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La giunchiglia del monte Croce
La giunchiglia del monte Croce
La giunchiglia del monte Croce
E-book311 pagine4 ore

La giunchiglia del monte Croce

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Info su questo ebook

Nel superbo palcoscenico delle Alpi Apuane, prende corpo la vicenda di un amore tormentato. Michele, pastore indurito da una vita solitaria, scandita dalle periodiche trasferte con le pecore sui crinali del Monte Croce, ha estremo bisogno di una persona verso la quale riversare affetto. L'incontro casuale con una ragazzina e la grande passione che la giovane donna è in grado di far sprigionare in lui, stravolge l'esistenza di Michele. Seguono giorni di angoscia e di tormento. In queste pagine viene descritto l'eterno dramma della solitudine, il malessere di colui che si ritrova a lottare con le poche forze a disposizione contro un mondo ed una società che tendono ad emarginarlo.
"La giunchiglia del Monte Croce" come tutti i romanzi di Roberto Andreuccetti, evidenzia il disagio di un quotidiano vivere difficile, ma intende anche trasmettere al lettore un messaggio di speranza.
LinguaItaliano
Data di uscita7 mar 2016
ISBN9788899735067
La giunchiglia del monte Croce

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    Anteprima del libro

    La giunchiglia del monte Croce - Roberto Andreuccetti

    Roberto Andreuccetti

    LA GIUNCHIGLIA

    DEL MONTE CROCE

    Argot edizioni

    © Garfagnanaeditrice

    Andrea Giannasi editore

    © Argot Edizioni

    Febbraio 2016

    ISBN 9788899735067

    CAPITOLO I

    LA MONTAGNA

    Il sibilo del vento giungeva rabbioso alternando veloci frustate a prolungati miagolii; investiva con la sua furia le levigate lastre di pietra del tetto, penetrava nella concimaia attraverso le frequenti fessure nella lamiera, mentre l’acqua insistente e monotona scendeva con particolare violenza, quasi cercasse di ghermire quella modesta dimora costruita sulle pendici della montagna.

    La luce elettrica si era spenta e l’uomo che stava recandosi coperto da una mantella  a chiudere la porta della stalla aperta dalle folate violente, era avvolto nel buio più profondo. Le tenebre nascondevano i contorni delle cose, il viottolo impregnato d’acqua e di fango, i grandi faggi poggiati quali muti guardiani ai margini della radura ed i recinti dove le pecore trovavano riposo dopo il loro continuo peregrinare attraverso  prati scoscesi e lande deserte.

    Quell’uomo conosceva a memoria i dintorni della casa e correva spedito incurante della furia degli elementi. Dopo aver controllato che gli animali fossero tutti al sicuro sotto le tettoie e dopo aver serrato con il chiavistello la porta della stalla che continuava imperterrita a sbattere sospinta dal vento, era tornato a rifugiarsi in casa provando l’immediato sollievo di chi si sente nuovamente protetto dal tepore delle pareti amiche.

    Domani sarà dura portare le pecore all’alpeggio con questo tempo, pensava Michele che nel frattempo si era tolto il mantello e l’aveva poggiato in un rudimentale attaccapanni posto in un angolo della cucina.

    A quel punto, considerato che la luce non tornava, non rimaneva che andare a tastoni alla ricerca della camera per  cercare di riposare qualche ora in attesa dell’alba.

    Dopo alcuni passi mossi con estrema cautela, in mezzo al buio più profondo, dopo aver attraversato la cucina urtando più volte nelle vecchie sedie ed aver  percorso lo stretto corridoio, Michele  era riuscito a conquistare la porta della camera. Dopo averla aperta, continuando con difficoltà a percorrere le tenebre e dopo essersi tolto gli abiti ancora umidi di pioggia ed averli poggiati sopra una sedia  a fianco del letto, aveva potuto finalmente coricarsi.

    Adesso le lenzuola, dopo la morte della madre erano sempre ruvide e piene di grinze, dove si annidavano e rimanevano piccoli corpuscoli, che inutilmente Michele  cercava di togliere passandovi sopra le mani.

