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Il Boss di New Orleans
Il Boss di New Orleans
Il Boss di New Orleans
E-book329 pagine4 ore

Il Boss di New Orleans

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Info su questo ebook

New Orleans, 1925. Efraim Pizzuto, strillone di 11 anni, assiste a un regolamento di conti tra famiglie mafiose in pieno Quartiere Francese. Testimone scomodo, viene rapito e portato al cospetto del boss Silvestro Carolla.

New Orleans, 1948. Due auto nere tagliano la strada a Efraim. FBI, ci segua.

Un protagonista finora sconosciuto per un romanzo potente che intreccia storie e Storia, inganni e complotti, crimine e delitti: tratto da vicende reali, raccontato da una delle migliori penne della nostra narrativa d’avventura.

Eugenio Saguatti (Bologna, 1968) è scrittore ed editor: ha esordito nel 2010 con Caos a Qasrabad e pubblica regolarmente articoli e racconti in particolare alternando fantasy e fantascienza.
LinguaItaliano
EditoreRW S.R.L.
Data di uscita4 lug 2018
ISBN9788832012095
Il Boss di New Orleans

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    Anteprima del libro

    Il Boss di New Orleans - Eugenio Saguatti

    Il boss di New Orleans

    di  Eugenio  Saguatti 

    Indice

    Titolo

    1948

    1925

    1948

    1925

    1948

    1929 - Maggio

    1948

    1927

    1948

    1925

    1948

    1927

    1924

    1948

    1908

    1948

    1928

    1948

    1931

    1948

    1936

    1948

    1930

    1935

    1948

    1927

    1948

    1930

    1890

    1930

    1948

    1934

    1948

    1940

    1948

    1942

    1948

    1943

    1948

    1944 - Febbraio

    1948

    1947 - maggio

    1948

    1947

    1948

    1947 - settembre

    1948

    Ringraziamenti

    Colophon

    Prossimi appuntamenti

    A Sabine,

    monamùr 

    1948

    Chiude la porta e scende a due a due i gradini della scala esterna. Sul vialetto incrocia la padrona di casa, china a zappettare nell’orto poco più grande di un asciugamano.

    – Buongiorno signora Palumbo.

    La donna si porta una mano alle reni, si raddrizza con una smorfia. – Buongiorno Efraim. Ci vorrà ancora un mesetto, ma mò quando vengono le melanzane ti faccio la caponata, che dici?

    – Che non vedo l’ora, purché ne avanzi per suo marito.

    La signora Palumbo fa spallucce. – Tanto chiddu sempri a jettare vuci sta.

    Si avvia su Nicholls Street. Conta le monete in tasca e sbuffa: tram o sigarette?

    È caldo per essere metà maggio e non tira una bava di vento, ma una camminata non gli dispiace mai. È un miglio e un quarto, da lì al giornale: giù per tutto il Quartiere Francese e oltre, fino a Gravier Street. Mezz’oretta, compresa la sosta all’emporio. Allunga il passo.

    Appena svolta su Burgundy Street un’auto nera inchioda, sale sul marciapiede e gli taglia la strada. Una Chevrolet quattro porte. Con la coda dell’occhio intravede un’altra sagoma fare altrettanto alle sue spalle. Non ne distingue la marca, ma è scura anche quella.

    Ne scendono tizi con facce torve e mani infilate nelle giacche, lo circondano.

    Efraim li riconosce prima ancora che aprano bocca. Hanno modi da gangster, portamento da gangster, ma sono vestiti peggio: federali.

    – Mister Pissutou?

    Niente, non ce la fanno proprio: storpiargli il cognome sembra inevitabile.

    – No, mi confondete con qualcun altro. – Tenta di girare attorno al cofano della Chevy. – Mi chiamo Pizzuto.

    Lo bloccano in due. – Okay, okay, Pitzutto, non avere fretta. Cosa c’è, fai tardi alla partita di golf? – Sorridono con la bocca storta.

    Quello vestito peggio di tutti sventola un distintivo, uno scudo dorato con un’aquila appollaiata in cima. – FBI. – È giovane, forse più di Efraim.

    Si guarda attorno. Un suonatore di organo meccanico interrompe una versione metallica di Vitti ’na crozza e se la svigna con il carretto. Una donna anziana con un cappellino di paglia a tesa larga si fa il segno della croce e attraversa la strada.

    – Ribadisco: credo vi stiate sbagliando. Sono un giornalista.

