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Ciapa el tram balurda: Aneddoti e curiosità milanesi
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Ciapa el tram balurda: Aneddoti e curiosità milanesi
E-book259 pagine3 ore

Ciapa el tram balurda: Aneddoti e curiosità milanesi

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EDIZIONE REVISIONATA  22/11/2019.

La storia delle città è sempre divisa in due parti: la prima, quella importante, è  dei grandi personaggi storici, delle date sui libri di testo, del nozionismo così noioso a scuola. La seconda, meno nobile ma forse più viva e vera, è quella che viene scritta ogni giorno dalle persone qualunque, dagli eroi del quotidiano, che viene tramandata da nonno a nipote nelle lunghe serate in case di ringhiera, storie dove tutti aggiungono, tutti tolgono, tutti modificano, ma il risultato è uno e sempre uno soltanto: un grande spaccato di umanità.
LinguaItaliano
EditoreCrescere
Data di uscita14 nov 2019
ISBN9788883378478
Ciapa el tram balurda: Aneddoti e curiosità milanesi

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    Anteprima del libro

    Ciapa el tram balurda - Giampaolo Rossetti

    castigo

    Introduzione

    La storia delle città è sempre divisa in due parti: la prima, quella importante, è dei grandi personaggi storici, delle date sui libri di testo, del nozionismo così noioso a scuola.

    La seconda, meno nobile ma forse più viva e vera, è quella che viene scritta ogni giorno dalle persone qualunque, dagli eroi del quotidiano, che viene tramandata da nonno a nipote nelle lunghe serate in case di ringhiera, storie dove tutti aggiungono, tutti tolgono, tutti modificano, ma il risultato è uno e sempre uno soltanto: un grande spaccato di umanità. Quindi – carpe diem – cogliamo l’attimo fuggente del personaggio, dell’aneddoto, del fatterello di cronaca utile per capire la vita, altrimenti tutto si perde e si appiattisce per poi sparire nel grigio gorgo del tempo.

    Il mio è solo un tentativo timido e maldestro alle soglie del 2000 per non dimenticare le nostre origini; poiché il dialetto milanese non è statico ma è dinamico, si evolve continuamente nel tempo (il dialetto del Porta oggi non sarebbe compreso da nessuno), per semplificare la lettura anche a coloro che proprio milanesi DOC non sono, ho pensato di adottare la tecnica più semplice: quella di scrivere il dialetto così come lo si pronuncia, facendo inorridire i puristi, se pur ve ne sono ancora, del milanese classico. La tecnica che io ho adottato passa sotto il nome un poco complesso di translitterazione.

    Molto tempo fa un milanese, Alessandro Manzoni, andò a risciacquare i panni nell’Arno per poter scrivere in italiano perfetto un libro che parlava di promessi sposi, che poi gli diede un poco di notorietà, tanto che ancora oggi qualcuno lo legge.

    Poiché questo libro è scritto da un milanese per altri milanesi, io ho risciacquato, anzi resentato i panni nel Naviglio, come ha fatto per anni e anni la mia mamma e non certo metaforicamente; cosicché ne sono uscite molte forzature linguistiche, veri barbarismi letterari, ovvero quella fraseologia idiomatica che mi porta a scrivere in italiano parole come: resentare, ravanare, tampinare, tribolare e usare gli articoli determinativi davanti ai nomi.

    Mi scuso ancora, ma sono le mie radici che affiorano prepotentemente.

    La locanda del signor Berini detto el Berin

    Nel 1880 circa tale Pietro Berini aprì una locanda super economica: – La lucanda del Berin, – appunto; in dialetto milanese – el berin – è la pecorella.

    Per soli 20 centesimi, in due enormi, squallidi ambienti, si affittavano un paglione steso a terra, una coperta e un guanciale. Questi passavano ogni notte da un corpo all’altro e certamente non profumavano di pulito: i paglioni erano dei veri e propri cimiciai, le coperte piene di pulci, i cuscini di pidocchi. Luci sempre accese per prevenire furti; 40 o 50 persone ammassate in un ambiente che per quanto ampio risultava essere sempre affollato e mefitico.

