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Storia dell'artista - Dal Paleolitico a stamattina
Storia dell'artista - Dal Paleolitico a stamattina
Storia dell'artista - Dal Paleolitico a stamattina
E-book1.177 pagine12 ore

Storia dell'artista - Dal Paleolitico a stamattina

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Info su questo ebook

Storia dell'artista affronta il lungo e spesso dissestato percorso dell'artista, dal Paleolitico sino ai giorni nostri, mostrando come questa figura si sia trasformata nel corso dei millenni. Testo ricco di notizie e approfondimenti, si presenta come una valida risorsa per l’artista che voglia conoscere le proprie origini e per chiunque voglia sbirciare nell’arte da un punto di vista inusuale.
LinguaItaliano
Data di uscita11 giu 2014
ISBN9788891144874
Storia dell'artista - Dal Paleolitico a stamattina

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    Anteprima del libro

    Storia dell'artista - Dal Paleolitico a stamattina - Andros

    Benché esistano innumerevoli saggi sull’artista, manca un testo ad ampio respiro che metta insieme i pezzi del puzzle, mostrando come questa figura si sia trasformata nel corso dei millenni. Storia dell'artista colma questa lacuna, affrontando il lungo e spesso dissestato percorso dell'artista, dal Paleolitico sino ai giorni nostri.

    Durante questo cammino, indossa e smette numerosi panni: è mago, sacerdote, leggenda, schiavo, salariato, imprenditore, inventore, pazzo, rivoluzionario, scienziato, mecenate e altro ancora. Sperimenta tecniche e idee, sempre teso a scovare nuovi modi per fare arte, e supera i confini decisi dalla società e anche quelli che egli stesso ha segnato.

    Punti salienti di questa storia sono i complessi rapporti con la filosofia, con la letteratura, con la politica, con la religione e con la critica, segnati anche dallo stigma sulla manualità.

    La corposa opera è divisa in cinque fasi, cinque grandi periodi che hanno visto l'artista mutare in modo radicale, e consente di assistere agli scontri tra artisti e soprattutto tra artista e società, alle battaglie vinte e a quelle perse, agli alti e bassi che ne hanno segnato l’esistenza.

    Che impatto ha avuto sugli artisti la nascita della scrittura? Perché il 1492 è per loro un anno importante? Quando e perché nascono le parole capolavoro e vernissage? Come e perché nascono le esposizioni? Cosa è cambiato per l’artista dopo l’invenzione della fotografia? E con l’avvento di Internet?

    Storia dell’artista risponde a queste e ad altre domande, non mancando di evidenziare le pesanti ingerenze - talvolta insospettabili - che l’artista ha subito e continua a subire.

    Tanti sono gli aspetti analizzati nel libro, tra questi, i paradossi dell’istruzione artistica, il ruolo svolto dagli strumenti ottici, i luoghi comuni che circondano l'artista e le influenze che lo hanno portato a essere quello che è oggi.

    Storia dell’artista è una preziosa risorsa per l’artista che voglia conoscere le proprie origini e per chiunque voglia sbirciare nell’arte da un punto di vista inusuale.

    I edizione: maggio 2014

    © 2014 Andros

    www.androsofia.com

    Youcanprint Self-Publishing

    ISBN: 9788891144874

    Storia dell’artista

    Dal Paleolitico a stamattina

    Indice

    Introduzione

    Prima fase

    Sciamano e decoratore

    Da 45.000 a 5.000 anni fa

    Artista alla mano

    I motivi dell'arte

    Quell'animale di un artista

    Creatore di realtà

    La magia dell'arte

    Il primo concettuale

    L'invenzione della scrittura

    Come si disegna una scrittura

    Seconda fase

    Operaio ed esecutore

    Da 5.000 anni fa al '300

    Uomini di fatica

    Che artista d'Egitto!

    Le prime trasgressioni

    Il classico artista classico

    Mito, leggenda e divinità

    Due pesi e due misure

    L'invenzione dell'arte

    Il Platone d'esecuzione

    Ho sposato una statua

    Il copista dell'Impero romano

    Abbasso l'artista contemporaneo

    Questione di stile

    Artista meccanico

    La piaga dell'iconoclastia

    Strumento di Dio

    I monasteri e le firme

    Romanico e Gotico

    Gilde e botteghe

    Capitali e tiranni

    Il primo artista moderno

    Terza fase

    Specchio, intellettuale e genio

    Dal '400 a metà '800

    Le rivoluzioni tecniche

    L'arte che dà i numeri

    L'artista che ritrae se stesso

    Un'invasione d'arte profana

    Il tramonto delle corporazioni

    Artigiano alla riscossa

    La rinascita

    Genio, scienziato e imprenditore, tre figure emblematiche

    L'artista indipendente, il collezionista e il mercante

    Liberi di fare arte liberale

    Ricchi e poveri

    Nuovi aneddoti e topoi

    Melanconico, disadattato e pazzo

    Criminale e assassino

    Conformismo e anticonformismo

    L'alchimista

    La parabola delle accademie

    L'originalità del genio

    L'insulto del Manierismo

    Altro fuoco sul fuoco dell'arte

    Iconoclastia unlimited

    Distruzioni varie ed eventuali

    La reazione della Chiesa

    L'idea dell'idea

    Rispettabili imprenditori

    L'artista maledetto e scandaloso

    L'arte prende l'accento francese

    La nascita delle beaux arts e delle esposizioni

    Artisti di fama e artisti alla fame

    L'insostenibile leggerezza del Rococò

    Il successo del Salon

    Il flagello della critica

    Una sciagura chiamata estetica

    Rivoluzione ad arte

    Nel frattempo, in Inghilterra...

    Il Preromanticismo

    Un romantico supereroe anormale

    Genio e follia

    Serial artist

    Arte stupefacente

    Le tre (dis)grazie: psicologia, psichiatria e psicoanalisi

    La nascita del fruitore ideale

    L'artista diventa un aggettivo

    Ancora nelle maglie della scrittura

    Il rifiuto del presente e delle influenze del passato

    Un terremoto annunciato nel Quattrocento

    Quarta fase

    Sperimentatore e teorico

    Da metà '800 agli anni Sessanta

    L'artista fuori fuoco (dell'arte)

    Arte e tecnica: una relazione complicata

    Arte industriosa

    Il divorzio dai materiali

    La moda del tiro all'artista

    Il Realismo del Marxismo

    Una romantica critica inglese

    Model senza top

    Artista alla sbarra

    Impressione, un mercato nascente

    La disfatta della critica e il mito di Van Gogh

    Il bello, il brutto e l'inutile

    Il professionista della pittura domenicale

    Nuovi potenti crescono

    Il paradosso dell'avanguardia

    L'apoteosi del falso

    I dolori del giovane Modernismo

    L'arte è un gioco da bambini

    L'inflazione delle avanguardie

    I nuovi mercanti e i critici urticanti

    Modernismo all'italiana

    L'arte a orologeria

    La parola alle immagini

    Dalla Russia con censura

    ARS: Arte, Religione e Scienza

    Mestiere e professione

    Ancora arte degenerata

    Heil artista!

    The day after: un passaggio di consegne

    La CIA che venne dal freddo

    Abbasso l'ego: dall'artista maledetto al maledetto artista

    L'altra metà dell'arte

    Arte concettuale reloaded

    Avanti pop alla riscossa

    Il caos della teoria

    Robetta da dilettanti

    Non c'è quattro senza cinque

    Quinta fase

    Esperienziale e inflazionato

    Dagli anni Settanta agli anni Duemila

    Postmodernismo e arte contemporanea

    Derive post-annientamento

    Fuga dalla galera della galleria

    Gli anni del paese dei balocchi

    Scandalosa politica

    Un mondo di censori

    L'amara medicina del curatore

    Apocalittici ben integrati

    Un coro di solisti

    Artisticidio perfetto

    La madre dei creativi è sempre incinta

    Un mondo post mortem

    L'artista su grande schermo

    Lo scherno del piccolo schermo

    La democratica tirannia della mediocrazia

    Una carriera burocratica

    Sei artista contemporaneo e ti tirano le pietre

    Il principio dell'iceberg

    Il brand che crea un'atmosfera

    Dall'artista dannato all'artista bannato

    I mercanti in fiera

    Mercato, sistema e mondo

    Tra l'artista di successo e l'artista in eccesso

    La legge dell'arte

    Il mercato della fama

    Stereotipi 3.0

    Verso la sesta fase?