    – Sappiamo chi sei. – Il capo indica l’auto più arretrata. – Ti spiacerebbe seguirci?

    Come se potesse rifiutarsi.

    Un vecchio furgone della birra Jax, carico di botticelle, si ferma con un lungo lamento dei freni e suona il clacson. Il conducente sporge la testa dal finestrino. – Allora, facciamo mezzogiorno?

    Uno degli agenti apre la giacca e indica la pistola nella fondina. L’autista si ritira nell’abitacolo come una tartaruga nel guscio e si cala il cappello sulla faccia.

    Silver l’aveva avvertito che sarebbe successo, non è una sorpresa.

    Sospira. Entra nella Ford e si accomoda sul sedile posteriore.

    L’edificio è una vecchia rimessa per barche, pareti in legno con rattoppi in lamiera. L’anta di destra è chiusa, c’è inchiodato un cartello giallo devastato dalla ruggine: No fishing, no swimming, no hunting, no trespassing. No anything!.

    I vetri sono sfondati e nel tetto si aprono buchi da cui passerebbe un pellicano senza chiudere le ali. All’interno, scaffali sciancati reggono attrezzi ormai diventati un blocco indistinto di ferraglia. Matasse di corda spesse due dita penzolano a cavallo delle travi. Muschio e rampicanti ovunque.

    Fa fresco, quasi freddo; l’umidità aggredisce le ossa.

    Man mano che il sole si alzerà, pensa Efraim, qui dentro diventerà una specie di sauna puzzolente di vegetazione marcia e olio motore. Probabilmente siamo dalle parti di Lakeshore Park, o comunque a nord, sul lago. Ci sono voluti quaranta minuti per arrivare, che con il traffico del mattino è plausibile.

    Non ha potuto guardare la strada, per un gran pezzo l’hanno bendato con la sua stessa cravatta, ma è convinto di non sbagliarsi granché.

    In ogni caso siamo lontani da tutto e da tutti, e non è un bel segno. Il sottinteso è chiaro come le insegne al neon che stanno diventando di gran moda su Canal Street: una pallottola in testa, ti buttiamo agli alligatori e tanti saluti.

    – Non mi sembra una sede autorizzata del Bureau.

    Quello grosso che sorride gli molla una pacca sulla spalla. – Sbagliato. Autorizzatissima. Almeno per oggi. Prego, fai come fossi a casa tua.

    Sedie da picnic, cinque o sei, e un tavolo pieghevole hanno l’aria di essere stati aggiunti di recente.

    Scavalca il materasso con le macchie di muffa e le molle che spuntano dagli squarci, si siede al lato corto del tavolino, in modo da tenere d’occhio il portone d’accesso.

    Sui pilastri di legno sono incisi cuori spigolosi e nomi di ragazzi che ragazzi non saranno più.

    Il capo, quello giovane con i capelli tagliati da marine, si allenta la cravatta, si slaccia la giacca e prende posto di fronte a Efraim, spalle all’ingresso. Sotto l’ascella sinistra penzola una calibro .45; accavalla le gambe, piazza il cappello sul ginocchio piegato. – Bene, mister Pitzutto, eccoci qua.

    – Sono in arresto?

    – Ma no, per carità. Adesso ci facciamo una chiacchierata, con calma, come tra vecchi amici.

    – Immagino che sia normale, per voi federali, perquisire gli amici e sequestrargli la cravatta. Per tacere del resto.

    Il giovane alza il pollice. – Ci hai azzeccato. Cosa vuoi, ci divertiamo un sacco a fare ’ste robe da sbirri.

    Un ometto magro, con i baffetti alla Walt Disney, si sistema in silenzio al lato lungo del tavolo, con blocco per appunti e matita in mano. Si muove a scatti, non si toglie il cappello e continua a spingersi gli occhiali sul naso. La giacca aderente non disegna nessun rigonfiamento sul fianco.

    Gli altri rimangono a gironzolare nei paraggi, due a portata d’orecchio, un paio qualche metro più in là, verso l’entrata.

    – Una chiacchierata a proposito di cosa, mister…?

    – Puoi chiamarmi Johnson.

    – Capisco. Immagino che lui – indica con la testa il sosia di Disney – sia Smith.

    – No. Lui è Jackson.

    Efraim annuisce. – Messaggio ricevuto. Bene, mister Johnson, come posso esserle utile?