    La locanda, o meglio sarebbe dire il dormitorio, era in via di Porta Tenaglia: latrine comuni, una ventina di bacinelle colme d’acqua sui treppiedi, poche ma bastanti, tanto nessuno si lavava, mancava il sapone, un grosso salviettone per tutti che non veniva mai cambiato, ridotto ormai ad uno straccio per pavimenti.

    D’inverno non si aprivano le finestre per trattenere il calore animale emanato dai corpi; d’Estate si aprivano, ma arrivavano le zanzare a nugoli; gli scarafaggi – i burdocc – quelli erano sempre presenti. Le donne non erano ammesse, facevano tutte – la vita – cercavano di adescare clienti e creavano problemi. Con 4 lire in contanti abbonamento per un mese con diritto al posto fisso; con un supplemento di 10 centesimi al giorno si aveva – un piatt de tiraca – carne stracotta con cipolle e patate, mezza – mica de pan de mej – e un bicchiere – de tengiuda – acqua spruzzata di vino.

    La polizia faceva spesso irruzione nella locanda; gli agenti, con mascherine sulla bocca per non essere contaminati e con i guanti frugavano ovunque, rivoltando i paglioni, sequestrando coltelli e bastoni, arrestando i ricercati e rimandando al reggimento i renitenti alla leva e i disertori; la leva militare allora era molto temuta perché durava cinque anni. Si ritrovavano le piccole refurtive, frutto dei furti di giornata.

    Quando avvenivano i controlli, sempre nottetempo, i più svelti riuscivano ad infilare sotto i cuscini dei vicini addormentati quanto di illecito detenevano, ed assistevano impassibili all’arresto dei malcapitati innocenti, che poi del tutto innocenti non erano mai.

    Nemmeno Gustavo Dorè avrebbe saputo, nelle illustrazioni della Divina Commedia, immaginare un inferno peggiore.

    La mamma Rosa di via Arena

    Via Arena civico 24, anni 1910/1920 una casa antica con vari cortili, scale, scalette, ringhiere ed altane come si usava fare una volta.

    Nel secondo cortile, pavimentato a sassi di rizzata, vi era una scuola; niente di strano se non fosse che in quella scuola si insegnava accattonaggio e borseggio; la padrona, maitresse, insegnante e nume tutelare, era detta Mamma Rosa.

    In una specie di corte dei miracoli, dove un gobbo Quasimodo lo si poteva trovare facilmente, assieme a storpi e sciancati, veri o falsi che fossero, la Mamma Rosa era temuta e rispettata per quei corsi dove si insegnava a impietosire o gabbare la dabbene gente, esibendo moncherini e deformità. Al corso di borseggio erano ammessi in pochi, bisognava avere attitudini vere e molta sensibilità; dal soffitto pendeva – el pigutun – un fantoccio con una serie di campanellini cuciti agli abiti. Prima bisognava imparare, con un semplice tocco, ad individuare – el palpè – cioè il bottino e poi dopo a determinarne il tipo: – el quaja – el bursin – la fisarmonica.

    El quaja era il portamonete di cuoio a forma di mezzaluna, el bursin era di stoffa con chiusura di ottone sovrapposta, la fisarmonica era un portafoglio con vari scompartimenti, quindi il più ambito.

    Bisognava toglierli senza fare suonare i campanelli; tecnica sopraffina e mani di velluto, tutto sotto gli occhi attenti di Mamma Rosa che con un lungo bastone correggeva e bacchettava i meno abili.

