­to­noe. Il re le os­ser­va a boc­ca aper­ta. Han­no i ca­pel­li sciol­ti sul­la schie­na, i pie­di scal­zi, le ve­sti da not­te co­sì leg­ge­re da far in­tra­ve­de­re i cor­pi nu­di. Bat­to­no le ma­ni con ener­gia, le lo­ro te­ste don­do­la­no di qua e di là, pe­san­ti co­me me­lo­ni. Po­chi pas­si e al­le lo­ro spal­le si apre un ven­ta­glio di don­ne. Esco­no dal por­to­ne, pic­chian­do i me­sto­li e i pal­mi.

    So­no le ser­ve del­la reg­gia.

    Tut­te le ser­ve.

    «Ma che…?» Pen­teo os­ser­va con oc­chi sbar­ra­ti la bian­ca emor­ra­gia di an­cel­le che dal pa­laz­zo si spar­ge per le stra­de dell’acro­po­li. Poi, il fra­go­re me­tal­li­co si fer­ma. Le te­ba­ne si ar­re­sta­no, me­sto­li e pa­del­le ca­do­no a ter­ra. Gli uo­mi­ni si scam­bia­no oc­chia­te guar­din­ghe, i ca­ni con­ti­nua­no ad ab­ba­ia­re. Qual­cu­no pog­gia le ma­ni sul­le spal­le del­la mo­glie, qual­cun al­tro la scuo­te.

    Le don­ne sem­bra­no es­ser­si tra­sfor­ma­te in sta­tue di mar­mo.

    Pen­teo trat­tie­ne il fia­to. L’at­mo­sfe­ra è te­sa, stra­na, co­me se tut­ta Te­be si stes­se pre­pa­ran­do a qual­co­sa di ter­ri­fi­can­te. Apre la boc­ca, la ri­chiu­de.

    Non sa co­sa di­re né co­sa fa­re.

    Poi, le don­ne gri­da­no. Ur­la d’eu­fo­ria si­mi­li ai ri­chia­mi del­le amaz­zo­ni scuo­to­no la cit­tà dal­le fon­da­men­ta al­le fron­de de­gli al­be­ri. Pen­teo sen­te il san­gue ghiac­ciar­si. Le don­ne cor­ro­no giù per le stra­de, la­scian­do­si le ca­se al­le spal­le. An­che Aga­ve e le so­rel­le sal­ta­no e gri­da­no, e tut­te in­sie­me si pre­ci­pi­ta­no fuo­ri dall’acro­po­li sfrec­cian­do tra le vie dell’asty, il cuo­re del­la cit­tà. Du­ran­te la cor­sa in mol­te si strap­pa­no le tu­ni­che di dos­so, ri­ma­nen­do com­ple­ta­men­te nu­de, men­tre i ma­ri­ti ten­ta­no di af­fer­rar­le sen­za al­cun ri­sul­ta­to. So­no ve­lo­ci. Pu­le­dre ri­bel­li fug­gi­te dal re­cin­to.

    «Ra­du­na i sol­da­ti!» gri­da Pen­teo al pa­dre, il vol­to de­for­ma­to dal­la rab­bia. «Che nes­su­na don­na fug­ga da Te­be!»

    Echio­ne si tuf­fa giù dal­la gra­di­na­ta del­la tor­re. Mez­zo mi­nu­to e le vie si riem­pio­no di sol­da­ti a ca­val­lo e a pie­di. Le don­ne, pe­rò, so­no già fug­gi­te. Le guar­die sfrec­cia­no in mez­zo agli uo­mi­ni che gri­da­no e cor­ro­no per le stra­de. Il co­man­dan­te e i suoi sot­to­po­sti si lan­cia­no al ga­lop­po fuo­ri dal­la cit­tà in di­re­zio­ne del­la cam­pa­gna. I sol­da­ti a pie­di si di­sper­do­no tra le vie e le ca­se, al­la ri­cer­ca di don­ne na­sco­ste.

    Nes­su­no sa co­sa stia ac­ca­den­do, ma tut­ti san­no che de­ve fi­ni­re.

    «Pen­teo!»

    Il re si gi­ra e ve­de il non­no sa­li­re gli ul­ti­mi gra­di­ni. Ha il fia­to cor­to e in­dos­sa an­co­ra la ve­ste da not­te, una tu­ni­ca di li­no bian­co lun­ga fi­no ai mal­leo­li.