    Risorse documentarie

    Introduzione

    La storia dell’arte è stata ormai analizzata da ogni punto di vista, non c'è aspetto dell'arte che non sia stato affrontato in almeno uno dei numerosi libri che le sono stati dedicati, ma mentre per l'arte sono stati versati fiumi di libri, in proporzione sulla figura dell'artista non sono stati stillati che pochi brani - per lo più biografie dedicate a singoli artisti -, manca una storia dell’artista, che indaghi come questa figura sia stata vissuta e vista nelle varie epoche, e come sia cambiata a partire dalla sua prima apparizione sino ai giorni nostri. Il presente libro tenta di colmare questo vuoto.

    Siamo portati a pensare che l’artista sia un topos con caratteristiche immutabili, e che sia giunto a noi intonso, così com’era all’alba dei tempi. Anzi, per meglio dire, che lo sia stato sino a poco più di un secolo fa, e si sia trasformato - e corrotto - negli ultimi decenni.

    Come vedremo, la realtà è diversa, e guardando più da vicino questa figura mutare di secolo in secolo, si possono notare inaspettati risvolti e sorprendenti analogie, e anche smentire alcuni luoghi comuni.

    Qualsiasi argomento può essere trattato con un approccio valutativo o non valutativo; quest'ultimo definisce l'argomento in termini di estensione, per esempio: arte è la scultura, la pittura, la musica, eccetera, senza dare giudizi o fare distinzioni di valore e di qualità. È un metodo pragmatico, da vocabolario, che non mira a separare un dipinto che è opera d'arte da uno che invece non lo è.

    L'approccio valutativo invece fa leva proprio su questa distinzione: l'arte è rappresentata, come per esempio suggerì Tolstoy, dai risultati migliori, importanti, di successo, in ogni campo artistico. Questo però rende la distinzione fumosa, perché resta da definire cosa si intenda per importante, migliore e di successo; ognuno può avere la propria idea di tali concetti e considerare importante un'opera che altri ritengono superflua. In fin dei conti, l'arte è sempre stata ciò che veniva definita tale. Inoltre, se non tutti i dipinti sono arte, ma solo quelli migliori, allora la pittura in sé non può essere considerata un'arte, ma un'attività che può comprendere la realizzazione di opere d'arte. Con il metodo valutativo non ha poi alcun senso parlare di opere d'arte scadenti: se sono scadenti non sono opere d'arte, se riconosciamo che sono opere d'arte, allora non possiamo definirle scadenti. La stessa cosa vale per la parola artista: secondo l'approccio valutativo un pessimo artista non potrebbe esistere, perché se lo chiamiamo artista riconosciamo il suo valore, se lo definiamo pessimo neghiamo il suo status di artista.

    Ecco perché tra l'approccio valutativo e quello non valutativo è sempre il primo a creare maggiori problemi e paradossi; purtroppo è quello più utilizzato, a causa del bisogno di giudicare il più in fretta possibile che noi umani spesso coviamo.

    Quando si parla di artisti è fin troppo facile lasciarsi confondere da alcune parole, che nel corso dei secoli si sono caricate di significati a tal punto da rischiare di non averne più alcuno. Come scrisse lo storico dell'arte Thomas Munro: «La confusione inizia con i termini di base arte e arti. Comunemente non ci si rende conto del reale grado della loro ambiguità. In primo luogo, la parola arte è applicata a certi tipi di abilità o di tecnica, e anche al prodotto di tali abilità - cioè, le opere d'arte. Talvolta è applicata ampiamente a tutti i tipi di capacità utili, incluse medicina e agricoltura; a volte ristrette a destrezza in particolari campi, come la pittura, o a capacità mirate a produrre piacere estetico. (Quest'ultimo termine è in sé vago e controverso.) La parola arte è talvolta utilizzata in modo elogiativo, a indicare l'alta qualità estetica del prodotto; altre volte in un modo neutrale e indifferenziato, applicato a qualsiasi produzione ed esecuzione in alcuni campi.»

    E si potrebbe continuare ancora, al punto che ormai usando la parola arte nessuno sa più con precisione di cosa si parli; qualcosa di simile accade con la parola artista, che può essere usata in modo indifferenziato per varie attività, oppure come una patente di eccellenza, o persino come un contrappunto sarcastico.

    È per questi motivi che ho preferito utilizzare un approccio non valutativo. Per ridurre i fraintendimenti devo inoltre stabilire una convenzione, cioè definire in quale senso ho usato le parole arte e artista nel corso del libro.

    Tranne in alcuni specifici passaggi, quando parlo di arte mi riferisco alle arti visive, come la scultura e la pittura, ma anche cinema, fotografia, performance, videoarte, installazioni, eccetera. Non mi riferisco invece alla letteratura, alla poesia, alla musica, alla danza e a qualsiasi altra cosa possa essere considerata, in senso più ampio, arte. Questo non perché non le consideri arte, ma solo per evitare confusioni; fino a non molto tempo fa, quando si parlava di artisti ci si riferiva per lo più a pittori e scultori, ma le cose sono cambiate, oggi artista è non solo un pittore, un musicista o uno scrittore, ma anche uno stilista, un comico o un presentatore della TV.

    Non ho nulla in contrario, ma volendo raccontare la già lunga e complessa storia dell'artista, che va dai primi pittori e scultori paleolitici sino agli ultimi performer e installatori, non potevo rischiare un inutile garbuglio.

    Per quanto riguarda la parola artista - ormai un termine scottante - devo precisare che la uso per quello che è: un sostantivo.

    La parola artista difatti non è un aggettivo qualificativo, non assegna un valore, è solo un sostantivo, come la parola tavolo: artista è chi si dedica a un'arte - anche se lo fa male -, così come un tavolo resta tavolo anche se è brutto, rotto o costruito male. È l'aggettivo a definire se il tavolo sia bello o brutto, e se l'artista sia bravo o scadente. La reazione a questa affermazione è di solito violenta, e l'obiezione principale è che non può essere considerato artista chi pratica un'arte in malo modo, perché l'arte è eccellenza. Per quanto possa comprendere i motivi di questa reazione, la ritengo fondata su assunti erronei. Se non vogliamo considerare artista una persona che si dedica a un'arte perché quello che fa è scadente, dobbiamo perlomeno dimostrare che quello che fa sia davvero scadente in modo oggettivo e incontrovertibile. È proprio qui che inizia a crollare quella che chiamo la teoria della qualità. Favorevoli o no al relativismo, è impossibile negare che i giudizi sugli artisti e sulle loro opere sono spesso divergenti, persino agli antipodi, e questo non riguarda solo il pittore della domenica e il critico del lunedì, ma anche artisti famosi, storicizzati e dai prezzi esorbitanti, ed esperti d'arte noti e autorevoli. Come vedremo nel corso del libro, spesso gli stili e i movimenti artistici sono stati battezzati con insulti, pensati per loro da critici avversi, mentre i casi di errori di giudizio - o per meglio dire, di capovolgimenti di giudizio - abbondano nella storia dell'arte.

    Si potrebbe tentare di risolvere il problema rifiutando l'autorevolezza di questo o quell'esperto, perché incapace, ma saremmo al punto di partenza: chi decide quale esperto sia nel giusto e quale no, visto che i giudizi sul loro operato possono essere altrettanto altalenanti?

    Ci si potrebbe affidare al valore di mercato delle opere, ma sappiamo bene che oltre a essere incostante quanto e forse anche più dei giudizi critici - perché sensibile di speculazioni e uso spregiudicato delle vendite per incrementare o affossare il prezzo delle opere -, il mercato fa valutazioni che con la qualità non hanno a che vedere.

    Non è quindi possibile decidere se una persona sia artista o no dalla qualità dei suoi lavori, perché è impossibile avere un giudizio unanime e oggettivo. Vuol forse dire che non si possa mai usare la parola artista? Se si ragiona in termini di qualità sì, il rischio è proprio quello di non poter mai usare questa parola, che è quello che in parte succede oggi, dove se si definisce qualcuno artista - o peggio ancora se qualcuno definisce se stesso artista -, si alzano tante sopracciglia all'unisono, canzonando chi si arroga il titolo di artista e utilizzando le virgolette sarcastiche: si crede un artista.