    Gli allievi avevano la possibilità, pagando due lirette in aggiunta alla quota, di poter godere di una specie di pensionato interno, che comprendeva il passare la notte sulla corda, comprensivo di una tazza di – sù e giò – e un cafè del gineuc – al mattino. Spiegazione: alla sera si tirava una corda da un capo all’altro del locale, si consegnava un guanciale ad ognuno ed una sedia, ci si sedeva contrapposti a spina di pesce con il guanciale a cavallo della corda e vi si appoggiava il capo; era pur sempre meglio delle panchine del parco, specie nella stagione fredda.

    Al mattino Mamma Rosa entrava nel dormitorio e al grido – dai che cambium i lenseu – slegava un capo della corda e tutti si svegliavano. Del cafè del gineuc sappiamo che è sempre stato sinonimo di caffè lungo e ultraleggero, in altra parte del libro spieghiamo anche il perché. Resta il – sù e giò – vediamo in po’ di capirci qualche cosa; in un angolo di quella stanza bolliva perennemente un calderone con dentro quattro ossa, carote, sedano e cipolle: insomma un brodo.

    Sù e giò significava su acqua e giù brodo, infatti per ogni tazza di brodo che si toglieva si andava ad aggiungere una tazza d’acqua e il gioco era fatto; ogni settimana si cambiavano le ossa e gli ortaggi, per quei tempi di miseria – el su e giò – era pur sempre qualche cosa di caldo nello stomaco.

    Mamma Rosa era ammanigliata un po’con tutti: ricettatrice? Certamente sì, ma anche confidente della polizia che in cambio tollerava la – scuola –.

    Ormai in tarda età Mamma Rosa andò a convivere con altre due cariatidi di un tempo che fu: la Maria Vascona, che in gioventù era stata la donna del Giusti, un capo della malamilano di allora e la Giuseppina Strepabinari, mai saputo il suo vero nome.

    Era questa una donna che aveva passato la vita nelle case chiuse di tutta Italia; di lei non si sa molto, solo che della sua passata bellezza, un giorno notevole, non ne restavano che labili tracce su un viso perennemente imbellettato e dipinto, come quello di un indiano sul sentiero di guerra. Abitavano in corso di Porta Ticinese al civico 80, cortile interno, proprio di fronte alla cooperativa Abramo Lincoln dove al Sabato sera si ballava il liscio con il campanello per il cambio delle coppie. La Giuseppina aveva, ogni tanto, degli estimatori della sua ars amatoria riceveva qualche ammiratore in casa sua, una cosa discreta e tollerata dai casigliani, tanto da poter raggranellare qualche lira. Si ricorda di un tale che una sera, dopo avere alzato un poco il gomito, volle salire dalla Giuseppina; terminata la visita e arrivato in cortile si avvide di avere dimenticato il cappello di sopra ed essendo un poco alticcio, per non dovere risalire due piani di scale, pensò bene di chiamare a gran voce, ma non ricordandone il nome fece quello che non avrebbe mai dovuto fare, si mise a gridare: – sciura vaca, u lassà su el capell – La Giuseppina si affacciò alla ringhiera come una novella Giulietta e di rimando: – ven sota che tel tru giò – ma dopo un istante sul malcapitato pioveva il maleodorante contenuto di un pitale, pieno sino all’orlo non certo di acqua di colonia. Allora non vi erano servizi in casa; il poverino dopo un attimo di sbigottimento uscì con un: – e pensà che a gu anca da lei – e raccattato il suo cappello che aveva seguito il volo del liquido organico se ne andò sconsolato.

    Non davano fastidio a nessuno, tenevano in casa un paio di gatti ed erano ben viste dai vicini; Mamma Rosa è morta nel 1948 seguita un anno dopo dalla Maria Vascona alla quale avevano amputato una gamba essendosi ammalata di diabete; della Giuseppina Strepabinari, ritiratasi alla Baggina, non se ne seppe più nulla.