    «Ti ho cer­ca­to dap­per­tut­to. Hai vi­sto che-»

    «Tor­na a dor­mi­re» ri­spon­de il gio­va­ne re con aria si­cu­ra, scru­tan­do la cit­tà. «È tut­to sot­to con­trol­lo.»

    Cad­mo lo af­fian­ca. Con una ma­no si asciu­ga la fron­te ru­go­sa, ve­la­ta di su­do­re fred­do. «Sa­pe­vo sa­reb­be ac­ca­du­to.»

    Pen­teo si ri­gi­ra e lo guar­da ne­gli oc­chi, più ir­ri­ta­to che sor­pre­so. «Che stai di­cen­do?»

    «Ti­re­sia lo ave­va pre­det­to.»

    «Hah! Ti­re­sia!» Pen­teo spu­ta a ter­ra. Non gli è mai pia­ciu­to quell’uo­mo né ha mai cre­du­to al­la ge­nui­ni­tà del­la sua chia­ro­veg­gen­za, ben no­ta in tut­ta la Beo­zia. «Il tuo ora­co­lo per­so­na­le.»

    «Le sue vi­sio­ni so­no an­neb­bia­te, ma ve­re» con­ti­nua Cad­mo, con vo­ce se­ve­ra. Ha re­cu­pe­ra­to il fia­to e ora si er­ge a schie­na drit­ta ac­can­to al ni­po­te. «Ur­la inu­ma­ne sa­li­ran­no al cie­lo nel­la cit­tà del Dra­go e tut­ti sa­pran­no che è giun­ta l’ora di Bro­mio. Que­ste so­no sta­te le sue pa­ro­le.»

    «Bro­mio?» Pen­teo ar­ric­cia il na­so. «E chi caz­zo è Bro­mio? Ah, la­scia­mi in­do­vi­na­re. Ti­re­sia non può sa­per­lo per­ché le sue vi­sio­ni so­no an­neb­bia­te.»

    Il vol­to di Cad­mo si scu­ri­sce. «Do­vre­sti ave­re più ri­spet­to di lui.»

    «E tu do­vre­sti smet­ter­la di cre­de­re a tut­to ciò che di­ce. È so­lo un truf­fa­to­re.»

    «Hai man­da­to le guar­die con­tro le don­ne?»

    «Sì. Ciò che è ac­ca­du­to è in­tol­le­ra­bi­le.»

    «E co­sa pen­si di fa­re, quan­do gli uo­mi­ni le ri­por­te­ran­no in­die­tro?»

    «Lo de­ci­de­rò ap­pe­na sa­rà il mo­men­to.»

    «Agi­sci sag­gia­men­te.» Cad­mo non ag­giun­ge al­tro e si ri­ti­ra.

    Pen­teo in­du­gia, poi si ri­ti­ra a sua vol­ta.

    Un’ora più tar­di, nel­la sa­la del tro­no, Echio­ne co­mu­ni­ca al fi­glio che le don­ne so­no fug­gi­te.

    «Ne ab­bia­mo cat­tu­ra­te quin­di­ci» di­ce.

    «Era­va­te a ca­val­lo!» gri­da Pen­teo, in­cre­du­lo. «Co­me han­no fat­to a sfug­gir­vi?»

    «Era­no ve­lo­ci. Mol­to. E spa­ven­ta­va­no i ca­val­li. Tut­ti ab­bia­mo ri­schia­to di fi­ni­re a ter­ra. Le be­stie s’im­pen­na­va­no.»

    «Po­te­va­te ab­ban­do­na­re la grop­pa e rin­cor­rer­le a pie­di!»

    «Lo ab­bia­mo fat­to. Ma era­no più ve­lo­ci di noi.»

    «Sie­te de­gli idio­ti, que­sta è la ve­ri­tà!»

    Echio­ne non bat­te ci­glio. È abi­tua­to al­le sfu­ria­te del fi­glio e, a dif­fe­ren­za sua, non pos­sie­de un or­go­glio da po­ter fe­ri­re. Lui co­man­da le guar­die rea­li e ob­be­di­sce agli or­di­ni. E ba­sta. «So­no fug­gi­te a sud, in di­re­zio­ne del Mon­te Ci­te­ro­ne. Era­no nu­de co­me nin­fe, ra­pi­de co­me le­pri. Le ab­bia­mo vi­ste sal­ta­re tra gli al­be­ri, strap­pa­re l’ede­ra dal­le cor­tec­ce e in­trec­ciar­la ai ca­pel­li. Ri­de­va­no e cor­re­va­no, sen­za mai fer­mar­si a pren­de­re fia­to. Poi le ab­bia­mo per­se di vi­sta, all’al­tez­za dei cam­pi d’or­zo di Lou­to­fi.»