    La parola artista si è talmente caricata di significati e valori che gli artisti non sono più stati in grado di esserne degni. Qualsiasi cosa faccia un artista e comunque la faccia ci sarà sempre una fetta di umanità che non solo non amerà il suo lavoro, ma metterà persino in dubbio il suo essere artista.

    È proprio perché la parola artista è così carica di valori che se qualcuno osa definirsi tale si scatenano le reazioni più inconsulte. Chi si definisce artista si include in un gruppo che nell'immaginario collettivo è popolato da nomi intoccabili, come Michelangelo, Raffaello e Rembrandt; è questo a far nascere un moto di rabbia. È una cosa che tanti non sopportano, la ritengono una presunzione imperdonabile; mentre si scandalizzano meno se qualcuno si dichiara pittore o scultore, eppure anche in questo caso si sta inserendo in un gruppo popolato da Michelangelo e Raffaello. Pittore e scultore sono accettabili, con riserva, ma sono accettabili: artista no. Definirsi artista non fa un bell'effetto sull'interlocutore è una parola cui è negata qualsiasi legittimità.

    L'alternativa non è pensare che tutti siano artisti, perché se così fosse non ci sarebbe bisogno di usare questa parola: tutti artisti equivale a nessun artista, e quindi si ritorna alla negazione del termine. La soluzione per me sta nella parola dedica: l'artista è colui che si dedica a un'arte. Dedicarsi non vuol dire provare una volta nella vita, o farlo la domenica, o quando non c'è altro da fare, dedicare è un verbo impegnativo e a mio parere molto selettivo: tra i sinonimi di dedicarsi ci sono consacrarsi, darsi e offrirsi. Chi si dedica all'arte lo fa come ci si dedica a un'amore. Come non si può definire innamorato chi salta da un partner all'altro dimenticandoli tutti dopo un giorno, così non si può definire artista chi spilucca questa o quell'esperienza senza alcun trasporto e alternandole a mille altri impegni altrettanto superficiali. Se una persona si dedica all'arte, magari lavorando tutti i giorni, più ore al giorno, e anche quando non lavora non fa che pensarci, e questo per anni e anni, non è possibile affermare che non sia un artista, solo perché, a opinabile giudizio di una o più persone, ciò che realizza non è di buona qualità.

    Se proprio vogliamo prestar fede a quei giudizi, potremmo dire che è un artista mediocre, o persino scadente, ma addirittura negare che sia artista sarebbe come negare che un medico sia un medico solo perché gli è morto un paziente. Anche se morissero tutti i pazienti, nessuno potrebbe mai dire che non sia un medico: sarebbe forse un pessimo medico, ma pur sempre medico.

    È chiaro che ci sono delle zone d'ombra, il passaggio da passatempo a impegno è come il passaggio dalla notte al giorno, non c'è un attimo preciso in cui si possa dire: ora è giorno, un secondo fa era notte. È un passaggio graduale, sfumato, che a volte l'artista stesso stenta a notare, finché un giorno si rende conto che quello che in principio sembrava solo un interesse è diventato un impegno costante cui dedica lavoro, tempo e pensieri. Oppure, al contrario, può rendersi conto che l'entusiasmo iniziale è divenuto stanca ripetizione di gesti, che tende a fare sempre più di rado; come capita a quei ragazzi che iniziano a suonare la chitarra con euforia, e dopo un paio di mesi la chiudono in un armadio e se ne dimenticano.

    È bene ricordare che l’arte non è dimostrabile, se lo fosse, dopo millenni di arte prodotta da milioni di artisti, noi oggi avremmo una teoria dell’arte accettata da tutti, sapremmo cosa è arte e cosa non lo è prima ancora di vedere le opere, anzi, prima ancora di farle, perché sapremmo per filo e per segno cosa fare per produrre un’opera d’arte. Invece accade l’opposto, abbiamo centinaia di teorie inconcludenti, abbiamo avuto nel corso della Storia migliaia di esperti che hanno vergato diktat in netto contrasto tra loro, e ancora oggi abbiamo schiere di soloni che sostengono idee agli antipodi.

    Gli esempi sono infiniti: per Eugène Véron, Lev Tolstoy e Yrjö Hirn l’arte è espressione e comunicazione di emozioni; per Carl Lange e Karl Groos è gioco; per Benedetto Croce, Bernard Bosanquet e Henri Bergson è intuizione e tecnica; per Sigmund Freud, Friedrich Nietzsche e Dewitt H. Parker è voglia di potere o soddisfazione di desideri; per George Santayana e Henry R. Marshall è piacere; per Clive Bell, Roger Fry ed Edward Carpenter è forma; per Ramon Fernandez e Jacques Maritain è intelletto; per José Ortega Y Gasset ed Edward Bullough è distacco psicologico; per Vernon Lee e Theodor Lipps è empatia; per Ethel Puffer, Hugo Münsterberg, Charles K. Odgen, Ivor A. Richards e James Wood è isolamento ed equilibrio; per Oswald Spengler e Lewis Mumford è influenza culturale; per William Morris, John Dewey e Alfred N. Whitehead è invece uno strumento, un mezzo. C’è persino chi ha pensato di poterne individuare con tale precisione delle componenti universali e condivise da fondare una scienza dell’arte, idea accarezzata da tanti, come Hippolyte Taine, Auguste Comte, Herbert Spencer, Gottfried Semper, Karl Marx, Friedrich Engels, Alois Riegl, Konrad Fiedler, Max Dessoir e Max Bense.

    È apprezzabile che, nonostante questi fardelli e le loro pesanti ingerenze, gli artisti siano riusciti lo stesso a fare arte, e persino dei capolavori.

    Non capisco perché mai l’arte si dovrebbe accontentare di una parte quando ha a disposizione tutto, e perché mai gli artisti si dovrebbero rannicchiare in un angolino invece di esplorare l’intero ambiente. Questo non vuol dire essere contro le discussioni sull’arte, che possono essere nutritive, ma solo contro le riduzioni dell’arte a formule ideologiche, che possono essere distruttive.

    A ben vedere, in tanti millenni non siamo riusciti neanche a metterci d'accordo su una caratteristica - una sola, non cento -, che fosse comune a tutte le opere d’arte e che permettesse di far luce sul mistero.

    Nemmeno sulle singole opere si è riusciti a trovare un punto in comune, e quindi ciò che è un capolavoro per uno storico, diventa robetta dilettantesca per un critico, o viceversa.

    A dirla proprio tutta, nessuno al mondo può dimostrare con certezza qualsivoglia affermazione sull'arte, anzi, non si può neanche dimostrare che esista davvero.

    È probabile che l’arte non sia un dato di fatto, ma un’ipotesi; anche per questo ho deciso di occuparmi degli artisti, prendendo spunto da una frase dello storico dell'arte Ernst Gombrich: «Non esiste in realtà una cosa chiamata arte. Esistono solo gli artisti.» Se l'esistenza dell'arte è opinabile, quella degli artisti è invece certa, sono esistiti, esistono e con ogni probabilità continueranno a esistere: senza di loro non ci sarebbe stato nulla di quello che nell'arco di millenni è stato di volta in volta ritenuto arte.

    Nel corso del libro seguiremo quindi il percorso dell'artista, nel suo impervio viaggio dal Paleolitico fino a stamattina, durante il quale indossa e smette numerosi panni: è mago, sacerdote, leggenda, imprenditore, inventore, pazzo, rivoluzionario, scienziato, mecenate e altro ancora. Lo vedremo sperimentare tecniche e idee, sempre teso a scovare nuovi modi per fare arte, superando i confini decisi dalla società e anche quelli che egli stesso aveva segnato.

    Assisteremo agli scontri tra artisti e soprattutto tra artisti e società, alle battaglie vinte e a quelle perse, ai rapporti complessi e conflittuali con la letteratura, con la filosofia, con la tecnica, con la politica, con la religione e con la critica, segnati anche da un pesante stigma sulla manualità che da almeno 5.000 anni schiaccia l'artista, visto come un minus habens che ci sa fare con le mani. Seguiremo gli alti e bassi che da sciamano lo hanno ridotto a manovale, poi innalzato a genio, trasformato in artista maledetto e poi in un maledetto artista. Analizzeremo i luoghi comuni che ne circondano la figura e conosceremo le influenze e le ingerenze che lo hanno portato a essere quello che è oggi, e vedremo come e perché nell'immaginario collettivo la figura dell'artista è diventata una brutta figura, passibile di derisione.