    L'uomo non poteva fare a meno di ripensare alle lenzuola morbide, profumate di bucato, che trovava ogni tanto quando la donna cambiava il letto ed al piacere che provava introducendo le membra stanche sotto quella candida coltre.

    Non aveva tempo per fare il bucato e doveva aspettare le visite della sorella, che avvenivano però con diluita frequenza.

    Il rumore dei tuoni arrivava assordante, prima annunciato da un brontolio sommesso e lontano e poi seguito a breve da un potente boato che sembrava voler squarciare le viscere della montagna. La casa aveva ripetuti sussulti, come se fosse scossa nelle fondamenta da un violento e improvviso terremoto. I vetri delle finestre tremavano sotto le raffiche violente del vento che arrivava dalle più remote profondità del cielo ed emetteva prolungati sibili come miagolii di un felino impegnato in una spasmodica lotta contro un rivale.

    Al rumore del vento si univa quello dell’acqua che cadeva scrosciando sul tetto della concimaia e che insisteva monotona e senza un attimo di tregua.

    Anche Lampo, dalla sua cuccia nell'orto emetteva, forse disturbato dai rumori del temporale, prolungati lamenti.

    Michele occupava quella casa da solo, una modesta ma vetusta dimora costruita alle prime propaggini del monte Croce al limitare della faggeta, in un avvallamento del terreno dove avevano inizio i grandi prati che salivano in alto, quasi un soffice mantello poggiato lungo il crinale del monte e che si interrompeva soltanto all’inizio della  pietraia che faceva da contorno alla vetta.

    Un ingresso, un cucinotto, un piccolo soggiorno e due camere, una delle quali occupata dalla madre finché rimasta in vita, erano i vani che componevano quella baita sul davanti della quale si apriva una grande terrazza, uno stupendo  balcone dal quale si potevano abbracciare con lo sguardo alcune  vette delle Apuane, il monte  Prana, il Piglione ed il Matanna. 

    Non c’erano altre abitazioni nelle vicinanze, soltanto un fatiscente casolare situato a qualche centinaio di metri  ai margini di un prato scosceso ed a stretto contatto con un bosco di abeti e di faggi, abitato da un unico inquilino, un uomo semplice e dal sistema  di vita spartano di nome Gervaso, da tutti conosciuto come l'Omo Selvatico.

    Un viottolo cosparso di pietre scendeva con numerose curve e tratti ripidi fino ad inoltrarsi nel bosco e scompariva in mezzo ai grandi faggi, oltre i quali avrebbe ritrovato altri piccoli nuclei abitati tutti  facenti parte  della frazione di Palagnana.

    Questo piccolo paese si trova abbarbicato lungo le pendici del monte Croce, con a fianco l’altra vetta gemella, il monte Matanna  e con la vista di fronte della cima del Piglione.  Anticamente era il luogo dedicato al pascolo durante l’estate dagli allevatori di pecore e mucche provenienti dal paese di Stazzema.  Le abitazioni del paese sono sparse come tante piccole macchie variopinte  in mezzo ai numerosi castagneti ed alle distese di faggi. La popolazione vive prevalentemente di pastorizia, di agricoltura, soprattutto la raccolta delle castagne e di commercio del legname. Il nucleo di case più numeroso si trova proprio al termine della strada tortuosa e stretta che dal centro di Fabbriche di Vallico arriva sulla piazza principale situata ad un’altezza di circa novecento metri sul livello del mare e dove c’è anche una piccola locanda, dove sono soliti fare sosta, durante le loro escursioni, i visitatori delle pendici delle Apuane.

    Più in alto la chiesa dedicata a Sant’Anna con attiguo il piccolo cimitero, dominano il fondo della valle percorso dalle acque tumultuose del torrente Turrite Cava.

