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Sulle scale di pietra
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Sulle scale di pietra
E-book197 pagine3 ore

Sulle scale di pietra

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Info su questo ebook

Quelle racchiuse in questi racconti sono storie vere sospese in un passato recente in cui predominavano valori oggi scomparsi, regole non scritte che tenevano unite le famiglie e pregiudizi che si abbattevano come marchi indelebili.
Ci sono scene di “interni” di nuclei familiari del Sud: uomini e donne da prendere come esempio per laboriosità e intraprendenza o madri e padri che, soffocati dai retaggi, tarpano le ali ai figli.
Marinella Battifarano ha ricostruito, con una scrittura avvolgente la quotidianità di intere generazioni della Basilicata del secolo scorso regalando al lettore ritratti indimenticabili.
LinguaItaliano
Data di uscita3 feb 2022
ISBN9788869601446
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    Anteprima del libro

    Sulle scale di pietra - Marinella Battifarano

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    Titolo dell’opera:

    SULLE SCALE DI PIETRA

    © 2021 Altrimedia Edizioni

    ISBN: 9788869601446

    © Altrimedia Edizioni è un marchio di

    Diòtima srl - servizi e progetti per l’editoria

    Prima edizione digitale: Gennaio 2022

    Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.

    È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

    INTRODUZIONE

    Le letture spesso ci riempiono di emozioni e ci confermano il sentire più profondo. In alcune pagine troviamo condivisione inaspettata, fraternità diffusa, partecipazione di quella umanità che cammina nella storia e la trasfigura.

    Esperienze e sentimenti lasciano tracce, impronte indelebili nelle coscienze che urgono di essere espresse.

    Molti filosofi considerano la storia degli uomini come la rivelazione dell’Assoluto che si snoda continuamente e gradualmente nel tempo. Altri pensatori la vedono come sviluppo progressivo dell’umanità: «L’insieme degli esseri passati, futuri e presenti che concorrono liberamente a perfezionare l’ordine universale» (Auguste Comte, Système de Politique positive).

    Questi racconti sarebbero rimasti inespressi se non avessi scritto Finuzza e le sue storie (Altrimedia Edizioni), sintesi e testimonianza di una vita complessa. Piccole storie, che non hanno trovato spazio per motivi editoriali, ma che meritano una loro collocazione sia perché frutto dei racconti di Finuzza sia per il loro significato all’interno di una società in rapido cambiamento.

    Sono spaccati di vita di persone semplici che aprendosi al mondo, accettando i mutamenti ed evolvendosi, hanno saputo portare nella propria comunità la ricchezza del vissuto personale e delle piccole realtà territoriali. Evidenziano autentica umanità, interesse per ogni cambiamento e ricadute positive all’interno della famiglia e della società.

    Sarebbero rimaste nel mio cassetto se alcune care amiche – Eliana Rusciani, Caterina Pentasuglia e Carmela Troncelliti alle quali le ho lette nel periodo del lockdown – non mi avessero sollecitato a un lavoro di approfondimento e di chiarimento.

    A loro va il mio sentito ringraziamento per la generosità e la franchezza espresse nei preziosi suggerimenti.

    Ringrazio anche parenti e amici, in particolare Mario e Luisa Timpone che mi hanno consentito di attingere dai loro ricordi e da documenti personali elementi e notizie fondamentali.

    Nella maturità degli anni il vissuto dell’infanzia affiora alla memoria e, come un tesoro nascosto, dà senso al presente, svela segreti, chiarifica situazioni allora misteriose.

    Proprio questo da qualche tempo mi è successo e ho trovato piacere nella scrittura come una dolce terapia.

    IL PATRIARCA

    Seduto sulla veranda dai tre archi in pietra, gli occhi rivolti alla campagna e al mare, il bastone fra le mani, vigilava su chi arrivava alla masseria: nonno Vincenzo, anche da anziano, voleva ancora mantenere il posto di comando.

    Rifletteva sul suo vissuto fatto di alacre e accanito lavoro e che tanto benessere aveva prodotto alla sua famiglia. Immaginava le generazioni che gli sarebbero succedute e la loro volontà di proseguire con altrettanta passione e senso del dovere quanto lui aveva realizzato. L’esperienza gli aveva insegnato che ogni progresso, ogni sconfitta, ogni ricerca positiva non ha occhi, non ha gambe, non ha bocca. Parla e si muove con la bocca e le gambe degli uomini. Non si vive di fantasia, le parole e le idee sono solo spinta a energia e azione. Ripensando al suo passato si sentiva sempre più consapevole di essere un tassello di un grande mosaico, di essere l’ape nello sciame.