    Pen­teo si sfio­ra il men­to. È stu­pi­to, ma cer­ca di non dar­lo a ve­de­re. «Cre­di che vo­glia­no na­scon­der­si sul Ci­te­ro­ne?»

    «Ne so­no si­cu­ro. Gri­da­va­no al mon­te, al mon­te

    «Do­ve so­no le quin­di­ci don­ne che ave­te cat­tu­ra­to?»

    «Nel cor­ti­le. An­che lo­ro so­no nu­de e-»

    «Fal­le ve­sti­re.»

    «Sa­rà fat­to.»

    «Poi rin­chiu­di­le in pri­gio­ne.»

    Il Dra­go non bat­te ci­glio. Giu­sti­zia e in­giu­sti­zia so­no con­cet­ti a lui estra­nei. «Ai tuoi or­di­ni» di­ce, poi si gi­ra e fa per an­dar­se­ne.

    Pen­teo si schia­ri­sce la vo­ce. «…e mia ma­dre?» do­man­da, con evi­den­te fa­ti­ca. Toc­ca­re l’ar­go­men­to gli è do­lo­ro­so co­me ri­cor­da­re una brut­ta fi­gu­ra. «Sai che è fug­gi­ta an­che lei. L’hai vi­sta dal­la ter­raz­za.»

    Il co­man­dan­te non si scom­po­ne, uno dei po­chi ma­ri­ti, in tut­ta la cit­tà, a non sen­tir­si ab­ban­do­na­to dal­la spo­sa: il suo cuo­re so­vru­ma­no ge­sti­sce le emo­zio­ni in ma­nie­ra dif­fe­ren­te. «Non l’ab­bia­mo tro­va­ta. Né lei né le so­rel­le.»

    «Lo im­ma­gi­na­vo. Puoi an­da­re.»

    Echio­ne si al­lon­ta­na e Pen­teo ri­ma­ne so­lo nel­la not­te.

    Le don­ne nel­le pri­gio­ni so­no odio­se. Ri­do­no e pic­chia­no le ma­ni a ter­ra, co­me scim­mie nel­la giun­gla. Pen­teo fa lo­ro vi­si­ta una so­la vol­ta, ma non rie­sce a in­stau­ra­re al­cun dia­lo­go. Quel­le fem­mi­ne gli ri­do­no in fac­cia, stri­scia­no sul mu­ro del­la cel­la sus­sur­ran­do mi­ste­rio­se pa­ro­le sul­la pie­tra, co­me se dall’al­tra par­te qual­cu­no le stes­se ascol­tan­do. A vol­te gri­da­no, a vol­te dan­za­no strap­pan­do­si di dos­so i pe­pli che, per suo or­di­ne, so­no te­nu­te a in­dos­sa­re.

    Il so­gno di Pen­teo si me­sco­la al­la fan­ta­sia. La real­tà per­de spes­so­re e im­por­tan­za.

