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La signora di Grenoble
La signora di Grenoble
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E-book341 pagine5 ore

La signora di Grenoble

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"La signora di Grenoble" è un affresco che illumina i vari aspetti della società nella quale affondano le radici dell'autore. La vita di una piccola frazione della valle del Serchio è lo specchio nel quale si riflette gran parte dell'Italia del tempo. La vicenda si consuma a cavallo fra il XIX ed il XX secolo, in breve periodo: pochi anni densi di avvenimenti che scuotono la vita di una piccola famiglia, alle prese, come tante altre, con problemi che vanno dall'economia alle più sottili complicazioni psicologiche dei personaggi. Il vivere, o meglio, il sopravvivere nella quotidiana indigenza, spinge la protagonista a staccarsi da quell'ambiente e a sfidare un mondo sconosciuto e incerto. Ma la donna è determinata; e mentre viviamo il suo desiderio di visitare nuovi orizzonti, che la portano lontano dal suo ambiente iniziale, intorno a noi si aprono finestre sulla vita della comunità che le ha fatto da culla: i riti, la fede, la magia, la quotidiana maldicenza e l'aiuto reciproco; la forte identità che costringe quasi a non varcare precisi confini di comportamento, pena l'emarginazione dell'inosservante. E poi il sospetto per lo straniero, o per chi tale si rende.
LinguaItaliano
Data di uscita30 lug 2018
ISBN9788899735661
La signora di Grenoble

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    Anteprima del libro

    La signora di Grenoble - Roberto Andreuccetti

    9788899735661

    PREFAZIONE

    La Signora di Grenoble è un affresco che illumina i vari aspetti della società nella quale affondano le radici dell’autore.

    La vita di una piccola frazione della valle del Serchio è lo specchio nel quale si riflette gran parte dell’Italia del tempo.

    La vicenda si consuma a cavallo fra il XIX ed il XX secolo, in breve periodo: pochi anni densi di avvenimenti che scuotono la vita di una piccola famiglia, alle prese, come tante altre, con problemi che vanno dall’economia alle più sottili complicazioni psicologiche dei personaggi.

    Il vivere, o meglio, il sopravvivere nella quotidiana indigenza, spinge la protagonista a staccarsi da quell’ambiente ed a sfidare un futuro sconosciuto ed incerto.

    Da questa scelta l’equilibrio della famiglia è turbato e la quotidiana routine, già precaria, è messa in continua fibrillazione; non solo, ma anche ciò che le ruota intorno è insito negli eventi, che trasformano attività, stati d’animo, pensieri di ogni personaggio e della comunità cui appartiene.

    Così, mentre per ognuno si aprono nuovi orizzonti, la protagonista ci mena a condividere, attraverso la sua storia, il dramma di tanti, toccati dalla sua stessa sorte.

    Lo svilupparsi della vicenda pone in tutta evidenza l’attualità di quel passato e ci richiama all’oggi.

    Il racconto mette in luce la forte personalità di Maria; la donna, pur non essendo stata baciata dalla fortuna, si fa largo fra varie difficoltà e tra eventi imprevisti.

    Il suo cammino rivela grande forza d’animo, fierezza e tenacia, ma anche fragilità e sofferenza; concreta l’esigenza di affetti, evidente il richiamo della carne... in una parola tutta la forza e la debolezza umana.

    Ma questa ragazza è determinata; intorno a lei, alla sua forza d’animo mai sconfitta, si muovono varie figure; da quelle semplici e buone della sua famiglia, a quelle più smaliziate ed insidiose di un mondo più ricco ed avanzato, toccate da nobiltà, ma anche da umane miserie.

    La luce, che è propria della protagonista, si proietta però su tutti quanti vengono a contatto con lei e sono sollecitati ad una positiva evoluzione spirituale.

    E mentre viviamo il desiderio di Maria di visitare nuovi orizzonti che la portano lontano dal suo ambiente iniziale, intorno a noi si aprono finestre sulla vita della comunità che le ha fatto da culla: le varie attività, i riti, la fede e la magia, la quotidiana maldicenza e l’aiuto reciproco; la forte identità che costringe quasi a non varcare precisi confini di comportamento, pena l’emarginazione dell’inosservante. E poi il sospetto per lo straniero, o per chi tale si rende; chi osa viene bollato come la protagonista che da Maria diviene la signora di Grenoble.