    Rimaneva lì in silenzio finché non scendeva la sera. Vedeva apparire le prime stelle e le lampare lungo l’orizzonte marino. I grilli ancora cantavano e dal vecchio querceto saliva l’accorato verso del gufo, quasi rimpianto del giorno trascorso. Quando la luna piena appariva all’orizzonte, prima rossastra e poi sempre più chiara, chiamava: «Venite a godere con me lo spettacolo della luna che si specchia nel mare!»

    Ma noi troppo presi dai giochi non lo ascoltavamo.

    Intorno ai settant’anni incuteva ancora tanto timore per il suo vigore e la sua forza: alto, robusto, i capelli bianchi a spazzola, gli occhi fulminei, lo sguardo attento su tutti e tutto, come un uccello rapace che controlla il territorio. Sfrecciava con il suo cavallo da una parte all’altra della masseria per controllare il lavoro degli operai. Tuonava e inveiva quando le cose non funzionavano come avrebbe voluto.

    Attivo e battagliero fino a novant’anni, quasi antagonista dei nostri genitori che faticavano tanto a trovare un loro equilibrio e a trarre dalla terra il sostentamento per vivere, pretendeva di dire la sua opinione e controllava ogni lavoro, ogni movimento di compravendita. Gestiva ogni aspetto economico della famiglia, imponendo un ferreo risparmio.

    Nonno Vincenzo si sentiva, e lo era davvero, un patriarca.

    Soltanto a sera, dopo aver parlato con il massaro responsabile dei lavori aziendali e aver impartito gli ordini per il giorno seguente, si concedeva attimi di riposo durante i quali si dedicava alla lettura dei grandi romanzi della letteratura italiana e straniera dopo aver letto il quotidiano e ascoltato i comunicati radio.

    Era il momento in cui imponeva un religioso silenzio, pretendeva che si spegnesse ogni luce per non far scaricare le batterie del mulinello a vento che fungeva da accumulatore di corrente. Noi nipoti, per timore che lanciasse anatemi in caso di rumori, ammutolivamo accanto a lui e ascoltavamo le notizie del giornale-radio. Era un momento di forzato raccoglimento, ci faceva sedere sulle sue ginocchia e pretendeva che noi bambini capissimo come andavano le cose del governo e gli avvenimenti più importanti del mondo.

    Quando i ricordi e le ombre del suo passato lo assalivano si lasciava andare al racconto della sua giovinezza, della guerra del ‘15-‘18, della sua vedovanza, della perdita dei figli. Bisognava allora ascoltarlo pazientemente in silenzio finché non era sopraffatto dal sonno o dal dolore che gli procurava la gotta e che lo costringeva a chiudersi nella sua camera per lamentarsi liberamente come un leone ferito.

    Voleva trasmetterci la storia di famiglia affinché le nuove generazioni non si lasciassero affascinare dalla modernità tanto da perdere l’essenza della vita. Aveva parole severe verso il padre don Francesco Antonio, che aveva ridotto la famiglia in ristrettezze per una incauta gestione della proprietà e per l’abitudine di recarsi a Napoli ad assaporare la bella vita cittadina. Lo considerava un pessimo esempio che non poche sofferenze aveva procurato alla famiglia.

    Da uomo del proprio tempo, giustificava le infedeltà purché il focolare domestico, luogo sacro per eccellenza, venisse salvaguardato.

    Nutriva grande considerazione e affetto per la madre Domenica, donna instancabile che si prodigava senza sosta nella cura dei figli e della casa: cucinava per tutti, sistemava nelle cantine le provviste che venivano dalle campagne, curava i formaggi e vendeva i prodotti richiesti aprendo il grande portone accanto alla chiesa. Tuttavia nelle importanti decisioni di famiglia non le veniva riconosciuta nessuna autorità, ma lei sapeva bene che gli usignoli non vivono di fiabe e di filosofia, quindi non entrava mai in nessun ragionamento perseguendo solo obiettivi pratici, in contrapposizione alle sue cognate, monache intellettuali che negli anni Settanta del 1800 erano rientrate in famiglia per la chiusura del convento.

    Queste donne, colte, preparate, dotate di profonda formazione religiosa, seppero inserirsi con grande naturalezza nel ritmo familiare di Francesco e Domenica, prendendosi cura della formazione dei ragazzi.

    Godevano anche dell’appoggio dello zio prete, don Giuseppe, che in tarda età si era ritirato a vivere nella sua casetta accanto al palazzo di famiglia. Fu proprio lui che volle mandare Vincenzo e Pietro, il fratello maggiore, nel seminario di Chiaromonte, affinché frequentassero il ginnasio e il liceo. Andava in carrozza ad accompagnarli, si tratteneva qualche giorno in seminario con loro per il piacere di rivedere amici preti e qualche ex allievo.