    – Vorrei che tu mi raccontassi tutto quello che sai a proposito di Silvestro Carolla, alias Silver Dollar Sam, boss della famiglia mafiosa Matranga. Conosciamo già un sacco di cose, sono anni che lo osserviamo, ma vorremmo che tu ci aiutassi a colmare qualche lacuna, per così dire.

    A Efraim scappa un sorriso sbilenco. – Nientemeno. Ci vorrà un po’.

    Johnson si accende una Lucky Strike senza filtro, lancia il pacchetto sul tavolino pieghevole. Giocherella con l’accendino, uno Zippo, apre e chiude il coperchio, clak-clak; lo appoggia dopo un paio di tiri. Sulla cassa c’è inciso 6 giugno 1944 - Omaha Beach.

    – Oh, non è un problema. Noi non abbiamo altri impegni. Vero ragazzi?

    Il grosso scuote la testa. – No capo, nessun impegno. – Adesso impugna un mitra Browning, un aggeggio da otto chili e mezzo, lungo un metro e venti, che in mano a lui sembra una carabina ad aria compressa. Cammina avanti e indietro a passi pesanti, tra barili in disfacimento e macerie del tetto. È l’unico con un completo chiaro, color sabbia. È abbronzato; sull’anulare sinistro si vede a malapena una strisciolina di pelle chiara.

    Johnson sbuffa fuori il fumo. – Se farai questo per noi, sorvoleremo sul fatto che sei un affiliato all’associazione criminale più pericolosa del sud degli Stati Uniti.

    – Se sapete tante cose, dovreste essere informati che non sono mai stato affiliato all’organizzazione di Carolla.

    – Però sappiamo che hai avuto un rapporto privilegiato con il boss, per lungo tempo. Abbiamo testimoni pronti a giurarlo in tribunale. Per il governo degli Stati Uniti è più che sufficiente per considerarti complice. Se ci convinci che così non è… – alza il pollice. – Meglio per tutti. A noi interessa lui, Carolla; mi spiego?

    – Si è spiegato benissimo, mr. Johnson. Mettetevi comodi, che qui si fa sera. Mi tocca tornare indietro un bel pezzo. Al 1925, per la precisione.

    Johnson scambia uno sguardo con Jackson, che lecca la punta della matita e si mette a scrivere. – Vai, siamo tutt’orecchie.

    1925

    – Ghiaccio, ghiaccio!

    Il carro scendeva con calma lungo Bourbon Street, in direzione di Cotton Exchange. Allargò a destra per lasciar passare il biroccio del latte, con le tazze di lamierino che tintinnavano contro i bidoni metallici.

    – Ghiaccio industriale! – Dei due uomini a cassetta, quello magro con i capelli ricci urlava, le mani a megafono; l’altro, il grosso con i baffoni e la bombetta incrostata di sudore, conduceva a briglia lenta.

    Sette o otto ragazzini, scalzi e con pochi stracci addosso, sciamarono fuori da portoni e cortili, ma si fermarono di botto. Si aspettavano il trabiccolo di Benny, invece si trovarono davanti un vagone chiuso, con le fiancate dipinte in maniera elaborata. Per i pochi che sapevano leggere, la scritta recitava Ice Manufacturing Company - New Orleans.

    Benny era un’istituzione nel quartiere francese. Arrivava ogni mattina sul suo carretto scoperto, puntuale come gli uragani a giugno. Abbassava le sponde e lo scolorito Home Ice Company non si leggeva più. I bambini gli si radunavano attorno a frotte per accarezzare Mary Frou, la cavalla più docile e vezzosa della Louisiana, con il cappello di paglia tra le orecchie, e per ascoltare le storie di Benny. Storie brevi, e non poteva essere diversamente, ma pur sempre storie.

    – Pensate com’è strano il mondo. – Spalancava gli occhi, come se fosse stupito lui per primo. – Mio nonno era il re di una tribù in Africa; aveva tutto, bestiame, donne, guerrieri, ma non ha mai visto il ghiaccio nell’intera sua vita; io è tutta la vita che vedo solo ghiaccio. – E rideva. Seduto sul pianale del carretto, con le gambe a penzoloni, si picchiava manate sulle cosce e rideva, con la testa buttata all’indietro e i denti bianchissimi in mostra.

    – Portamene su dieci libbre – gli urlavano le donne dalle finestre.

    Lui si toccava il berretto con due dita e accennava un inchino. – Arrivo, ma’am.