    Estraneo diventa chi si allontana, ma altrettanto estraneo rischia di ritrovarsi chi ritorna; adattamento, disadattamento, problemi nel riadattamento, difficoltà di comprensione fra culture diverse e fra chi ha vissuto esperienze che hanno cambiato l’originario sistema di vita.

    Da queste premesse, l’estrema, difficile, meditata scelta della protagonista.

    Nel libro il racconto ed il linguaggio sempre sono calzanti, sia quando rivelano i più intimi e delicati sentimenti ed i sottili moti dell’animo, sia quando traducono passioni più scarne ed elementari e comportamenti ed azioni meno nobili.

    Nell’alternarsi dei vari momenti narrativi trovano pure spazio digressioni didascaliche, ricche di informazioni di diversa natura, che sospendono il fluire della vicenda per focalizzare storie, mestieri, modi di vivere, la memoria dei quali è a rischio.

    Ed ancora, come nelle opere precedenti di Andreuccetti, anche qui aleggia il sovrano respiro della natura, presenza fonte di equilibrio e di amalgama alle inquietudini, ai tormenti ed alle gioie dei protagonisti.

    Prof. Gabriele Matraia

    CAPITOLO I. UNA NUOVA VITA

    Le fronde dei castagni fremevano mosse da un vento teso che spirava a tratti e che sembrava giungere dalle più remote profondità del cielo; quel vento penetrava insistente, quasi volesse accanirsi con particolare furore sul paesaggio uniforme e monotono di quella desolata radura.

    L’aria del primo mattino di giugno sferzata dal maestrale, era limpida ed i dorati raggi del sole sembravano giocare a nascondino, apparendo e scomparendo fra i rami dei grandi tronchi secolari.

    Gli zoccoli dell’asino che percuotevano il terreno aspro e compatto del sentiero erano l’unico rumore, assieme allo stormire delle fronde, che si perdeva fra le forre ed i pendii di un paesaggio che sembrava fuori dal tempo. L’animale, carico di grandi ceste, era seguito da un uomo, che dopo aver lasciato Loppeglia, era diretto al Frantoio, piccola località del paese di Tempagnano.

    Si trattava di un giovane aitante di carnagione scura con capelli bruni e folti e con un paio di baffetti ben curati che facevano bella mostra sotto un naso affusolato. Gli occhi erano luminosi, grandi ed espressivi e la corporatura robusta, ma armoniosa. Francesco aveva da poco sposato Maria, una ragazza figlia di due poveri contadini e stava trasferendo gli attrezzi necessari per la sua attività di calzolaio che prima del matrimonio, aveva svolto presso la località di origine. Il procedere dell'asino era barcollante e sulla groppa il carico oscillava ora a destra ora a sinistra, mentre le zampe dell'animale arpionavano il terreno alla disperata ricerca dell'equilibrio.

    Nelle ceste gli attrezzi erano numerosi: la pesante incudine metallica, le lesine, i chiodi, i pezzi di tomaia e le numerose forme in legno. Francesco era felice per aver coronato il sogno d'amore con Maria, ma doveva fare i conti con l'incognita che comportava l’inizio di una nuova attività in un piccolo centro, dove avrebbe dovuto farsi conoscere ed acquisire nuovi clienti. Mentre l’asino continuava a scendere lentamente, sobbalzando e mettendo a dura prova i garretti, Francesco che seguiva l'animale quasi fosse la sua ombra, aveva la mente occupata da numerosi pensieri, ma soprattutto provava ad immaginare quali problemi avrebbe potuto creargli la nuova vita che stava per andare ad affrontare. Aveva lasciato la numerosa famiglia composta dal padre, la madre, un anziano nonno, una sorella e cinque fratelli più piccoli. Aveva da poco compiuto venticinque anni e dopo il matrimonio con Maria, l’unica figlia di due maturi coniugi, si era trasferito, assieme alla propria attività, nell'abitazione dei suoceri.

    Per Francesco la strada per arrivare al matrimonio era stata lunga.