    Nascosta nei boschi una piccola chiesa dedicata a San Giovanni vedeva nel secolo scorso la visita annuale dei pellegrini che raggiungevano a piedi quella località per festeggiare il santo ma anche per trascorrere una giornata all'aria aperta.

    Salendo ancora più in alto i boschi e le selve scompaiono, così come i piccoli appezzamenti di terreno coltivati ad orto e si fanno largo i grandi prati e le distese delle rocce e delle ampie pietraie.

    Questa piccola località, facente parte del comune di Stazzema, è frequentata in prevalenza da visitatori domenicali che, soprattutto in estate, partendo dal fondo della valle e dai centri della piana, si arrampicano fino lassù per trascorrere qualche ora di vita all'aria aperta e a stretto contatto con le superbe cime delle Alpi Apuane.

    A  poche decine di metri dall’abitazione di Michele, era situata la stalla che ospitava una mucca ed un mulo con attigua la concimaia e poco più in là la legnaia racchiusa in una  baracca fatta  di tavole  con un piano superiore  nel quale era ammassata della paglia ed al quale si accedeva per mezzo di una scala a pioli, anche quella di legno. Poco distanti i recinti con maiali, pecore e capre.

    I mobili in quella casa erano vecchi e malridotti e dovevano fare i conti con il peso degli anni perché tramandati da più generazioni. Un tavolo ed una credenza in cucina, una poltrona sfondata ed un mobile bar nel  soggiorno, due armadi e due comò nelle camere, un cassettone in un corridoio buio ed un angolo adibito a bagno con un rubinetto posto sopra un pozzetto dove era possibile lavarsi alla meno peggio. Non c’era acqua potabile in quella dimora, ma soltanto quella attinta da un ruscello  situato nei pressi  che alimentava anche un lavatoio. Per bere e per cucinare era necessario recarsi ad una sorgente che sgorgava ad un quarto d’ora di cammino da una fenditura della montagna.

    Michele, dopo la morte della madre, tutto preso dal lavoro di allevatore era costretto a trascurare la pulizia dei locali ed era aiutato saltuariamente dalla sorella Santina, sposata e con due bambini piccoli che abitava più in basso lungo la valle della Turrite e che ogni tanto, ma molto raramente, si recava a far visita al fratello.

    Il giovane scendeva una volta al mese,  accompagnato dal fedele mulo di nome Romano fino al paese di Fabbriche di Vallico per le spese necessarie e per vendere il formaggio. Con la madre in vita era tutto più facile, ma adesso le  visite nel capoluogo della Val di Turrite si erano diradate perché gli animali richiedevano una costante presenza, soprattutto le pecore che avevano bisogno di essere condotte   giornalmente al pascolo.

    Capitava spesso presso l’abitazione di Michele un commerciante di animali da macello che  era interessato all’acquisto di agnelli, maiali e capretti, ma che riforniva anche di mucche,  vitelli e muli chi ne avesse fatto richiesta.

    I denari a quel giovane fortunatamente non mancavano, perché con la vendita del latte, del formaggio e della carne, riusciva  a mettere da parte discrete somme, ma la vita che era costretto a condurre era molto  faticosa.

    Il cielo splendeva di un azzurro intenso, il sole non era ancora sorto e giocava a nascondino dietro le pendici del monte Piglione, la pioggia caduta in abbondanza durante la notte rendeva i prati più luminosi con l’erba che brillava perché ancora carica di umidità. I giganti delle Apuane si stagliavano nel cielo sgombro con la loro sagoma inconfondibile e sembravano guardiani fedeli intenti a vegliare su una natura ancora addormentata.

    Michele guardava quei monti, mentre dietro al gregge di pecore guidato con maestria dal fedele cane Lampo, saliva piano seguendo il sentiero che attraverso i prati portava lassù sui pascoli alti del monte Croce.

    Fortunatamente i timori della sera precedente erano svaniti, il temporale si era esaurito in nottata e la giornata si presentava buona. Dover condurre le pecore al pascolo sotto la pioggia non sarebbe stato piacevole. Anche se riparato dalla mantella e dall’ombrello, Michele sarebbe stato costretto a sopportare l’umido durante tutta la giornata avendo inoltre quale compagno il vento di libeccio che planando dal monte Matanna lo avrebbe investito con violenza.