    Per i due ragazzi furono anni molto proficui e interessanti. Pietro si appassionò allo studio della storia, della filosofia, della letteratura, mentre Vincenzo eccelleva negli studi scientifici e nella matematica. Abituato, poi, con lo zio prete e le monache di casa a servire la Santa Messa e a fare le pulizie della chiesa, anche in seminario continuò a collaborare. Al contrario Pietro preferiva immergersi nella lettura dei classici e sin da adolescente prese le distanze dalla cultura ecclesiastica per sposare il pensiero liberale e l’autonomia di giudizio. Aveva ereditato dal prozio Pietro Antonio la Torre Bollita con i terreni circostanti, la libreria e i suoi ricordi, che cercò di trasmettere ai posteri, offrendo all’archivio di Stato alcuni documenti. Continuò a conservare lo spirito liberale e anticlericale nonostante un contesto familiare dominato da figure religiose.

    Pietro nella vita di relazione sembrava alquanto stravagante. In realtà i familiari lo avrebbero voluto laborioso e pratico per accrescere il patrimonio di famiglia. Incurante di altri interessi, delegava volentieri ogni responsabilità al fratello Vincenzo, che sin da giovane accentrava l’attenzione di tutti sulla sua persona. Questa situazione si acuì soprattutto quando il padre Francesco Antonio si cacciò in mille guai lasciando la famiglia in grande indigenza.

    Pertanto si decise di ritirare i ragazzi dagli studi. La monaca più anziana, Filomena, chiese ospitalità per qualche tempo in un convento femminile di Taranto, portando con sé Pietro per farlo studiare privatamente per conseguire il diploma magistrale. Ella aveva consigliato al nipote di fare il maestro, data la sua propensione allo studio delle Lettere. Ma Pietro non si riconosceva in questa prospettiva, preferì dedicarsi ai suoi libri, sognando in solitudine un mondo più giusto e più equo. Tuttavia le sue buone intenzioni, i suoi ideali non trovarono mai le gambe per camminare nella concretezza della storia.

    Vincenzo, invece, ritornò nel suo nido e dalla terra traeva quella forza che accumulano i giganti prima di ogni impresa, si buttò a capofitto per salvare le sorti economiche della famiglia, riprendendo la gestione delle masserie abbandonate dai fittavoli nella più squallida desolazione. Chiamò a raccolta la madre, le sorelle, gli zii, le monache e il personale di servizio, coordinando così un forte impegno di lavoro per la ripresa.

    Le donne di casa tessevano senza sosta, cucivano e ricamavano per comprare con i guadagni aratri, attrezzi vari e bestiame, aiutando a far risorgere l’azienda che, come una barca abbandonata, rischiava di andare alla deriva.

    Dopo alcuni anni di duro lavoro, coadiuvato dai membri della famiglia, riuscì ad accumulare la somma di denaro utile per estinguere un debito che il padre aveva contratto con un famoso usuraio del territorio.

    Orgoglioso di questo risultato e riconoscente ai suoi cari, portò il denaro dovuto al signore benestante, uomo grigio e squallido anche per l’aspetto fisico piuttosto trasandato.

    Vincenzo aveva appena 18 anni, si sentiva già un uomo ma non aveva abbastanza esperienza per salvaguardarsi da inganni. L’usuraio tornò a chiedergli nuovamente il denaro. Vincenzo si era fidato di quell’uomo e nella sua inesperienza non aveva preteso, come sarebbe stato suo diritto, nessun riscontro di risoluzione del debito. Si sentì raggirato, offeso, defraudato. Preso da furore giovanile raggiunse velocemente a cavallo Montegiordano, diretto verso la tenuta dell’usuraio. Quando questi lo vide arrivare con fare sicuro e minaccioso reagì in qualche modo ma, essendo da soli, Vincenzo lo costrinse con la forza a firmare la ricevuta.

    Il Patriarca raccontava sempre con orgoglio questo episodio per insegnare ai nipoti le difficoltà della vita e come la forza e l’astuzia possono aiutare nei momenti difficili. Raccomandava di non fidarsi di nessuno ma di cercare in sé stessi la forza e il coraggio, non cullandosi sugli agi e le comodità che infiacchiscono muscoli e volontà.