    Dopo aver vinto la diffidenza dei giovani del Frantoio che inizialmente avevano osteggiato il suo arrivo, era stato costretto a lottare anche contro il parere negativo di suo padre.

    In quegli anni il capo famiglia era il despota assoluto per quanto concerneva la sistemazione dei figli.

    Il giovane che desiderava sposarsi poteva farlo soltanto dietro l’approvazione alle nozze da parte del padre, il quale giudicava se la futura nuora aveva le peculiarità necessarie per vivere accanto a lui. Anche il genitore di Francesco si era dovuto recare da Loppeglia al Frantoio per chiedere la mano di Maria, per accertarsi della sua dote e discutere sulla preparazione del corredo. Nella stragrande maggioranza dei casi, ogni giovane che si univa in matrimonio conduceva la moglie a risiedere presso la propria abitazione. Considerato che erano sempre i maschi ad imporre la loro legge, la ferma volontà di Maria che non era intenzionata ad abbandonare i propri genitori, aveva vinto ogni ostacolo ed infranto una regola consolidata.

    Per Francesco si presentava l’incognita di una nuova vita.

    Come sarebbe stata la convivenza con gli anziani genitori della ragazza?

    Questi avevano da sempre svolto l’attività di contadini ed avrebbero accettato un genero che non sapeva nemmeno tenere una zappa in mano?

    I due coniugi avrebbero sicuramente preferito due braccia robuste in grado di dare un provvidenziale aiuto nello svolgimento delle loro numerose attività che andavano dalla cura dei vigneti al lavoro dei campi, dalla tenuta dei castagneti al mantenimento dei numerosi animali da cortile.

    I suoi genitori si sarebbero infine rassegnati dopo le rimostranze che avevano a più riprese esternato, avendo lui insistito fino all’ultimo con tenacia e cocciutaggine per sposare Maria, una ragazza che non era di loro gradimento perché adottata da due coniugi senza figli e della quale non si conoscevano le origini?

    Avendo ormai superato i trentacinque anni di età, Agata e Silverio, i suoceri di Francesco avevano deciso di fare un tentativo per adottare un figlio. Avrebbero desiderato un maschio visto il lavoro pesante che dovevano svolgere quotidianamente nei poderi che erano stati lasciati loro in affido da uno zio emigrato in America.

    L’iter per arrivare ad ottenere il figlio in adozione era stato lungo e difficoltoso; si erano susseguiti i viaggi dei due coniugi presso un orfanatrofio di Firenze e le visite di funzionari di quella importante struttura presso la loro abitazione. Bisognava appurare con assoluta certezza che i futuri genitori fossero garanti di un tenore di vita sufficientemente buono ed in possesso dei beni indispensabili per offrire un futuro decoroso al bambino.

    Ogni volta che Agata, prendeva la diligenza diretta verso la stazione di Lucca, lo faceva con una particolare apprensione; pensava a quel difficile momento nel quale avrebbe dovuto varcare la soglia della grande struttura della città di Firenze che ospitava numerosi bambini accuditi da suore e da balie provenienti dalla città, ma anche dalla immediata periferia. La carrozza trainata da due cavalli che procedevano al piccolo trotto, si muoveva lungo la strada che costeggiando il fiume Serchio, si incuneava nella valle, diretta verso la città di Lucca.

    Dagli zoccoli dei quadrupedi che percuotevano insistentemente il selciato cosparso di pietre e terra, scaturiva un suono ritmato e tonante che sembrava voler scandire il tempo.

    Dietro la carrozza, accompagnata da improvvise folate di vento, si alzava una nube di polvere.

    Dopo circa due ore di cammino la corsa della vettura aveva termine davanti alla stazione di Lucca ed Agata, dopo essere scesa con calma metodica e facendo attenzione a non calpestare il lembo della gonna, si recava a prendere il treno per Firenze. Pensava già al momento nel quale, varcata la soglia dell’orfanatrofio, avrebbe assistito a scene da far stringere il cuore; bambini di età diversa presi e sballottati in ogni dove, con le grida delle sorveglianti che si univano a quelle dei piccoli. I grandi occhi di quei neonati aperti e sbarrati, come se quelle creature stessero ancora vivendo la tragedia che aveva segnato la loro nascita; una madre sfortunata e disgraziata, nonostante il loro pianto, che aveva le parvenze di una invocazione, li aveva abbandonati. E poi donne che dopo aver tenuto per qualche attimo il piccolo se lo vedevano strappare repentinamente dalle braccia. E la vista di bambini ammalati e sofferenti per malanni vari, come per febbre e difficoltà respiratorie.