    Spostava la paglia che copriva le grandi lastre, impugnava l’ascia, menava un colpo solo, secco, e il pezzo si staccava. Da qualche parte era sepolta la bilancia, ma non ce n’era bisogno: se dieci libbre era l’ordinazione, dieci libbre sarebbero state.

    Si metteva in spalla la pezza di cuoio, afferrava il blocco con l’uncino e se lo caricava sulla schiena. I monelli scattavano ad afferrare i frantumi prima che si sciogliessero e se li cacciavano in bocca. Ancora più divertente era toccare le lastre con la lingua: restava appiccicata, e ogni volta montava la paura di non riuscire a staccarsi prima che tornasse Benny.

    – Non fatelo. A casa ho una collezione di lingue di mocciosi.

    Fiato sprecato, ovviamente. Quando il suono degli scarponi rimbombava giù per le scale, si scatenava il fuggifuggi, che l’uomo-ghiaccio alimentava correndo a destra e a manca con l’uncino sollevato e ululando come un loup garou. Un teatrino che si ripeteva ogni santo giorno.

    Dunque, chi erano questi due nuovi?

    Il più deluso di tutti era lo strillone. Si era precipitato lì, con il borsone dei quotidiani a tracolla, appena aveva sentito il grido del venditore, ma era rimasto impalato in mezzo alla strada. Se Benny sbancava, ovvero se vendeva tutto il carico, spesso comprava il giornale. Leggeva a stento, compitava le sillabe con il dito a tenere il segno e la fronte aggrottata, ma non si perdeva una pubblicità di automobili: Ford Tudor Sedan $ 590, Berlina $ 685, Coupé $ 525. Calcolava quanti anni avrebbe dovuto lavorare, quanti blocchi avrebbe dovuto caricarsi sulla schiena e sognava.

    – Che Baron Samedi mi sprofondi nella palude se non sarò il primo muso nero motorizzato a girare per il Vieux Carré, dovessi vendere l’intero Polo Nord.

    Una donna con i capelli appena striati di grigio, raccolti in una crocchia dietro la nuca, si affacciò al balcone di ferro battuto che sembrava un merletto. – E voi chi siete? Ah, anche voi con ’sta frenesia del ghiaccio industriale. Bella roba. Non fa freddo come quello naturale che arrivava da New York fino a dieci anni fa. Quello sì che era ghiaccio, non questa fetenzìa che va di moda adesso.

    Si appoggiò alla ringhiera e scosse la testa. – Che fine ha fatto quel perdigiorno di Benny? Fa lo stesso, ne prendo venti libbre, ma divise in stecche. Sbrigatevi, che nella ghiacciaia si è quasi sciolto tutto.

    Il carro si fermò davanti a un porticato dove due tizi vestiti di scuro sedevano all’ombra. Entrambi tenevano un fucile a pompa con il calcio consunto di traverso sulle gambe e una pistola nella fondina. Sembravano due sceriffi di un film di Tom Mix. A New Orleans era stata aperta la prima sala cinematografica degli Stati Uniti, e da allora non erano mai mancate le pellicole di cowboy.

    Gli uomini del ghiaccio scesero e aprirono i portelli sul retro. Il magro prese un rampino, il grosso afferrò l’accetta. Due passi veloci e furono sotto il portico. Il magro piantò l’uncino nel collo di uno dei guardiani, lo trascinò a terra e gli conficcò un punteruolo in un occhio; il grosso abbatté l’ascia in testa all’altro.

    Quasi nello stesso istante, una lastra volò fuori dal carro e andò a spaccarsi sul selciato.

    Lo strillone spalancò gli occhi. Quanto bendidìo sprecato.

    Due tizi in tuta da lavoro, la faccia coperta da un bavaglio a quadri bianchi e rossi, sbucarono dal nulla con fucili in mano ed entrarono nel portone non più sorvegliato. Gli uomini del ghiaccio alzarono fino agli occhi il fazzoletto che portavano al collo, raccolsero le armi dei cadaveri e rimasero sotto il portico. Si levarono le prime urla dalla strada e dai balconi di fronte.

    Dall’interno della casa scoppiarono degli spari, prima uno o due isolati, poi una salva irregolare, come grandine sul tetto, e grida e bestemmie e anatemi in italiano.

    La gente si guardò attorno. Era passato da poco il Quattro Luglio, forse si trattava di mortaretti avanzati, ma l’indecisione durò poco. Le finestre cominciarono a chiudersi una dopo l’altra e in strada si scatenò il panico: i passanti saltarono dentro la prima porta aperta o si ripararono dietro l’angolo più vicino.