    Aveva appena sistemato le sue vicende aziendali e familiari, quando dovette partire per il servizio militare che, invece, avrebbe dovuto sostenere Pietro, che era il primogenito ma fu esonerato per motivi di salute. In Veneto, a Bassano del Grappa, Vincenzo conobbe un altro mondo: sentì una lingua diversa, vide per la prima volta la banconota da mille lire, visitò le città di Verona e Rovigo e molte aziende agricole dei suoi compagni. Apprezzò le nuove tecniche colturali, la sistemazione dei canali per irrigare i campi, l’amore che i veneti mettevano per fare il vino e la grappa. Assorbì tutto come una spugna per poter realizzare anche a Nova Siri quello che di innovativo aveva conosciuto.

    Tornato a casa, cercò con nuovo vigore di trasformare la sua azienda rendendola produttiva al massimo. Impiantò la vigna, innestò i perastri con nuove varietà di pere, su pezzi di radici di ulivo innestò varietà più produttive, in modo da far funzionare a pieno ritmo il suo frantoio con le macine in pietra. Al tempo opportuno seminava il grano, i ceci, le cicerchie, i piselli e il granturco. I commercianti napoletani facevano a gara per avere le sue pere e i suoi legumi che trovavano particolarmente gustosi. L’olio e il grano erano accumulati nei magazzini e venduti per lo più ai pugliesi che avevano una consolidata esperienza commerciale.

    Viveva in campagna, lavorava dall’alba al tramonto, condivideva il pranzo serale con i collaboratori per i quali aveva fatto costruire singole abitazioni. Soprattutto nelle serate invernali amava ascoltare da loro suggerimenti ed esperienze, raccontava fatti della sua giovinezza e della vita militare nell’intento di costruire una comunità rurale coesa e solidale. Ritornava col calesse in paese sul far della sera, ripensava alla sua giornata, ammirava il tramonto e dall’alto guardava estasiato la marina soprattutto quando la luna sorgeva dal mare. Raro momento di pausa.

    Quando Vincenzo lo ritenne opportuno si arrogò il diritto e il dovere di provvedere, forse con fare eccessivamente pratico, al matrimonio di cinque sorelle, mentre le prime due e il fratello Pietro rimasero in casa, a custodia degli affetti, della tradizione e anche soggetti in tutto alla sua volontà: di fatto era lui il Patriarca.

    Ma per quanto riguardava la sua sfera affettiva compreso un eventuale progetto matrimoniale, guai a intromettersi. Il nonno Vincenzo non prendeva i sentimenti in prestito dai romanzi, non si lasciava andare a fantasie e passioni, misurava ogni cosa col contagocce della praticità per sostenere le persone a lui affidate.

    Il primo decennio del ‘900 fu un momento storico positivo, l’economia tirava e ognuno ristrutturava la propria casa o la villa, corredandola anche di opere di buon artigianato. Anche Vincenzo volle rinnovare il palazzo secondo lo stile Liberty: rifece i balconi e le finestre, andò a Napoli e lungo la famosa via Costantinopoli scelse lampadari e mobili d’epoca. Portò l’acqua corrente dopo aver scavato nel giardino un pozzo e una fogna; dotava così la casa di comfort e servizi essenziali.

    Gli mancava soltanto la moglie!

    Non trovava il tempo per intraprendere una relazione.

    Nell’occasione del matrimonio di un suo caro amico di Senise, Enrico, ebbe l’opportunità di conoscere la famiglia Anzilotta con le sue numerose ragazze da sposare. Fra tutte Vincenzo fu colpito da Rosina per gli occhi chiari, per il colore roseo della pelle, per l’eleganza con cui si muoveva e per la premura che dimostrava a ogni membro del clan familiare.

    Rosina, modesta e silenziosa, trovava il suo svago con i nipoti, li intratteneva con piccoli giochi, permettendo agli adulti di parlare con gli ospiti in salotto. Lo sguardo curioso, quasi indagatore del forestiero la mise in imbarazzo. Quando i bambini le chiesero di suonare al pianoforte le loro canzoni preferite si schernì, arrossì, cercò di distrarli. Non sfuggì il suo disagio agli ospiti che subito la incoraggiarono a esibirsi. Gilda, la fresca sposa di Enrico trovò l’occasione per far ascoltare la sua voce incantevole. La formale visita di salotto si trasformò in un bel concerto: bambini, adulti e anziani cantavano e si muovevano con una disinvoltura piacevole e comunicativa. Vincenzo, strano a dirsi, si trovò a suo agio e si fece coinvolgere a tal punto nell’atmosfera da lasciarsi andare e intonare i canti alpini che aveva imparato durante il servizio militare. Rimandò la partenza, attratto dal clima rilassante e affettuoso e, soprattutto, da

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