    Da un certo momento in poi, difatti, gli artisti stessi hanno cominciato ad attaccare e demolire questa figura, mentre in tanti hanno preso le distanze persino dalla parola artista.

    Oggi molti preferiscono considerarsi pittori, scultori, o altro - come se questo risolvesse il problema o li affrancasse da alcune responsabilità -, oppure riscoprono il termine artigiano, abusandone. Non è certo una forma d'umiltà, anzi, per loro definirsi artigiani è un modo per darsi maggior valore, per distinguersi dagli artisti, che secondo loro non sono più in grado di far nulla. Peccato che spesso a definirsi artigiani siano proprio quelli tecnicamente meno preparati, che sanno fare poco e male. Chissà cosa ne pensano i veri artigiani, ammesso siano sopravvissuti agli agguati economici e politici degli ultimi decenni.

    Nonostante i colpi subiti e la scarsa considerazione che oggi le società riservano loro, si assiste a un'inflazione di artisti, che mai nella storia umana sono stati così numerosi; parafrasando Shakespeare, si potrebbe dire che ci siano più artisti in cielo e in terra di quanti ne possano contenere i musei del mondo. Se ha ragione chi considera l’arte espressione di un disagio, di una malattia, allora si tratta di una malattia aggressiva e contagiosa, ars come la sars: una sorta di pandemia attanaglia il pianeta. Riuscirà mai a contenere tutte le opere d’arte che saremo in grado di produrre? Nessuno può prevederlo, e comunque, questo esula dagli interessi del presente libro, che tenta invece di spiegare come e perché gli artisti siano diventati così numerosi.

    Ho diviso la storia dell'artista in cinque fasi, cinque grandi periodi che hanno visto la sua figura mutare in modo radicale; ognuna di questa fasi si chiude con degli eventi che aprono la strada a una nuova fase.

    Nel corso di questa lunga storia ci saranno descrizioni e aneddoti che, in base alla sensibilità del lettore e alle sue preferenze artistiche, potrebbero apparire lesivi dell'immagine di questo o quell'artista; ci tengo a precisare che in nessun caso era mia intenzione insultarli. Si scrivono fin troppi libri e articoli contro gli artisti - come vedremo, da un certo momento in poi è diventato quasi uno sport -, non intendo far parte della lunga lista di chi si scaglia contro di loro.

    Le situazioni poco edificanti che in alcuni casi ho raccontato hanno diversi scopi: spogliare gli artisti del passato dalla patina di idealizzazione che il tempo ha lasciato stratificare; mostrare che non esiste una natura univoca dell'artista, e che artisti ugualmente grandi possono avere caratteri e atteggiamenti opposti; e infine che una grande opera non deve per forza essere il frutto di un grande essere umano, le due cose sono diverse e separate, e separate bisognerebbe tenerle, per evitare di idealizzare un artista solo perché la sua opera è eccellente, oppure di infangare un'opera eccellente solo perché l'autore ha comportamenti pessimi.

    Non voglio nascondermi dietro un dito, questo è un testo dalla parte degli artisti; per la precisione, è scritto dalla parte degli artisti, visto che sono uno di loro - mi sia concessa l'apparente presunzione.

    Questo non vuol dire che io abbia alterato i fatti per proteggere gli artisti, anzi, sono stato impietoso in più occasioni, e fare luce in alcuni angoli bui per me è stato difficile e persino doloroso, e mi ha costretto a ripensare alcuni miei atteggiamenti e alcune mie convinzioni. Da tutto questo ho però tratto delle considerazioni cui difficilmente potrebbe giungere una persona che non abbia trascorso la vita nella pratica dell'arte; in questo quindi offro un punto di vista diverso da quello istituzionale, che è quello degli esperti dell'arte raccontata, degli specialisti che non si sporcano mai le mani.

    Spesso nel corso della stesura ho provato un moto di rabbia, per quelle che considero ingiustizie, e anche una struggente compassione, per queste vite mai davvero comprese, mai davvero accettate, vite impegnate in un'attività straordinaria ma talvolta ingrata, che pone chi la svolge in un punto imprecisato tra le vertiginose altezze della propria passione e le grette bassezze del mondo in cui deve sopravvivere.

    Prima fase

    Sciamano e decoratore

    Da 45.000 a 5.000 anni fa

    Artista alla mano

    L'arte è un'esclusiva umana? Chi è il capostipite di tutti gli artisti, un essere umano, un neanderthaliano, un primate o altro? Quello che sappiamo è che l'arte esplose nel Paleolitico, un periodo che va dai 2,5 milioni di anni fa a 10.000 anni fa, nell'era geologica del Pleistocene.

    I primi Homo sapiens comparvero intorno a 200.000 anni fa, e durante questo lungo arco di tempo si diffusero a partire dall'Africa e iniziarono a impegnarsi in attività artistiche.

    È interessante notare che la prima specie di Homo venne chiamata Homo habilis, perché in grado di fabbricare degli attrezzi di pietra; fu il primo a costruire i propri arnesi, a usare le mani per creare qualcosa che prima non c'era. L'inizio del processo che portò allo sviluppo della nostra intelligenza coincise con l'inizio dell'uso delle mani per fare, per creare. È un vero peccato che nel corso dei millenni, e come vedremo ancora oggi, la manualità sia stata così tanto bistrattata e disprezzata, considerata appannaggio di persone inferiori o poco intelligenti.

    L'antropologo John.E. Pfeiffer è convinto che lo sviluppo delle potenzialità manuali precedette quello del pensiero. Mentre secondo l'etnologa Mary Marzke, solo quando l'animale uomo è riuscito a perfezionare tutte e tre le forme base di presa utilizzate dalle sue mani gli è stato possibile avviare una vera evoluzione culturale. Per il sociologo Richard Sennett, l'importanza che la presa salda e la manualità rivestono per le capacità culturali e di comprensione della realtà si riflette ancora oggi in alcuni modi di dire: «Nel linguaggio corrente, diciamo avere una buona presa su un argomento oppure afferrare un problema nel senso di comprenderlo pienamente. Questi modi di dire figurati riflettono il dialogo evolutivo avvenuto tra la mano e il cervello.»

    L'archeologo Steven Mithen sottolinea come anche la nascita della scrittura si deve all'accresciuta manualità: «Essere bipedi è importante perché le mani restano libere per altri compiti, e ciò facilita lo sviluppo della capacità manuale necessaria per produrre la scrittura.» Troppo spesso dimentichiamo che anche la scrittura è, in fin dei conti, un'attività manuale, che la si svolga con uno stilo o con la tastiera di un computer.

    Luca Cavalli Sforza e Telmo Pievani sono chiari: «Dalle mani nasce quindi la cultura.»

    Dal punto di vista anatomico, l'Homo sapiens era moderno già centomila anni fa, mentre in senso più completo lo si può considerare moderno a partire da circa quarantamila anni fa.

    Proprio tra i 45 mila e i 34 mila anni fa, nel Paleolitico superiore, avvenne quello che i paleoantropologi definiscono il grande balzo in avanti: l'Homo sapiens è dotato di linguaggio articolato, capacità relazionali e simboliche, è in grado di elaborare concetti astratti, è autocosciente e si interroga sulla propria natura; è allora che nasce quella che in seguito sarà chiamata arte.

    Per oltre due milioni di anni gli ominidi avevano prodotto solo manufatti litici, mentre con l'Homo sapiens, in tempi brevi dal punto di vista archeologico, cominciarono a fiorire pitture, sepolture, ornamenti, l'uso di nuovi materiali come l'argilla e l'osso e altro ancora. Cosa abbia causato questa brusca impennata è impossibile dirlo con certezza. Molti pensano si sia trattato della comparsa di una forma ben sviluppata di linguaggio, eppure, la maggior parte delle innovazioni introdotte dal sapiens fanno perlopiù pensare a specializzazioni manuali: lo sono le pitture, come la costruzione di sepolture o gli ornamenti, anche l'uso di nuovi materiali avrebbe più senso nell'ottica di una accresciuta manualità, così come la costruzione di insediamenti più ampi.