    L’uomo conosceva quel sentiero come le proprie tasche, lo aveva percorso migliaia di volte con il gregge di pecore, ma anche per scendere fino al rifugio Pietrasanta quando, con la madre ancora in vita, vi si recava per vendere il latte. Trasportava ogni giorno col mulo i pesanti  contenitori colmi di quel liquido che cedeva ad un compratore  di Ponte Stazzemese il quale a sua volta li indirizzava verso il centro di raccolta di Seravezza.

    Era oramai giugno inoltrato, il mese nel quale aveva inizio l’alpeggio, l’erba era abbondante, la fioritura delle giunchiglie era già avvenuta e si poteva far pascolare le pecore senza il rischio di distruggere quelle centinaia di fiori delicati e profumati che formavano come un giallo tappeto che ricopriva il crinale del monte.

    Michele nel mese di maggio, il periodo nel quale sboccia quel magnifico fiore, teneva il gregge lontano dai prati dove trovava facile vita la giunchiglia per condurlo più in basso ai margini delle selve e dei boschi. 

    L'erba migliore e abbondante doveva essere lasciata per il mese di giugno quando sarebbe stato fatto il primo taglio, seguito poi dall'essiccazione che l'avrebbe trasformata in fieno. Quell'alimento era fondamentale per poter alimentare gli animali in inverno.

    In quei giorni, soprattutto la domenica l’uomo vedeva arrivare i nipotini che erano condotti su quelle alture colorate dalla sorella Santina  e che si recavano lassù per raccogliere un mazzo di quei fiori e portarli poi nel piccolo cimitero di Palagnana sulla tomba  della nonna.

    Anche molti  escursionisti si avventuravano lungo il crinale del monte Croce durante la fioritura per ammirare quello stupendo spettacolo della natura e per scattare fotografie da mostrare agli amici rimasti a casa.

    Dopo circa un’ora di cammino, preceduto dal gregge e dal fedele Lampo, Michele giunse in vista del pianoro dove avrebbe fatto  pascolare le pecore.

    Il sole  era salito  più in alto nel cielo ed inondava con i suoi raggi il prato, i radi faggi e le rocce che spuntavano qua e là preannunciando l’avvicinarsi della vetta.  Una brezza sostenuta di maestrale si era alzata repentina e  piegava gli steli  dell’erba che ondeggiavano placidi, ora guardando la  terra  ed ora tornando a rimirare il sole ed emettevano  un lieve fruscio.

    Michele seduto sopra una pietra  osservava il lento, pigro muoversi delle pecore, scrutate a distanza anche da Lampo. L'animale, nei momenti di pausa, faceva finta di sonnecchiare, ma se ne stava invece con le orecchie sempre pronte a captare il fischio del padrone che annunciava un ordine ben preciso o il cambio della zona di pascolo. 

    In quelle lunghe ore il giovane poteva affogare la mente in numerosi pensieri ed il suo meditare era sempre accompagnato da gesti rituali, un sasso gettato lontano, uno sguardo verso il cielo solcato dalla scia di fumo lasciata da un aeroplano ed un manovrare  lento di  un coltello che decorava con incisioni diverse il fedele bastone.

    Ore ed ore di silenzio e di solitudine con il passato di una vita difficile, gli episodi della quale affioravano di continuo nella mente. Lo scorrere di momenti ora lieti ed ora tristi, ma sempre conditi dalla costante del lavoro, monotono e logorante, in mezzo a un universo comunque familiare ed amico, quello della montagna.

    Michele conosceva ogni piega ed ogni angolo di quell’universo, sapeva trovare riparo durante le giornate di pioggia e ombra quando il sole batteva a perpendicolo sulla sua testa. Quel sole che assieme al vento aveva arrossato e reso arida la pelle del suo viso, feriva con i suoi raggi durante le lunghe soste sulle pendici della montagna.