    L’altro motivo di inquietudine per Agata, era provocato dal non riuscire ad immaginare quale sarebbe stato il piccolo da poter portare finalmente a casa. Si sarebbe trattato di un bambino robusto e sano o di uno gracile e bisognoso di cure?

    Rimaneva infine nell’animo della futura madre il velato timore che nonostante gli sforzi e le preoccupazioni, tutto si dissolvesse nel nulla e che qualcosa o qualcuno potesse impedire la tanto sospirata adozione. Nella pratica c’era spesso un particolare che non quadrava e dopo una viaggio inutile bisognava riprendere la via del ritorno che comportava dover sopportare il carico pesante della delusione.

    Fino alla successiva trasferta.

    Spesso si presentava a casa un funzionario per effettuare indagini sulla condizione familiare e per accertarsi che parenti dei futuri genitori, anche i più lontani, non avessero contratto in passato serie malattie.

    Dopo i numerosi viaggi a Firenze ed il tanto penare, come un raggio di sole che squarcia una cortina di fitte nubi, arrivò finalmente quel giorno tanto atteso nel quale Agata e Silverio poterono stringere fra le braccia il loro figlio.

    Non si trattava però di un maschio come i due coniugi avrebbero desiderato, bensì di una bambina. Pur coccolandola e tenendola fra le braccia, la delusione di Silverio era evidente.

    Negli orfanatrofi la richiesta di maschi era molto alta rispetto a quella delle femmine e forse nel caso di Agata e Silverio, qualcosa non era andato per il verso giusto.

    Nella loro famiglia un bambino sarebbe stato sicuramente più necessario, perché con la prospettiva di un calo delle loro forze, avrebbe dovuto essere di aiuto per il lavoro della terra.

    Accudire ai numerosi appezzamenti di terreno richiedeva molto sacrificio ai due coniugi e per quel motivo avevano sperato nel sopraggiungere di due braccia forti.

    Le considerazioni che faceva Silverio erano anche altre.

    L’uomo si proiettava già con il pensiero a quando la bambina sarebbe divenuta adulta.

    Le donne appena sposate quasi sempre seguivano il coniuge e sarebbe stato sicuramente così anche per sua figlia. Chi sarebbe rimasto a guardare i poderi? Esisteva anche la probabilità che una donna rimanesse zitella ed in quel caso le cose non sarebbero cambiate perché da sola non avrebbe potuto certamente lavorare la terra.

    Agata cercava di allontanare quei pensieri, aveva gli occhi umidi ed era felice; era finalmente riuscita ad appagare un sogno ed avrebbe provato anche lei la dolce sensazione di tante altre donne che dopo il parto possono stringere fra le braccia il figlio. La natura le aveva negato di darlo alla luce, ma non aveva importanza; ora poteva accarezzare quella bambina dalle gote rosee e gli occhi chiari e grandi con una cuffietta in testa e con le dita strette nel pugno, quasi a voler afferrare e tenere stretto l’amore che quella madre adottiva riversava in lei.

    A quella bambina era stato dato il nome di Maria Trovatini.

    Il nome Maria piacque tanto ad Agata perché pensò fosse il più bello di tutti, essendo quello della madre di Gesù.

    Prima della partenza la donna ricevette una notizia in grado di allargarle il cuore, come se la Madonna le avesse fatto una grazia ulteriore oltre a quella di averle regalato una figlia.

    La madre della piccola non aveva lasciato nessun recapito né segno di riconoscimento e questo voleva dire che nessuna donna avrebbe più potuto pretendere la restituzione della bambina. Accadeva infatti spesso che alcune madri, decorso il periodo dell’allattamento reclamassero di nuovo il figlio, o perché pentite di averlo abbandonato o perché le loro condizioni economiche erano nel frattempo migliorate. Onde non vedersi preclusa questa possibilità, al momento della deposizione del figlio sulla ruota, lasciavano un biglietto con un nome od un oggetto che potesse dar luogo all’eventuale futuro riconoscimento della propria maternità.