    Tornando alla scuola di borseggio, il migliore allievo di Mamma Rosa è stato senza dubbio alcuno el – Negher – così chiamato per la carnagione olivastra ma milanese purosangue. Abitava in Corso San Gottardo al 36, primo piano, scala a destra, terza porta sulla ringhiera. Per il – Borgo – era un mito, la sua abilità sfiorava l’incredibile, ma era molto, troppo, conosciuto dalla squadra preposta all’antiborseggio, così se spariva un portafogli e lui era nei paraggi, veniva prelevato al volo e spedito al – collegio di San Vittore – dove ha soggiornato per una buona metà della sua vita.

    Era così conosciuto in carcere che svolgeva le mansioni di cuciniere, quando scadeva la pena e doveva uscire, appendeva il grembiule ad un chiodo dicendo: – lassel chi, che quand a turni indrè el duperi ancamò – tanto era sicuro di dover ritornare in carcere. La sua specialità erano i portafogli e le penne stilografiche con il pennino d’oro; lavorava sui tram affollati, prima del – lavoro – non beveva alcoolici per avere la mano ferma.

    Usava – l’ungina d’ora – una piccola unghia posticcia, affilata come un rasoio, che sovrapponeva all’unghia del mignolo e con quella incideva le giacche all’altezza dei portafogli che gli scivolavano in mano e il gioco era fatto. Per le penne – in del sacucin – usava il giornale; facendo finta di leggere portava il lembo del giornale sotto il viso dell’incauto e con l’altra mano sfilava la penna da sotto, chiudeva il giornale e scendeva alla prima fermata.

    Quando dopo una detenzione ritornava a casa, metteva a nuovo figli e moglie, pagava i debiti contratti con i bottegai, che alla famiglia del – negher – facevano credito volentieri perché sapevano che sarebbero stati pagati, sia pure a tempo debito; riforniva la dispensa di casa e dopo poco spariva di nuovo per qualche mese.

    Tutti sapevano la sua attività – perché a l’era un grata – ma nel suo cortile non è mai mancato nulla; il suo detto era:

    – foera del busc a fa la legna – e aggiungeva: – Milan lè granda e i tram a van in depertùtt. Mai fatto un atto di violenza o posseduto un oggetto atto ad offendere, era un abilissimo borseggiatore, se scoperto pagava con la detenzione; se andava, bene, se non andava, pazienza.

    Il capolavoro del Negher è però stato in un campo un po’ diverso dal suo abituale e si è consumato la sera del 8 Agosto 1948 al velodromo Vigorelli di Milano. Gino Bartali aveva vinto il Tour de France e partecipava con i reduci della corsa ad una riunione ciclistica su pista. Il velodromo era strapieno all’inverosimile, 13500 persone all’interno e un paio di migliaia a premere sui cancelli di entrata. El Negher con cappello di – custode autorizzato – li aspettava al varco, esponeva delle rastrelliere per biciclette, in quegli anni unico o quasi, mezzo di trasporto. Fece le cose per bene, pagamento anticipato con tanto di scontrino e contromarca, tutto regolare. Una volta entrati tutti a gridare viva Bartali, el Negher fece un fischio, arrivò un camion e sparirono biciclette e rastrelliere. Fu un colpo da manuale.

    Ormai ottantenne, con la mano tremante e quindi impossibilitato al suo tipo di – lavoro – diventò l’uomo di fiducia dei negozianti del Borgo: versamenti in banca, prelievo di soldi, pagamento tratte, non è mai mancata una lira. E’ stato l’ultimo – grata – di una stagione romantica ormai finita.

    Don Giuseppe Gervasini, detto – el pret de Ratanà –

    Nei primi anni del secolo in piazza Fontana, nel palazzo dell’Arcivescovado, viveva un giovane sacerdote il suo nome era Don Giovanni Gervasini, originario del paese di Ratenate e da qui il suffisso che lo avrebbe accompagnato per tutta la sua vita: – el pret de Ratanà –.