    L’amore dell’uomo per la propria terra era viscerale; molte volte la sorella gli aveva chiesto di trasferirsi a valle in particolare dopo essere rimasto da solo, ma ogni insistenza della donna si era rivelata vana ed aveva dovuto scontrarsi con una caparbia ostinazione.

    Michele stava per compiere quarant'anni, con un fisico ancora giovane, nonostante la mezza età; la muscolatura delle braccia e del dorso ben pronunciata, occhi chiari color del cielo ed un ciuffo di capelli castani ad occupargli metà della fronte. La pelle del viso abbronzata e rugosa per la lunga esposizione al sole ed al vento, donava a quel volto un aspetto selvaggio che lo faceva assomigliare ad un lupo di mare ma che anziché solcare le acque attraversava i sentieri delle montagne. Il portamento eretto ed i movimenti agili durante il suo peregrinare fra l’erba e le rocce, davano l’impressione che sfiorasse soltanto il crinale del monte, senza avvertire i sintomi della fatica, né l’affanno per il dover superare erte difficili.

    Nonostante la vita dispendiosa che conduceva e l'età non proprio più verde Michele era ancora un uomo piacente.

    La gente di Palagnana e di Fabbriche di Vallico si chiedeva perché quell’uomo facesse vita da eremita e non andasse invece a cercarsi una donna, in particolare adesso che senza la madre era costretto a fare tutto in casa, dalle pulizie, alla preparazione dei pasti, senza considerare il tempo impiegato ad accudire i numerosi animali.

    A chi gli faceva domande in tal senso, Michele rispondeva che non aveva nessuna intenzione di portare  in casa una compagna, perché non si fidava delle donne e preferiva rimanersene da solo in mezzo alle  pecore e le capre.

    Quelle sue affermazioni erano però soltanto un paravento dietro al quale soleva nascondersi per non rivelare invece che era un uomo afflitto dalla solitudine e dalla malinconia. Le lunghe giornate trascorse sulla montagna senza vedere anima viva, se si faceva eccezione di qualche turista arrivato lì per caso, lo avevano reso taciturno ed ombroso come una volpe o una faina che esce soltanto di notte per paura di essere scorta.

    Un boato improvviso echeggiò nel cielo e squarciò il silenzio della montagna, andando a perdere vigore nella profondità della valle.

    Michele fu distolto dai suoi pensieri e volse lo sguardo in alto, lassù verso la vetta del monte Piglione, dove nuvole nere come la pece si stavano  ammassando furtive e continuavano a muoversi spinte dal vento, avvicinandosi.

    All'uomo venne naturale ripensare al proverbio che diceva: Quando torba sul Piglione  prendi l'acqua sul groppone.

    Stava scatenandosi un temporale, uno di quei fortunali improvvisi che nelle ore più calde aggrediscono la montagna. Il sole del mattino si era rivelato una breve parentesi,  l’atmosfera era ancora ricca di umidità, il vento di libeccio non presagiva niente di buono e la perturbazione della notte non aveva esaurito la sua energia .

    Bisognava far buon viso a cattiva sorte e cercare subito un ricovero per non trovarsi in pochi attimi fradicio di pioggia, ma Michele conosceva la zona e sapeva che poco distante c’era un enorme fenditura della roccia.

    Sembrava che una mano misteriosa avesse voluto separare con arte la granitica compattezza del dirupo e lasciare una grande e lunga crepa, un varco aperto, come se la natura avesse desiderato far respirare la montagna.

    L’acqua aveva preso a scendere violenta, quasi scagliata da una grande mano che si dilettava a farla  rimbalzare sulle rocce e la distribuiva uniformemente  sull’erba dei prati e sui radi, spelacchiati alberi di faggio.