    Prove certe non ce ne sono, ma si è cercato di dimostrare l'esistenza del linguaggio già nell'Homo habilis, avendo accertato nel suo cranio tracce della cosiddetta area del Broca, e della lateralizzazione associata al linguaggio, ma studi successivi hanno evidenziato che l'area del Broca è una parte del cervello che non si occupa solo del linguaggio, ma si attiva anche per i movimenti più elaborati delle mani.

    Per alcuni il sapiens sarebbe stato anticipato dall'Homo erectus e dall'Homo neanderthalensis. In questi casi si parla di arte solo perché sceglievano con cura le pietre da intagliare; non aveva forse tutti i torti Duchamp quando diceva che l'arte fosse una questione di scelte. Alcune opere hanno poi suscitato dubbi, e potrebbero forse essere state realizzate dai Neanderthal; è il caso delle pitture di Altamira e di altre zone nel nord della Spagna, che alcune recenti indagini avrebbero retrodatato di almeno diecimila anni. Difficile dissipare i dubbi, perché i sapiens potrebbero essere giunti in Europa - dove sembra siano state dipinte le prime grotte - prima di quanto si supponga, e le zone potrebbero essere state abitate da entrambe le specie, diventa quindi arduo capire chi abbia fatto cosa.

    Difatti, dividevano gli stessi spazi nello stesso tempo, e anche nella penisola italiana i due Homo convissero a lungo. I due genomi sono uguali al 99,84%, ma del resto una buona percentuale del nostro codice genetico è in comune con quello di un topo, di un fungo e persino di una banana; come scrisse Darwin nel 1837: «Siamo tutti legati in un'unica rete.»

    Questa convivenza ha avuto ulteriori conferme nel 2010, quando si è rilevata una piccola percentuale di DNA neanderthaliano negli Homo sapiens non africani; si suppone che in Medio Oriente vi sia stata un'ibridazione tra i due gruppi.

    Gli uomini di Neanderthal infine si estinsero, circa 25.000 anni fa, in tempi relativamente brevi e per cause ancora non chiare, forse legate alla presenza dei sapiens.

    Ancora oggi però l'arte è considerata un'attività tipica dell'essere umano - o forse si dovrebbe definire un'attività che presuppone un livello intellettivo almeno pari a quello umano -, di conseguenza, l’artista è umano. Alcuni sostengono che anche altri animali possano essere artisti, come elefanti e primati vari. Altri invece pensano che è difficile che possano andare al di là del gioco, e che questo non possa strutturarsi in una forma d’arte, anche per la mancanza di simbolismi, di intenzionalità e di una manualità più raffinata. Ci sono state varie esperienze in questa direzione e più avanti le vedremo nel dettaglio, perché possono essere comparate con quelle umane e, tra differenze e similitudini, fornire spunti interessanti.

    I motivi dell'arte

    Quando nel 1880 si scoprì la prima grotta ad Altamira, pochi esperti accettarono l'idea che l'arte potesse essere iniziata migliaia di anni prima di quanto si fosse pensato sino a quel momento.

    In seguito, e per lungo tempo, si è pensato che l'arte prodotta nel Paleolitico superiore fosse pedestre, di bassa qualità e di facile realizzazione, ci si è poi resi conto del contrario, si trattava di realizzazioni spesso elaborate, che richiedevano talento e preparazione tecnica; è ormai assodato che l'arte primitiva è tutto tranne che primitiva.

    La preparazione dei colori era parte dell'arte, ne era una componente fondamentale, e più o meno è stato così fino al Rinascimento. Che gli artisti del Paleolitico non fossero dilettanti lo dimostra anche la fabbricazione del colore, non si limitavano a usare le terre o i carboni così com'erano, arrivavano a ridurre in polvere finissima il pigmento scelto, per esempio la rossa ematite, e ad applicarlo misto a un legante come l'olio vegetale: era un lontano progenitore della pittura a olio.

    Ebbero anche l'ingegnosa idea di dipingere a spruzzo, come con un aerografo, usando un tubo per soffiare il pigmento sulla superficie. C'era inoltre una progressione nelle tecniche e nelle ricette, che cambiavano e si perfezionano nel tempo, sintomo di un sapere che veniva da un lato tramandato e dall'altro messo alla prova, sperimentato e migliorato.

    I motivi che spingevano questi primi artisti si potrebbero condensare in tre gruppi: quello magico, quello estetico e quello utilitaristico/comunicativo, è probabile che il primo fosse dominante, ma non è facile definire in quali percentuali incidessero.

    Secondo Munro, l'essere umano: «Era predisposto alla sperimentazione, all'apprendimento e alla trasmissione di conquiste culturali; a produrre e gustare ciò che più tardi è evoluto nell'arte. […] Questa predisposizione fu forse, dal punto di vista biologico, un'anomalia o un'ipertrofia, innatamente sviluppata ben oltre le necessità per la sopravvivenza fisica; ma, avendola, l'uomo ha sentito a volte l'impellenza di usarla costruttivamente.»

    In effetti, l'arte potrebbe essere la prima attività umana slegata dalla soddisfazione diretta di bisogni vitali. Alcuni antropologi dubitano che abbia mai avuto una funzione utilitaria e legata alla sopravvivenza, altri invece pensano all'arte come a un fattore della selezione naturale, uno dei metodi di sopravvivenza per l'essere umano, perlomeno in parte: sia quando si considerava l'arte una magia capace di fare realtà, e quindi di assicurare in modo diretto la sopravvivenza, sia in modo indiretto, per esempio è risaputo che l'arte religiosa e civica abbia svolto questa funzione, rinforzando la solidarietà di gruppo, incoraggiando la fiducia e l'entusiasmo. Tutte cose che hanno aiutato gruppi umani a prevalere, mentre altri venivano eliminati. Essendo considerata una magia ha dato prestigio e potere ai capi tribù, saldando il gruppo e la sua organizzazione sociale.

    Per il biologo Geoffrey Miller, creatività e talento artistico sono invece state selezionate sessualmente perché sono ottime forme di esibizione per attrarre le donne, e quindi consentono all'artista una buona possibilità di riprodursi. Per la psicologa Susan Blackmore la selezione sessuale avrebbe favorito le caratteristiche artistiche perché sono garanzia di buona diffusione di memi: gli artisti sono i primi a seguire una moda o a farla nascere, sono ottimi imitatori e sono in grado di diffondere idee ad libitum.

    Resta il dubbio se ad attrarre le donne fossero le capacità artistiche in sé o il valore che esse avevano in quei contesti, che rendeva l'artista un uomo importante, di potere, e quindi ambito.

    Per lo psicologo Otto Rank, arte e religione erano invece presidi medici: «La religione è una psicoterapia di massa inventata dal popolo allo scopo di guarire, proprio come l'arte, filosofia inclusa, è una cura analoga, inventata da un individuo ma solo per sé e per pochi altri compagni di sventura. […] La cura del nevrotico dev'essere applicata individualmente, caso per caso: egli è il classico egoista, il fondatore di religioni, l'opposto del popolo; l'artista si trova tra i due e questo ne condiziona la stima.»

    Nel libro The mind in the cave, David Lewis-William afferma che l'arte era soprattutto un mezzo per distinguersi dai neanderthaliani, a suo dire incapaci di ricordare le immagini e quindi di produrne. L'ipotesi è un po' azzardata, ma è vero che, all'interno del gruppo di appartenenza, l'essere in grado di fare arte fosse già allora un mezzo per distinguersi, per elevarsi sugli altri.

    Per altri ancora la spinta alla rappresentazione visiva è innata, tanto è vero che si può dire, come ha affermato lo psicologo John M. Kennedy, che il disegno non sia stato inventato, ma scoperto.