    Una Buick nera, quattro porte, sbucò con un ruggito da un vicolo laterale. Lo strillone dovette scostarsi così in fretta che gli cadde il borsone. L’auto si fermò a motore acceso di fianco al vagone della Ice Manufacturing Company e suonò il clacson come fosse la sirena del porto. Il cavallo scrollò la testa e accennò a un calcio.

    I due in tuta da lavoro uscirono dal portone e si tuffarono dentro, gli uomini del ghiaccio salirono sul predellino.

    Dal balcone dove si era affacciata la donna con la crocchia spuntò un uomo spettinato, con la camicia bianca sporca di sangue e una pistola in mano. Dietro di lui arrivarono altri, spararono in simultanea verso la Buick.

    Il magro con i capelli ricci cadde faccia a terra.

    Dalla macchina risposero al fuoco attraverso i finestrini come un intero battaglione. Il grosso saltò a terra e corse verso il ferito.

    Lo strillone mosse un passo verso la tracolla con i giornali e si trovò faccia a faccia con l’omone che aiutava il compare a rimettersi in piedi: si era abbassato il fazzoletto, i baffi gli pendevano di traverso sulla bocca. I loro sguardi si incrociarono.

    – Che minchia aspetti? – urlarono dall’abitacolo. – Ammazzalo!

    Il grosso puntò la pistola alla fronte del ragazzino. Irrigidì il dito sul grilletto, sbatté le palpebre. Una pallottola gli passò così vicina che sentì il ronzio nell’orecchio, come una zanzara da una libbra. Scosse la testa, afferrò lo strillone per le bretelle e lo scaraventò dentro la Buick.

    – Via, via – montò sul predellino, con una mano si aggrappò allo sportello e con l’altra esplose verso il balcone i colpi che gli rimanevano.

    L’auto partì con un rombo da aeroplano, i piedi del magro che ancora strisciavano per terra, tirò le marce al limite e svoltò in Saint Louis Street, verso il fiume.

    Quando i più coraggiosi misero il naso fuori dai rifugi e andarono a controllare, sotto il portico erano già arrivate le mosche.

    L’uomo grosso spingeva il ragazzino davanti a sé, con malagrazia. – Scale – avvisò.

    Lo strillone era bendato con uno dei bavagli a quadri, le mani legate dietro la schiena con un laccio da scarpe. Cercò i gradini con la punta del piede, a tentoni, e salì a testa china.

    – Destra. – Svoltarono per un lungo corridoio. Il finto venditore di ghiaccio portava ancora la camicia macchiata di rosso, i baffi non c’erano più. Si fermarono all’ultima porta a sinistra. L’omone si stropicciò la bocca e infine bussò.

    – Avanti.

    Spintonò dentro il prigioniero senza complimenti, si tolse la bombetta e aspettò a occhi bassi.

    Dalla parte opposta della stanza un uomo osservava da dietro una scrivania. Gomiti sul piano di pelle verde, testa incassata nelle spalle, non diceva una parola. Fece un cenno, il grosso tolse il fazzoletto al ragazzo e lo slegò.

    – Come sta Art?

    Il grosso scosse la testa. – Il doc dice che l’avevano beccato a un polmone. Non ha fatto neanche in tempo a dargli un’occhiata che era già andato.

    L’uomo alla scrivania dimostrava una trentina d’anni, anche se la stempiatura gliene aggiungeva qualcuno. Appoggiò pollice e indice alla radice del naso, si massaggiò gli occhi.

    – Ci penso io dopo. Puoi andare, Carmine.

    Carmine non se lo fece ripetere, infilò la porta con un’espressione di sollievo.

    L’uomo fissò il ragazzo. – Avvicinati.

    Lo strillone accennò un paio di passi sull’assito consunto, le tavole scricchiolarono. L’uomo dietro la scrivania sembrava fuori posto. Carnagione olivastra, palpebre cadenti, dava l’impressione di potersi addormentare da un momento all’altro, come fosse un intruso che si era imbucato per schiacciare un pisolino.

    – Come ti chiami?

    – Efraim, signore.

    – E poi?

    Efraim si guardava le scarpe. Spinse in alto gli alluci e si rese conto che il cuoio si sarebbe bucato entro breve.

    – Coraggio, mica ti mangio.

    – Efraim Pizzuto, signore.