    Uomo scomodo e duro con se stesso e con gli altri, dal caratteraccio originale, usava un linguaggio crudo con tutti, contestatore nato, sempre in lotta con i vertici della Curia; dopo avere subito numerose e severe reprimende è stato allontanato dal suo posto e pregato di andare a dimorare altrove. Don Giuseppe è così approdato in un fatiscente e degradato stabile di ringhiera in corso di Porta Romana; per celebrare la sua messa quotidiana, non avendo egli una propria parrocchia, si recava ogni giorno alla chiesa di via Orti. Dopo avere ottemperato a quanto stabilito dai suoi doveri, dette le orazioni e letto il breviario, tutto il suo tempo libero il Don Giuseppe lo dedicava a quella che era la sua grande passione: l’erboristeria. Infatti ogni giorno pestava nel mortaio erbe strane, le bolliva e ne traeva decotti, pappine, senapismi, beveroni e polentine.

    In quei tempi di grande miseria gli operai, non essendoci il servizio sanitario nazionale, chiamavano il medico quando era sempre troppo tardi: non si faceva prevenzione; quindi possiamo intuire che avendo sulla ringhiera – ùss a ùss – cioè porta a porta, un erborista, si ricorresse a lui in ogni caso di malattia, sia insorgente sia conclamata e il Don Giuseppe interveniva, brontolando, burbero come sempre e risolveva: dolori artritici, mali di gola, di stomaco, insonnie ecc. ecc.

    La sua figura ebbe subito molta notorietà; non si faceva mai pagare e questo lo rese popolare nel suo quartiere, ogni giorno decine di persone ricorrevano a lui ed ai suoi metodi alternativi.

    Avvenne che una sua lontana parente, morendo, lo lasciasse erede di una piccola casetta ai margini di Milano, tra prati e fontanili; il Don Giuseppe andò ad abitarla immediatamente, i fossi e i corsi d’acqua erano per lui una benedizione potendo trovare erbe medicinali a volontà e in alcuni casi anche coltivarle.

    La piccola casetta esiste ancora, ora non è più tra i prati ma in via Fratelli Zoia, una strada che va da via Novara a via Delle Forze Armate; fermate d’autobus, pizzerie, parcheggi e dei campi neppure l’ombra. Attigua alla casetta vi era una cascina agricola che oggi non esiste più, al cui interno vi era inglobata una piccola chiesetta che divenne immediatamente – la sua gesa –.

    Don Giuseppe Gervasini, o meglio – el pret de Ratanà – fu un po’ tutto: erborista, omeopata, guaritore – segnun – e personaggio. Dotato di un fisico imponente e di una voce tonante, aggrediva le persone imponendosi anche con prepotenza. Chi ricorreva a lui doveva subire il suo carattere aggressivo e doveva aspettarsi di tutto; pare fosse un mostro in diagnostica, guariva la gente anche agendo sulla psiche di chi si sottoponeva ai suoi trattamenti, sempre strani ma, pare, efficaci. Non chiedeva mai soldi, chi poteva e voleva, lasciava qualche moneta nel – baslott – una scodella posta all’entrata della casa.

    Era accudito dalle donne della cascina che ne avevano cura, assistevano alla messa celebrata nella cappelletta in mezzo ai campi, recitavano il rosario e si facevano mandare a quel paese se lo contraddicevano; barba sempre mal rasata, con una tonaca unta e bisunta, pantaloni rivoltati a mezza gamba, zoccoloni sempre infangati per via dei fossi e per le ricerche di erbe rare. Duro con se stesso e con gli altri, rispettato, temuto e venerato; l’anedottica delle guarigioni da lui ottenute è infinita; a volte era spietato: molte persone, bussando alla sua porta, si sono sentite dire: – urmai a l’è tardi, per ti podi fa pù nient, quatr’ass e quater ciod –.

    Una volta gli portarono una ragazza che era stata aggredita, per lo spavento e lo shock non parlava più, a nulla erano valse le attenzioni della famiglia e del medico, la ragazza era muta; Don Giuseppe dopo averla interrogata, questa volta pazientemente,

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