    A seguito di ciò, poteva capitare che alcune donne, dopo aver allevato un bimbo si vedessero costrette a rinunciare a lui per il semplice fatto che la madre naturale pretendeva la sua restituzione.

    Ed in quel caso per la madre adottiva si consumava un vero e proprio dramma.

    Maria Trovatini era stata abbandonata alla Ruota degli Esposti di Firenze quando aveva soltanto pochi giorni di vita e le era stata assegnata come presunta data di nascita il 9 di giugno del 1872.

    La ruota era una struttura situata nel centro del capoluogo toscano, ma se ne potevano trovare di simili in tante altre città d’Italia.

    Ai lati di una strada del centro città, ma non molto frequentata dai passanti, era posizionata un’apertura quadrangolare protetta da una ringhiera in ferro dentro alla quale si poteva accedere per mezzo di un cancello.

    Dall’apertura spuntava la porzione di una grande pietra circolare poggiata sopra un’asse centrale che era possibile muovere in senso rotatorio mediante una semplice spinta. La donna che desiderava lasciare il bambino lo poggiava sulla pietra e poi mediante la pressione delle mani lo faceva entrare all’interno della struttura.

    Nella porzione interna della ruota erano presenti a tutte le ore del giorno braccia in grado di raccogliere la creatura abbandonata. Addette a quel compito erano sempre donne che si prendevano cura del bambino, osservando che non avesse con sé alcun segno di riconoscimento e che lo consegnavano poi ad una balia che avrebbe dovuto provvedere a nutrirlo.

    Le balie che prestavano la loro opera negli orfanatrofi erano quasi sempre ragazze che avevano partorito da poco e che avevano latte in abbondanza per provvedere oltre che al proprio, all’alimentazione di un altro bambino.

    Con il loro bagaglio prezioso, Agata e Silverio avevano ripreso il treno che per l’ultima volta li avrebbe riportati a Lucca.

    Già in quei primi momenti la donna nutriva nell’animo un amore grande verso quella bambina figlia di chissà quale madre.

    Forse una ragazza abbandonata dal compagno, magari un uomo facoltoso ed importante, che non avrebbe potuto macchiarsi dell’onta di aver messo al mondo un figlio illegittimo. Oppure il padre di quella bambina era un nobile, un conte od un marchese od un personaggio di spicco della politica.

    La neonata poteva essere anche figlia di una ragazza di strada rimasta incinta durante un rapporto mercenario e che non conosceva neppure chi fosse il padre.

    Quest’ultimo pensiero sollevò un velo d’ombra nella mente di Agata, perché temeva che la piccola fosse stata concepita da genitori con problemi di salute, con malattie veneree o altre forme gravi di morbosità trasmissibili ereditariamente. La donna, che guardava intensamente la propria bambina, volle allontanare in fretta quei pensieri. Avrebbe curato con tutte le sue forze quel batuffolo roseo, l’avrebbe protetto da ogni insidia del mondo e gli avrebbe donato tutta sé stessa.

    La mia bambina si chiama Maria – andava ripetendo Agata fra sé. La Madonna saprà proteggerla e difenderla da ogni insidia. Io la seguirò e la curerò ed anche se è stata concepita da genitori sprovveduti ed allevata da due poveri contadini, dovrà crescere, farsi strada nel mondo, costruirsi un futuro roseo e diventare una signora.

    Il primo problema che si presentò ad Agata fu l’allattamento della figlia perché il destino non le aveva concesso la gioia di quella dolce pratica.

    Fortunatamente in quegli anni i parti erano numerosi e trovare una ragazza con latte in abbondanza non era difficile. La giovane che si prestava a donare il suo latte, a meno che non facesse parte della ristretta cerchia della famiglia doveva essere pagata. Questo comportò un problema ulteriore per Agata che si vide costretta a vendere alcune staia di grano per racimolare il denaro necessario. A fare da balia a Maria si dedicò una vicina si casa che aveva avuto da poco un bambino.