    Per l'etologo Desmond Morris uno dei motivi principali per cui l'uomo ha sviluppato l'arte, è che si sia dovuto cimentare in un'attività per la quale non era ben equipaggiato, la caccia: «A differenza dei killer professionisti del mondo dei carnivori, l'uomo doveva usare una pianificazione cooperativa, se voleva realmente aver successo nella caccia. Non appena egli ebbe un vero linguaggio, che poteva descrivere gli oggetti così come gli stati d'animo, si aprì la porta alla rappresentazione pittorica di questi oggetti. È a questo punto che compare sulla scena la cosiddetta arte preistorica e lo fa per uno di questi due motivi, o per tutti e due. In primo luogo vi è il motivo utilitario, cioè la descrizione e l'istruzione sulla caccia. Quasi tutta l'arte preistorica raffigura specie cacciate o vere scene di caccia. In secondo luogo vi è il motivo religioso. È stato largamente affermato che si credeva che la raffigurazione di animali simbolici aiutasse, per un processo di magia simpatica, nel dominio degli animali in carne e ossa e una gran quantità di dati etnologici comparativi sostiene questa tesi.»

    In queste e altre affermazioni si palesa un pregiudizio culturale che vuole il linguaggio come base di ogni comunicazione, in rapporto al quale qualsiasi altro sistema di simboli è solo un'appendice, un'aggiunta o un sottoprodotto. Non si può però escludere che l'arte sia arrivata prima di un linguaggio articolato e parlato, essendo essa stessa un linguaggio articolato. Non c'è alcun bisogno di inventare la parola bue per poterlo disegnare. In fondo, con la parola si insegna e si descrive con maggior precisione, non è da escludere quindi che si facesse ricorso alle immagini anche perché un linguaggio parlato non si fosse ancora del tutto sviluppato. Anzi, forse proprio le immagini hanno aiutato a precisare la lingua e i vari termini per descrivere le cose e le azioni ritratte; come se l'arte fosse stata una sorta di l'abecedario, non solo per imparare, ma per assegnare un nome alle cose.

    Quell'animale di un artista

    Per lungo tempo si è pensato che l'arte primitiva, quella dei folli e quella dei bambini avessero una base comune, che fossero simili e che fossero il regno dell'ispirazione libera e incontrollata, una sorta di arte pura. Anche molti artisti nel corso degli ultimi due secoli hanno voluto crederci, e alcuni si ostinano a farlo persino oggi, quando ogni prova porta invece a conclusioni opposte: hanno ben poco in comune, e tutte e tre, in modi diversi, sono ben lontane dall'essere libere espressioni dettate dall'ispirazione estemporanea, o dall'essere arte pura, qualsiasi cosa questa espressione significhi.

    Considerato tutto ciò, c'è chi ha pensato bene di cercare alcune risposte studiando l'arte di altri animali, per esempio degli scimpanzé.

    Il primo a interessarsi ai primati artisti fu lo psicologo Winthrop Niles Kellogg, nel 1931, che adottò uno scimpanzé e ne esaminò le attitudini. Dal suo studio emerse che uno scimpanzé può scarabocchiare se gli viene mostrato come fare, che dopo aver imparato continua a farlo spontaneamente e che, al contrario di quelli di un bambino, i suoi scarabocchi non diventano imitativi.

    Altri studi seguirono, per esempio, i dipinti fatti con le dita da due scimpanzé, Beth e Dr Tom, riscossero un certo successo, portando anche un bel po' di soldi alle casse dello zoo di Baltimora, che ne vendette grandi quantità. Nel 1954 le opere di Beth e Dr Tom furono sottoposte all'analisi di alcuni psicologi dell'infanzia, che non sapevano chi li avesse realizzati, i risultati furono interessanti: un dipinto di Dr Tom fu attribuito a un bimbo di 7-8 anni, aggressivo e con tendenze paranoidi, i lavori di Beth invece furono attribuiti a una bambina di 10 anni, schizoide, oppure paranoide. Gli psicologi non furono in grado di distinguere i dipinti umani da quelli non umani, riuscirono però a identificare il sesso degli autori.

    Nel 1953 Desmond Morris iniziò a indagare le tendenze artistiche di uno scimpanzé di nome Congo. I dipinti di Congo e di Beth vennero esposti nella mostra a Londra del 1957, irritando buona parte del pubblico e della stampa, perché le produzioni artistiche di questi animali richiamavano alla mente l'arte astratta umana. Grazie al clamore, ci furono richieste di acquisto delle opere, e in un primo momento si decise di accettare, per poi cambiare idea pochi giorni dopo per non inficiare il valore dello studio, ma quei pochi giorni erano bastati per vendere quasi tutti i 24 dipinti di Congo.

    Si compose una nuova collezione per una mostra negli Stati Uniti. Tra il 1957 e il 1958 Congo ebbe un'intensa attività artistica, realizzando intere serie di dipinti e disegni.

    La condizione di Congo non era diversa da quella che alcuni mercanti, galleristi e case d'aste immaginano dover essere la norma per qualsiasi artista: produrre senza sosta, come un pollo che sforna uova in attesa di finire spennato.

    Da alcuni esperimenti con dei gorilla, invece, emersero altri dettagli. Da uno studio sulla gorilla Sophie, si notò che la sua attività artistica esplodeva nei periodi in cui era sola e triste, lontana da Stefi, un gorilla che a periodi alterni viveva con lei. Una gorilla pittrice per solitudine, tristezza o mal d'amore: a quanto pare i gorilla sono come alcuni umani, che trovano nell'arte un rifugio, un sollievo ad alcuni dolori della vita, come suggerito da psicologi come Otto Rank.

    Questi primati avevano uno stile individuale, e non tutti erano portati per l'arte, alcuni non mostravano alcun interesse, mentre altri una volta iniziato non la smettevano più.

    Come lo scimpanzé Bella, in grado di concentrarsi sui disegni per lungo tempo. Bella era mite, non reagiva mai quando la tutrice la interrompeva nelle sue attività, neppure se le sottraeva il cibo, eppure, quando questa la interruppe mentre disegnava, Bella reagì mordendola. Il suo grado di concentrazione sembrava alto, nulla poteva distrarla, neanche l'offerta di cibo e dolci, chissà, forse sperimentava anche una forma di flow. Le reazioni di ira all'interruzione dell'attività creativa si verificarono anche con Congo e negli esperimenti con altri scimpanzé, cosa ancora più significativa se si pensa che per disegnare, al contrario di quello che accadeva per altre attività, gli animali non ricevevano alcuna ricompensa di cibo: era per loro un'attività autotelica, era una ricompensa in sé, piacevole e appagante.

    Uno dei punti fermi dello studio sulle scimmie è che esse tendevano a realizzare variazioni su un tema ben definito, ripetuto con costanza. Come alcuni artisti che trattano un unico tema per tutta la loro esistenza, oppure passano da un tema a un altro solo dopo averne esaurito tutte le variazioni interessanti.

    Morris notò un'altra cosa importante: gli impulsi creativi di Congo si affievolivano man mano che, crescendo, altri impulsi più fisici e sociali prendevano il sopravvento. Cosa che potrebbe suggerire varie ipotesi, per esempio che per continuare a dedicarsi all'arte serva mantenersi in qualche misura infantili, cosa che l'evoluzione ha favorito nella nostra specie per la quale l'esplorazione ludica continua anche nell'età adulta; che più si è coinvolti nella vita, fisicamente e nei rapporti interpersonali, minore sarà l'interesse per le attività artistiche; e che le difficoltà interpersonali potrebbero invece favorire la passione per l'arte, come sostituto, ripiego o attività che lenisce la mancanza di una vita sociale soddisfacente. Tutto questo ricorda quasi il dualismo estremizzato dal Romanticismo: o si vive o si fa arte.

    Inoltre Morris sottolinea: «Tutto ciò funziona solo se gli animali vengono accuditi in un modo o nell'altro e, in libertà, ciò significa che solo le giovani scimmie possono tendere a comportarsi in questo modo. Esse possono graffire segni sulla terra o sugli alberi ma, con l'avvento dell'età adulta, queste cose vengono messe da parte e dimenticate di fronte ai più immediati problemi della sopravvivenza.»

    La scimmia Alpha se rimaneva senza carta provava a disegnare sulle foglie morte, disdegnava il cibo quando vedeva qualcuno con carta e matita, e cercava di farsele dare. Svolgeva inoltre la sua attività in solitudine, volgendo le spalle a chi la osservava, e spingendo lontano eventuali animali rinchiusi con lei. Quindi non vi si dedicava per ottenere come ricompensa l'attenzione degli altri animali o degli sperimentatori: l'arte la rendeva asociale e dimentica delle funzioni vitali, come cibarsi.