    So­no bel­le, quel­le don­ne. La pri­gio­nia non sem­bra spor­car­le né de­pri­mer­le, ma an­co­ra più at­traen­ti so­no co­lo­ro che han­no tro­va­to ri­fu­gio tra gli al­be­ri del Ci­te­ro­ne. Don­ne te­ba­ne e stra­nie­re, giun­te da ter­re sco­no­sciu­te e lon­ta­ne. Han­no i se­ni nu­di, ador­ni di col­la­ne d’ede­ra e bac­che di mir­to. Bal­la­no al­la lu­ce del­la lu­na, eb­bre di vi­no si lec­ca­no a vi­cen­da tra le co­sce, si ac­cop­pia­no coi sa­ti­ri, si toc­ca­no da so­le, mai sa­zie di pia­ce­re. E Pen­teo le ve­de e de­si­de­ra unir­si a lo­ro, e in quell’in­gan­no oni­ri­co co­sì si­mi­le al­la real­tà – che, più che un so­gno, sem­bra qua­si una vi­sio­ne ora­co­la­re – vor­reb­be vi­ve­re per sem­pre, per­ché quel­le fem­mi­ne so­no trop­po bel­le e se­du­cen­ti, e lui non ha mai de­si­de­ra­to nul­la nel­la vi­ta, co­me ora de­si­de­ra far­si con­su­ma­re dal ca­lo­re del lo­ro bran­co. E lo­ro si chi­na­no su di lui co­me ti­gri al­la fon­te e in quel­la cal­ca che pro­fu­ma di pel­le, mu­schio e fo­glia­me una del­le fem­mi­ne gli si met­te a ca­val­cio­ni sul ba­ci­no, e ora tut­to fun­zio­na, ora il suo mi­glio­re sol­da­to è pron­to al­la bat­ta­glia per­ché quel­le don­ne san­no co­me scio­glie­re ogni sua ini­bi­zio­ne, ogni sua sot­ter­ra­nea pau­ra, e i lo­ro ca­pel­li so­no de­co­ra­ti con grap­po­li d’uva vio­la e gial­la, le lo­ro ma­ni cor­ro­no dap­per­tut­to sul suo cor­po, e in quell’or­gia cal­da e in­ti­ma lui si sen­te spa­ven­to­sa­men­te be­ne, e con un ge­mi­to di pia­ce­re la fem­mi­na lo pos­sie­de, ac­co­glien­do in sé la sua asta, e lui go­de e so­spi­ra e nel­la neb­bia del de­si­de­rio ve­de la bel­la sel­vag­gia cam­bia­re, i suoi con­no­ta­ti tra­sfor­mar­si co­me ri­fles­si sull’ac­qua in­cre­spa­ta.

    Ora non è più una fan­ciul­la, ma un bel­lis­si­mo ra­gaz­zo.

    Un gio­va­ne coi ca­pel­li lun­ghi e scu­ri co­me il più aro­ma­ti­co dei vi­ni, gli oc­chi ver­di co­me sca­ra­bei di gia­da. Le sue go­te so­no pur­pu­ree per il pia­ce­re, il pet­to ve­la­to di su­do­re. Dal ca­po co­ro­na­to d’ede­ra gli pen­do­no grap­po­li d’uva ros­sa e do­ra­ta. Sor­ri­de. Un sor­ri­so in­di­spo­nen­te, ma in qual­che mo­do an­che dol­ce.

    Pen­teo lo guar­da ip­no­tiz­za­to. Sen­te le ma­ni po­sar­si sui glu­tei di lui, le di­ta strin­ger­si con­tro la sua vo­lon­tà. Il ra­gaz­zo le ha con­dot­te là e ora le pre­me con­tro la pel­le per far­si af­fer­ra­re.

    «Ti pia­ce?» gli do­man­da an­cheg­gian­do so­pra di lui e ac­co­glien­do il suo fal­lo.

    Il re cer­ca di par­la­re, si sfor­za, ma dal­la sua boc­ca esco­no so­lo an­si­mi. Quan­to lo ec­ci­ta quel gio­va­ne da­gli oc­chi di bo­sco! Il suo cor­po ar­mo­nio­so e bol­len­te, la ma­nua­li­tà da pro­sti­tu­ta esper­ta, il vi­so da fan­ciul­la, co­sì fem­mi­neo ep­pu­re ma­schi­le! Da­reb­be fuo­co al pro­prio re­gno per lui, ster­mi­ne­reb­be la pro­pria fa­mi­glia per lui, fa­reb­be qua­lun­que co­sa, an­che uc­ci­der­si, se so­lo lui glie­lo chie­des­se. E ora gli af­fon­da le un­ghie nel­le na­ti­che, vo­glio­so di go­de­re e far­lo go­de­re, e i grap­po­li d’uva che gli in­cor­ni­cia­no il vol­to don­do­la­no avan­ti e in­die­tro a ogni spin­ta dei lom­bi, in­sie­me ai boc­co­li bru­ni, e il ra­gaz­zo gli par­la, ma la sua vo­ce giun­ge da fuo­ri,

    (Ab­ban­do­na­ti a me, Fi­glio del Dra­go)

    (So che lo vuoi)

    non ap­par­tie­ne al so­gno, ma a Pen­teo non im­por­ta, lui sta go­den­do e go­den­do e go­den­do, e le don­ne tutt’in­tor­no si stan­no toc­can­do e ba­cian­do, e la lu­na è al­ta nel cie­lo, e ovun­que echeg­gia il rul­lo dei tam­bu­ri e…