    – Bene, Efraim Pizzuto, accomodati. – Indicò le due sedie di fronte a sé. – Sei siciliano, Efraim?

    Lo strillone si sedette in punta e scosse la testa. – No, signore. I miei genitori lo sono, ma io sono americano.

    – Si può essere entrambe le cose. Basta non dimenticarsi da dove si viene. Ti pare?

    Il ragazzo annuì.

    – A vederti non sembri italiano. Pallido, biondo… sembri un tedesco, o un olandese. Non è che per caso sei irlandese?

    Efraim sgranò gli occhi. – Manco morto, signore. Mia mamma dice che è colpa dei nor… nor…

    – Normanni.

    – Proprio quelli, anche se non so bene cosa voglia dire.

    – Quanti anni hai?

    – Undici e mezzo, signore. Quasi dodici.

    – Sei magrolino, ne dimostri di meno.

    Efraim drizzò la schiena e gonfiò il petto. – Diventerò grande e grosso come mio pa’.

    – Non ne dubito. Quindi devo stare attento a non farti uno sgarbo, altrimenti tra qualche anno mi verrai a cercare. Dico bene?

    Il ragazzo tacque.

    – Ascoltami con attenzione, Efraim. Mi hai messo in una posizione difficile. Sai chi sono?

    – Sì, signore.

    L’uomo invitò a proseguire con un cenno.

    – Voi siete Silvestro Carolla, ma quasi tutti vi chiamano Silver Dollar Sam.

    – Allora saprai anche di cosa mi occupo.

    Il ragazzo guardò fuori dalla finestra. Un soffio di aria fresca portava odore di muschio e il frinire forsennato delle cicale. Con le tende aperte la vista sul parco era magnifica. Querce gigantesche – cinque o sei uomini non sarebbero bastati per circondarle con le braccia – intrecciavano i rami tra loro, formavano un soffitto quasi ininterrotto che assicurava ombra e frescura, nonostante il sole fosse quasi a picco. Avrebbe voluto essere là sotto, sul prato, a giocare a nascondino, o almeno a vendere giornali a Canal Street. Avrebbe preferito perfino sconfinare nel territorio dei newsboy irlandesi e sfidare il terribile O’Banion in persona.

    – Mi hai sentito?

    – Sì, signore, so di cosa vi occupate. Da quando il signor Charles Matranga si è ritirato, voi e il signor Giacona comandate la Mano Nera in tutta la Louisiana.

    Silver Dollar sollevò un sopracciglio. – È questo che si dice?

    Efraim annuì. – Perfino il sindaco Behrman vi obbedisce.

    – Non è esattamente così, ma lo sarà presto. E poi… – spalancò le braccia – chi lo sa dove si può arrivare in questo strano paese?

    Di colpo non sembrava più assonnato e quella scrivania era perfetta per lui.

    Prese un sigaro da una scatola, ne tranciò l’estremità e l’accese con gesti lenti. – I miei uomini mi dicono che sei l’unico testimone di… di un incidente capitato in Bourbon Street. – Sbuffò il fumo. – Non sapevano come regolarsi e hanno fatto la fesseria di portarti qui. Così magari adesso ti sei fatto persuaso che io c’entri qualcosa. È così?

    – Lo sapevo già, signore.

    – Ah. – Silver si rigirò il sigaro tra le dita. – E come mai?

    Il ragazzo tirò su con il naso. – Lì ci abita uno importante della famiglia Provenzano, c’erano anche le guardie fuori, lo sapevano tutti. Nessuno può toccare i Provenzano, tranne…

    – Me?

    – Sì, signore. Voi e Giacona.

    – Perché non sei scappato come tutti?

    – Per i giornali. Mi è caduta la borsa con i giornali. Me ne rimanevano ancora una trentina. Se me li rubano, o li perdo, devo cacciare di tasca mia e mia madre si arrabbia tinta.

    Si passò una mano tra i capelli. – Ho anche perso il berretto.

    Deglutì a fatica. – Finirò nel bayou e verrò mangiato dagli alligatori e mia madre crederà che sono scappato di casa?

    A Silver Dollar sfuggì mezzo sorriso. – Vedremo. Cosa fai se non riesci a piazzare tutte le copie?

    Efraim si agitò sulla sedia. – No no no, questo non deve capitare, non rientro mai prima di averle vendute tutte e cento. Ci sono dei… trucchi, che però è meglio non usare troppo spesso, sennò non funzionano più.

    – Interessante. Cosa

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