    Gli anni erano trascorsi in fretta, Maria era cresciuta, aveva attraversato la fanciullezza curata ed educata con amore dai genitori adottivi, che le avevano trasmesso i migliori sentimenti assieme all’amore per la musica e per il canto. Ogni volta che era infatti in programma la rappresentazione di un maggio presso il teatro Vecchio di Valdottavo, la ragazza lasciava la propria casa per recarsi assieme alle amiche ad assistere a quello spettacolo.

    Maria aveva portato a termine le tre classi della scuola elementare obbligatoria, ma viste le sue capacità e la sua grande volontà i genitori le avevano fatto frequentare, seppur con sacrificio, anche le ulteriori due che erano facoltative.

    L’insegnante aveva chiesto ai genitori adottivi della ragazza di iscriverla al ginnasio vista la sua preparazione, la volontà e la maturità, ma le cattive condizioni economiche della famiglia, non permisero di poter dare seguito al suggerimento della maestra.

    Maria era dotata di un fascino particolare, dovuto alla sua grazia, ma soprattutto alle maniere educate che la caratterizzavano. Aveva capelli biondi sciolti che cadevano sulle spalle ed arrivavano ad accarezzare il seno, occhi chiari e luminosi che richiamavano la lucentezza del sole, labbra morbide e naso affusolato ed un corpo slanciato con un portamento elegante. A fare da corollario a tutto questo, un sorriso radioso in grado di ammaliare chiunque si fosse soffermato a parlare con lei.

    Dopo aver raggiunto la maggiore età, la ragazza aveva provato forte il desiderio di trovare un giovane con il quale poter iniziare un rapporto solido e duraturo.

    Durante la raccolta delle castagne nelle selve di Monti e di Formicoso, aveva conosciuto Francesco che fu subito ammaliato dal fascino di quella giovane donna e da una semplice amicizia iniziale era sbocciato un sentimento più forte che era cresciuto a poco a poco e che era stato in grado di vincere ogni ostacolo.

    I due giovani si erano sposati nella chiesa di Tempagnano con una cerimonia semplice alla quale avevano preso parte i parenti e gli amici.

    Francesco aveva deciso di andare ad abitare in località Frantoio nella casa di proprietà di Agata e Silverio, dopo aver vinto le rimostranze dei genitori. Francesco era un ragazzo dal carattere deciso e fermo, amava Maria e si apprestava ad intraprendere una vita nuova, anche se era perfettamente conscio che avrebbe evidenziato qualche problema.

    L’asino con il suo pesante carico continuava a scendere lungo il sentiero ed il suo continuo sobbalzare sembrava fare da corollario ai pensieri di Francesco.

    Il silenzio delle selve fu rotto improvvisamente da un suono che giungeva prima flebile e lontano e che a poco a poco si andava avvicinando e sembrava scaturire dalle viscere della montagna.

    Si trattava di un canto, di una nenia che invadeva i crinali e le forre e che sembrava accompagnato dalle folate di vento.

    Era una voce maschile che con lo scorrere dei secondi diveniva sempre più percettibile perché la persona che cantava si stava avvicinando.

    I due uomini si trovarono ben presto di fronte ed il canto improvvisamente si spense; bisognava rivolgersi i rituali saluti perché era piacevole fare un incontro durante un lungo percorso sopra un remoto sentiero.

    Ciao Antonio! Dove stai andando così di prima mattina? – chiese Francesco che aveva riconosciuto un vicino di casa di Maria.

    Vado a squadrare i tronchi di castagno! Vedi, porto con me anche l'attrezzo del mestiere! e mostrò l'ascia che teneva poggiata sopra una spalla e con la quale avrebbe dovuto portare a termine il suo lavoro che sarebbe durato l'intera giornata.

    Antonio abitava in una casa attigua a quella di Maria ed aveva tentato a più riprese di entrare senza risultato nel cuore della ragazza.

    Francesco nutriva un piccolo sentimento di gelosia nei confronti di quell’amico con il quale ogni tanto la moglie si fermava a conversare.

    I due giovani avevano iniziato a muovere i primi passi sul palcoscenico del teatro interpretando piccole parti nei drammi storici e religiosi e possedendo entrambi una buona voce avevano proseguito in quel cimento con successo. Erano arrivati poi a calcare il palcoscenico da protagonisti dando vita con i gesti e con la voce ai grandi beniamini del pubblico. Era frequente che vestissero infatti i panni di Tancredi, guerriero cristiano e di Clorinda, la sfortunata eroina della Gerusalemme Liberata.