    Pen­teo aprì gli oc­chi. La lu­ce che en­tra­va dal­la fi­ne­stra gli fe­rì le pu­pil­le co­me se qual­cu­no glie­le aves­se ur­ta­te con le di­ta. Il cie­lo era az­zur­ro pal­li­do, l’aria ave­va an­co­ra l’odo­re del­la le­gna del fo­co­la­re or­mai ri­dot­ta a un cu­mu­lo di ce­ne­re. L’al­ba del quar­to gior­no dal­la fu­ga del­le don­ne era tra­scor­sa da un pa­io d’ore.

    Si gi­rò sul­la schie­na e ca­pì su­bi­to d’es­se­re ec­ci­ta­to. Vi­de le co­per­te ten­der­si ver­so l’al­to all’al­tez­za dell’in­gui­ne, una pic­co­la pi­ra­mi­de di stof­fa cal­da. Co­me a tut­ti gli uo­mi­ni, an­che a lui ca­pi­ta­va di sve­gliar­si con quel ge­ne­re di ten­sio­ne, ma sta­vol­ta era dif­fe­ren­te.

    Sce­se a toc­car­si e ca­pì su­bi­to che avreb­be po­tu­to con­ti­nua­re: la sua vo­glia di sca­ri­car­si era ur­gen­te.

    Si mor­se il lab­bro e ri­ti­rò la ma­no.

    Non ri­cor­da­va co­sa aves­se so­gna­to, ma ave­va la cer­tez­za che non fos­se ono­re­vo­le, non per il re che de­si­de­ra­va es­se­re, e il ri­cor­do di ciò che ave­va fat­to la se­ra pre­ce­den­te era an­co­ra vi­vo e in­gom­bran­te nel­la sua men­te.

    Ri­vol­se il vi­so al­la fi­ne­stra e, fis­san­do il cie­lo, at­te­se che la vo­glia ca­las­se quan­to ba­sta­va per po­te­re usci­re dal­la stan­za sen­za im­ba­raz­zan­ti pro­mi­nen­ze. Una de­ci­na di mi­nu­ti e il suo cor­po si ras­se­gnò.

    Uscì, sce­se le sca­le ed en­trò nei ba­gni chiu­den­do la por­ta die­tro di sé, poi si spo­gliò e si ro­ve­sciò un sec­chio d’ac­qua fred­da sul­la te­sta. Fu trau­ma­ti­co, ma an­che ri­ge­ne­ran­te, co­me l’estra­zio­ne di una spi­na dal­la car­ne. Quin­di si asciu­gò, in­dos­sò uno dei suoi chi­to­ni da­gli or­li fre­gia­ti, si po­sò sul ca­po la co­ro­na d’oro ere­di­ta­ta da Cad­mo e si av­viò ver­so la sa­la del tro­no.

    2

    La reg­gia era im­men­sa, un com­ples­so di an­dro­ni e sa­le dal­le pa­re­ti mo­sai­ca­te tut­to chiu­so in se stes­so, che Cad­mo ed Echio­ne ave­va­no co­strui­to as­sie­me an­ni ad­die­tro, pie­tra su pie­tra. La cor­te in­ter­na era un qua­dra­to per­fet­to, con­tor­na­to da pan­chi­ne di le­gno e co­lon­ne. Al cen­tro, pre­an­nun­cia­ta da un lar­go tap­pe­to blu ma­re che co­pri­va buo­na par­te del pa­vi­men­to, si er­ge­va una sta­tua di Pen­teo scol­pi­ta in pu­ro mar­mo bian­co, che tro­neg­gia­va sull’am­bien­te e in­cu­te­va nel vi­si­ta­to­re un va­go sen­so di sog­ge­zio­ne. Le por­te era­no scu­re e mas­sic­ce con le ma­ni­glie di bron­zo. Sul­le an­te era in­ta­glia­ta la sa­go­ma sti­liz­za­ta di un dra­go, lo stem­ma del­la ca­sa­ta rea­le; un sim­bo­lo che si ri­pro­po­ne­va sui ten­dag­gi co­bal­to che pen­de­va­no dal sof­fit­to e sui gros­si va­si di ce­ra­mi­ca agli an­go­li del­le stan­ze dai qua­li tra­boc­ca­va­no maz­zi di ro­se tri­sti, in via

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