    Alcuni obiettarono che il piacere per loro risiedesse solo nell'attività fisica legata al disegno, ma non è un'obiezione credibile, perché le scimmie rifiutavano di disegnare con semplici bastoncini di legno che non lasciavano alcun segno: per loro era importante vedere i segni lasciati dalla matita o dal colore, il piacere tratto era anche visivo, e si trattava di un'attività autoremunerativa, lo stimolo principale era il fare in sé, non una ricompensa esterna come il cibo, non una ricompensa affettiva come l'attenzione degli altri e nemmeno uno sfogo fisico dato dai movimenti compiuti.

    Durante questi esperimenti doveva esserci un solo sperimentatore, perché la presenza di più persone tendeva a distrarre gli scimpanzé, a deconcentrarli, dando ragione a Leonardo, che esortava gli artisti a lavorare in solitudine: «Se sarai solo sarai tutto tuo.»

    La sperimentazione era parte dell'attività artistica, in un caso Congo ottenne un effetto acquarellato orinando sulla pittura, in seguito usò l'acqua per ottenere lo stesso effetto, inoltre provò vari oggetti al posto dei pennelli, e quelli che diedero gli effetti più originali divennero i suoi preferiti. In seguito arrivò persino a utilizzare sul pennello una presa simile a quella umana, come fecero anche altri scimpanzé. Tra le altre cose si notarono: la tendenza a rimanere all'interno del foglio bianco, a marcare una figura centrale e a equilibrare una forma che fosse fuori centro.

    È interessante ciò che Morris riferisce sui tentativi fatti per scavalcare l'autoremunerazione, corrompendo la scimmia con il cibo per spingerla a dedicarsi al disegno con maggior impegno: «Il risultato fu illuminante. La scimmia presto imparò ad associare il disegno con il ricevimento della ricompensa, ma appena si fu stabilita questa condizione, egli trovò sempre meno interesse nelle linee che stava disegnando. Qualunque scarabocchio facesse, tendeva immediatamente la mano per la ricompensa. L'accurata attenzione che egli aveva prima dedicato al disegno, ritmo, equilibrio, composizione, era andata perduta ed era nato il peggior genere di arte commerciale.»

    Facile fare delle analogie con gli artisti umani coccolati dal mercato, che rischiano di trascinare la loro arte con sciatteria, con il solo obiettivo della ricompensa monetaria; fa pensare a quanto le reazioni altrui possano essere importanti, e quanto sia delicato l'equilibro tra rifiuto e accettazione che l'artista deve imparare a gestire. Fa anche venire alla mente una frase detta da Picasso negli ultimi anni di vita: «Se sputo, il mio sputo verrà messo in cornice e venduto come un’opera d’arte.»

    Altri studi ancora sono stati realizzati, anche su altri animali. Il biologo ed etologo Bernard Rensch notò che i primati hanno una preferenza per i modelli regolari e ritmici, e che i loro gusti in fatto di colori cambiano nel tempo, come fossero delle mode. Anche gli uccelli sarebbero attratti da modelli regolari, mentre i pesci preferirebbero quelli irregolari.

    Alcuni sono stati fatti in tempi recenti, come quello sul cavallo Cholla, che dipinge su dei fogli tenendo il pennello con la bocca. Anche in questo caso vi sono similitudini con la pittura astratta umana, tanto che partecipando in modo nascosto a dei concorsi, Cholla ha ottenuto vari premi. Sono stati osservati anche alcuni elefanti, che con grande serietà e impegno dipingevano in gruppo davanti a dei cavalletti, pennello nella proboscide.

    Secondo Danilo Mainardi, la loro presa del pennello è simile alla presa umana, inoltre questi elefanti non si dedicano all'astrazione, ma all'arte figurativa, raffigurando degli elefanti con pochi segni ben comprensibili. Gli elefanti sono gli unici animali non umani in grado di fare pittura figurativa.

    Tutti spunti utili e significativi, ma da prendere con cautela, per non forzare le similitudini con gli atteggiamenti umani. Inoltre, questo genere di indagine talvolta nasconde dei punti deboli; primo tra tutti il rapporto tra animali e sperimentatori, che è una nota dolente. Spesso si instaura un rapporto affettivo, oppure lo sperimentatore carica di aspettative il proprio studio, cose che possono portare a un inquinamento dei risultati - in modo consapevole o no -, proprio come accade a un genitore che vuole a tutti i costi vedere segni di genialità nei disegni del proprio bimbo.

    Creatore di realtà

    Si è soliti pensare che quando si parla dell’arte preistorica si azzardino solo ipotesi campate in aria, ma questo può essere vero solo in minima parte, visto che molte attitudini degli uomini del Paleolitico si possono ancora oggi riscontrare tra i popoli primitivi che abitano la terra.

    Gli uomini erano diluiti in piccoli gruppi a sé stanti, e vivevano in modo parassitario da cacciatori e raccoglitori. Religioni e divinità erano ancora da venire, tutto ruotava sulla sopravvivenza e quindi sul cibo, e l'arte stessa, in un modo che si potrebbe definire magico, era di fatto vista come un metodo per procurarselo.

    In effetti, la potremmo chiamare magia così come possiamo chiamarla arte, pur essendo lontana dai significati che oggi diamo a queste due parole; concetti come arte e artista non esistevano ancora.

    La magia dell'arte paleolitica non era di natura religiosa, era priva di riferimenti ultraterreni, soprannaturali, la realizzazione delle immagini era qualcosa di tecnico e pratico, simile a ciò che facciamo quando piantiamo dei semi nel terreno per far crescere un albero da frutto.

    Dipingere o scolpire era come seminare presente per raccogliere futuro. La rappresentazione della preda catturata era l'anticipazione, la visualizzazione di ciò che sarebbe avvenuto: l'immagine della preda era la preda stessa. Le veneri scolpite, sulle quali mille teorie si sono costruite, forse si integrano in questa visione come oggetti per indurre la fertilità, preannunciare dolci attese, anticipare la buona riuscita della gravidanza, o forse persino per assicurarsi una preda sessuale. L'arte era tutt'altro che un'azione futile, più che come espressione o imitazione nasce come creazione del naturale, come estensione della realtà.

    Quella dell'arte era anche una magia protettiva, così come le caverne e i ripari proteggevano da vento, pioggia e altri pericoli, lo stesso facevano le immagini degli artisti.

    L'artista Paleolitico non avrebbe chiesto, come fa il Klingsor di Hermann Hesse: «Perché dovrei esercitare la magia se so fare dell'arte?» Allora fare arte e fare magia erano la stessa cosa, persino la realtà era la stessa cosa: fare arte era fare magia, così come fare realtà.

    Per lungo tempo si è pensato che fosse esercitata da chiunque, ma questa ipotesi sembra essere errata, nel Paleolitico superiore l'arte era già un'attività per specialisti; anzi, forse quella dell'artista è la prima figura specializzata emersa nelle società umane. Lo storico Ernst Kris scrive: «Si ammette che il pittore e lo stregone fossero la stessa identica persona. Ma comunque stessero le cose, c'era qualcuno che creava e altri che stavano a guardare: esisteva dunque l'arte come istituzione.»

    Gli artisti erano già dei professionisti, e spendevano molto del loro tempo nell'apprendere e perfezionare il mestiere. Alcuni rinvenimenti fanno pensare all'esistenza di vere e proprie scuole di formazione, chissà se riservate solo ai figli degli artisti-sciamani o aperte anche ad altri.

    Per lo storico Arnold Hauser: «L'artista-mago sembra quindi il primo rappresentante della specializzazione e della divisione del lavoro.»

    Forse il mestiere più antico del mondo non è quello della prostituta, ma quello dell'artista.

    In un vita per lo più irregolare e anarchica come quella del Paleolitico, l'artista è il primo a distinguersi dalla massa, è in possesso di quello che oggi chiameremmo talento e che allora appariva come una dote magica, e precorre anche la figura del sacerdote - e l'arte in un certo senso precorre la religione, in quanto forma di religione della realtà, della natura -, e proprio come un sacerdote riesce a sottrarsi al lavoro comune, potendosi dedicare ad attività oggi considerate improduttive.