    Nonostante la grande amicizia con Antonio, Maria aveva fatto la sua scelta ed aveva donato il suo cuore a Francesco, un giovane dotato di ardimento, ma anche generoso e gentile e con lui aveva deciso di trascorrere la vita avendogli giurato eterno amore.

    Il lavoro nelle selve era la principale fonte di sostentamento degli uomini di Tempagnano. Il castagno, una pianta che ha origini antichissime e che è chiamata anche albero del pane perché ha sfamato nei secoli generazioni di famiglie, era la regina incontrastata di quelle vallate e di quelle montagne. Niente di quella pianta preziosa veniva sprecato; il frutto costituiva l’alimento principale della gente, ma anche degli animali. Le castagne di qualità pregiata venivano raccolte, immesse negli essiccatoi fino a renderle dure e compatte e dopo averle liberate dalla pula portate a macinare nei molini, mentre quelle di qualità più scadente erano date in pasto agli animali. Con la farina di castagne si facevano i necci che costituivano l’alimento principale delle famiglie di Tempagnano e la polenta dolce che veniva mangiata assieme alla carne di maiale. Nemmeno le foglie di quegli alberi venivano gettate ma erano adoperate per fare il letto agli animali e per costruire coperture di capanni e di baracche. L’utilizzo principale del castagno era però dovuto alla qualità pregiata del suo legno.

    Con i tronchi di questa pianta si costruivano mobili di ogni tipo che andavano ad arredare le case contadine, dalle madie ai suppidiani, dai tavoli agli armadi ed alle credenze. Oltre i mobili con il legno di castagno si costruivano attrezzi da lavoro, manici di zappe e di vanghe e rastrelli, ma anche recipienti come ceste e corbelli.

    I mobili e gli attrezzi non si costruivano mai però con i tronchi di piante che davano frutti pregiati, bensì con quelli di castagni selvatici, i cosiddetti vernacchi, alberi dal fusto alto e dritto, possibilmente privi di nodi. Una volta abbattuti, anche fra i vernacchi avveniva una selezione; erano adatti per il lavoro soltanto quelli non cipollati, vale a dire privi di un difetto abbastanza comune, il distacco fra due anelli annuali che creava danneggiamento al legno.

    La cipollatura è un processo degenerativo che può essere originato da agenti atmosferici o da funghi e che colpisce alcune specie anziché altre. Il castagno cipollato è irrimediabilmente soggetto ad un progressivo indebolimento ed alla morte.

    Mentre i tronchi dei vernacchi sani arrivavano nelle falegnamerie della zona, quelli cipollati erano utilizzati come legna da ardere e finivano nei caminetti e nelle stufe.

    Le selve con i castagni fruttiferi andavano ripulite ogni anno; si tagliava prima l’erba e si recidevano gli arbusti del sottobosco e si provvedeva poi a rimondare le piante. Bisognava tagliare i rami secchi, abbattere i castagni lesionati dai fulmini e quelli rovinati dalla cipollatura. I rami abbattuti andavano poi sfrondati e mentre la loro parte più voluminosa veniva fatta a pezzi ed accatastata in uno spiazzo, i rami più piccoli erano riuniti in fasci che una volta portati presso le abitazioni servivano per accendere ed alimentare i caminetti ed i forni.

    Il legno di castagno veniva utilizzato anche durante la costruzione di case e di capanne; serviva per le serrature, come porte, finestre e persiane ma soprattutto faceva da sostegno ai tetti ed ai solai con le travi ed i travicelli. Prima che un tronco potesse essere utilizzato come trave per un tetto doveva subire un lungo processo. Dopo l’abbattimento, andava privato della corteccia, operazione questa abbastanza semplice. Maneggiando il fedele pennato, il boscaiolo toglieva l’involucro esterno ed il tronco rimaneva nudo e bianco, cosparso ancora di linfa appiccicosa. Lavoro ben più difficile e pesante era invece quello della squadratura.

    Bisognava abbandonare il pennato per impugnare l’ascia, un attrezzo più pesante in grado di calare con vigorosi fendenti sopra il tronco liscio. Si doveva dare a

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