    Esiste una teoria secondo cui all'arte ci si possa dedicare solo quando le condizioni di vita siano abbastanza sane da poterselo permettere, quando cioè sono soddisfatte le funzioni primarie ed è garantita la sopravvivenza; come abbiamo visto, questa teoria è corroborata anche dagli studi su altri animali. Senza aver risolto perlomeno le urgenze alimentari, non sarebbe possibile in una società la presenza degli artisti. Questa teoria è forse corretta per l'arte della Storia, ma potrebbe non esserlo per l'arte della preistoria.

    A quel tempo, in cui la sopravvivenza era un affare ben più complicato di oggi, ci si poteva lo stesso dedicare a un'attività inutile come l'arte, che sottrae tempo, energie e risorse ad altri aspetti più vitali. Questo accadeva perché l'arte, in quanto magia in grado di creare realtà, era considerata utile e di vitale importanza, ma anche perché la conoscenza dei fatti della vita era limitata a gruppi ridotti, che non conoscevano altro da sé e comunque non se ne curavano.

    Oggi invece la nostra tribù è planetaria, la chiamiamo mondo globalizzato, sappiamo delle morti per fame, guerre, terremoti, tzunami o qualsiasi altra calamità avvenuta persino nel più piccolo anfratto del pianeta. Questo bombardamento continuo di notizie ferali da un lato rende apatici e indifferenti, dall'altro scava in noi una voragine di sensi di colpa per i privilegi di cui godiamo e per quello che non facciamo per rimediare a questi drammi. L'arte è una delle cose che ci fanno sentire in colpa.

    Come si può pensare di dedicare tempo e risorse alla futile arte quando sappiamo che i nostri vicini con quelle risorse potrebbero salvarsi dalla morte o vivere in modo più dignitoso? D'altro canto, è giusto lasciarsi incatenare da questi pensieri col rischio di ridursi a non fare più nulla che non sia pura sopravvivenza? Sono domande che nel Paleolitico era impensabile porsi, ma che oggi è impossibile non porsi.

    La magia dell'arte

    Quelle dell'artista Paleolitico erano quindi ben più che rappresentazioni simboliche, erano vere e proprie azioni, che anticipavano la realtà, la costruivano; le sue opere avevano una funzione precisa legata alla sopravvivenza del gruppo, non erano solo espressione, comunicazione o decorazione per trastullare gli occhi. Infatti, in genere non facevano bella mostra di sé, le pitture delle caverne non erano realizzate in modo decorativo, ordinate su pareti e soffitti, ma erano affastellate in modo confuso, spesso si accavallavano, e soprattutto non erano a portata d'occhi, per lo più si trovavano in fondo a grotte il cui accesso era arduo. È difficile pensare che un uomo si potesse addentrare in quei meandri solo per addobbarli, o per andare a vedere il dipinto fatto da un artista.

    Disegnando una preda l'artista la catturava, era un cacciatore per immagini, la sua arte e la realtà erano una cosa sola, e proprio perché tendeva a creare la realtà, la imitava. L'artista era un mago che faceva realtà. Ludwig Wittgenstein ha detto io sono il mio mondo, l'artista paleolitico il suo mondo lo costruiva.

    L'idea che l'arte sia una prolunga della realtà - o viceversa -, non è mai sparita del tutto, ed è giunta camuffata in vari modi sino a noi. Basti pensare a quanto difficile possa essere per alcuni di noi distruggere o danneggiare la foto o il ritratto di una persona amata, come se così facendo si potesse recarle del male, o come al contrario strappiamo l'immagine di una persona che ci ha ferito, come se in quel modo potessimo restituirle il dolore. Alcuni truffatori odierni usano ancora foto o feticci per riti di magia basati su questo concetto preistorico.

    E ancora, quando si depone un tiranno vengono abbattute le statue che lo raffigurano, oltraggiati i suoi ritratti, e lo si fa con l’inconfessabile pensiero che quello che accade alle effigi accada anche al despota; lo stesso vale persino quando si brucia una bandiera, che non è che l'immagine simbolica di un'intera nazione.

    Durante la Rivoluzione francese ci fu un chiaro esempio di questo meccanismo mentale. La cattedrale di Notre-Dame ospitava statue che rappresentavano i re dell'Antico Testamento, per questo motivo le loro teste erano coronate; tanto bastò per scatenare la furia dei rivoluzionari, che le considerarono simboli della nobiltà francese e si abbatterono su di loro decapitandole, proprio come fecero con i reali in carne e ossa. In seguito le sculture danneggiate furono restaurate dall'architetto Eugène Viollet-le-Duc.

    Ancora oggi, in alcune tribù ritrarre o fotografare una persona vuol dire rubare la sua anima, se non la persona stessa, Gombrich riportò questo episodio: «A un artista europeo che aveva fatto uno schizzo del loro gregge, gli indigeni domandarono con angoscia: Se ti porti via le bestie, di che cosa vivremo?»

    Tenendo presente la valenza magica attribuita alle immagini, è più facile comprendere le iconoclastie e le censure che dall'antichità in poi si sono succedute, e che continuano a essere presenti ancora oggi.

    Come scrive Kris: «La proibizione dell'attività artistica, permanente presso la civiltà ebraica e maomettana, temporanea e parziale presso quella cristiana, si basa sulla credenza nell'efficacia magica dell'immagine: secondo un'opinione estremamente diffusa, l'immagine conferisce un potere sull'oggetto che essa rappresenta. Nel folklore artistico, il creatore d'immagini è molto vicino allo stregone e al mago.»

    Come osservato da Georges-Henri Luquet, la mimesi e la produzione originale sono le fondamenta dell'arte. Potremmo definirlo il dualismo creazione/ricreazione: la creazione, che è innovazione della realtà, e la ricreazione, che è imitazione della realtà già esistente, sono i due principi sui quali è nata l'arte. Questi principi presero forma nelle opere dei primi artisti, in tempi ancora precedenti, man mano che essi perfezionarono questo metodo di costruzione/ricostruzione della realtà che diventò magia e arte: creare e ricreare.

    La fascinazione per l'imitazione potrebbe essere scritto nei nostri stessi geni, come la scienza sembra confermare, e per capire quanto sia efficace la mimesi basta vedere come persino oggi - che abbiamo millenni di arte alle spalle, che siamo circondati da immagini fotografiche, statiche o in movimento, che ricalcano la realtà nei dettagli -, la maggior parte della gente resti ancora stupita ed estasiata davanti a un dipinto iperrealista, pensando si tratti di chissà quale prodigio: il quadro di un cesto di ciliegie ci affascina più di quanto potrebbero delle vere ciliegie.

    Ammiriamo il pittore che dipinge oggetti che sembrano veri, come ammiriamo l'attore che ci spinge a credere che ciò che fa e dice sia vero, così come votiamo il politico che con la dialettica e l'istrionismo riesce a convincerci che le sue promesse non siano solo frottole elettorali. Il verosimile e il credibile sembrano avere più forza delle cose vere, reali, concrete. In verità, noi esseri umani non amiamo la verità, ma ciò che sembra vero.

    Come vedremo, l'ossessione per la riproduzione fedele della realtà dominerà tutta la terza fase della storia dell'artista, che per quattro secoli vi si dedicherà in modo quasi esclusivo.

    Come erano visti questi artisti preistorici nei loro gruppi di appartenenza, qual era la considerazione che gli altri avevano di loro? È impossibile dirlo con certezza, ma il loro talento li rendeva sciamani, ed è probabile che essendo considerati in grado di influenzare la realtà avessero un forte ascendente e godessero di grande considerazione. Forse a loro era anche riservato un certo grado di protezione, proprio per preservare delle figure importanti per la sopravvivenza del gruppo. Forse l'artista era persino alla guida del gruppo, o faceva da collante con la propria magia, di certo non era l'ultima ruota del carro.

    Il primo concettuale

    Dal Paleolitico si passa a Mesolitico e Neolitico, che coprono un periodo che va da 10.000 fino a 5.000 anni fa, e fanno parte dell'era geologica dell'Olocene, che è quella in cui noi stiamo vivendo.

    Le cose cominciano a cambiare, si assiste a uno spostamento sempre più accentuato verso il simbolo e verso il concetto. L'artista neolitico non crea più la realtà, ma la sua sostanza, l'idea, costruisce simboli più che imitazioni. La sua

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