    Michele aveva fatto in tempo a raggiungere la grotta, non riuscendo però ad evitare il primo scroscio che l’aveva raggiunto improvviso, mentre le pecore, quasi a darsi aiuto reciproco si erano raggruppate nel bel mezzo di una radura ed unite l’un l’altra, muso contro muso, avevano formato un blocco compatto come fossero in preghiera ed attendessero l’esaurirsi  della furia degli elementi.

    L'improvvisa, quasi rabbiosa  luce dei lampi abbagliava la vista, mentre il tuono squarciava l’aria ed il suo boato si perdeva lungo i crinali della montagna; al primo violento scoppio seguiva un sordo  brontolio la cui eco a poco a poco scemava fino a riportare il silenzio interrotto soltanto dal monotono crepitare della pioggia.

    Michele si guardava dintorno, il panorama era scomparso di colpo, il cielo era divenuto una massa uniforme e grigia, la vetta del monte Croce era ammantata da una nebbia sottile che saliva veloce sospinta dal vento, mentre l’acqua correva lungo le fenditure della roccia calando a valle alla frenetica ricerca  di ruscelli e torrenti.

    Quel temporale estivo, arrivato all’improvviso, altrettanto velocemente cessò di intensità, allontanando prima il brontolio del tuono e smorzando poi lo scendere della pioggia. Rade gocce cadevano ormai rassegnate, accarezzando l’erba e le rocce piangenti, mentre un raggio di sole faceva capolino fra le nuvole che avevano cominciato ad aprirsi e che veloci si rincorrevano correndo via. Improvvisamente tornava la luce sulla montagna, che era ora più pulita e più splendente, come un bambino che indossa un vestito nuovo approntato per lui dalla mamma.

    Laggiù, nella valle, come per incanto si alzò alto sopra il cielo ancora grigio un fascio di luce colorata e sembrò posarsi con tocco leggero sulle pendici della montagna; come  un messaggio della natura, che dopo aver mostrato il suo volto più estremo,  annunciava di nuovo la quiete, aveva aperto il suo occhio l’arcobaleno.

    Michele uscì dal suo ricovero e tornò ad immergere lo sguardo in quel nuovo spettacolo; guardava il cielo aprirsi e riconquistare a poco a poco il suo azzurro intenso ed i fiori che sparsi nell’erba umida accentuavano i loro colori mentre la vetta del monte Croce si ergeva di nuovo maestosa a sfidare il sole che la inondava con i suoi nuovi caldi raggi.

    Le pecore, passata la tempesta erano tornate a spargersi sui crinali erbosi della montagna, brucando avide quell’erba ancora umida, seguite con lo sguardo dall’occhio vigile di Lampo, che accucciato sopra una roccia, non le perdeva di vista un momento.

    Michele prese a percorrere il sentiero che tortuosamente saliva lungo lo scosceso crinale e che in mezzo a vallate e pendii, dopo numerose serpentine raggiungeva la vetta del monte. Voleva recarsi a deliziare gli occhi della visione straordinaria che avrebbe avuto davanti, dopo quell’improvviso temporale, con l’aria più pulita e più tersa e con il vento che aveva preso a spirare da maestrale e spazzava lontano ogni residuo di nebbia.

    Mentre l’uomo continuava a salire piano lungo il terreno  che in vista della vetta si faceva più accidentato, con lo sguardo seguiva il gregge accompagnato nel suo movimento lento, oltre che dal vigile Lampo, dal tintinnare dei campanelli appesi al collo degli animali, che producevano un suono festoso che invadeva senza arrecare disturbo la valle.

    Dopo aver percorso il tratto più ripido, Michele si trovò davanti al leggero declinare del sentiero, che diveniva a poco a poco più agevole  che lo accompagnò  fin sulla cresta della montagna a lui amica: il monte Croce.

    Il suo sguardo corse veloce ad abbracciare un panorama stupendo, una vista conosciuta  ma che ogni volta sembrava diversa. Michele, durante quelle sue frequenti soste sulla vetta, scopriva particolari che vedeva per la prima volta, come se valesse sempre la pena effettuare quella salita; un falco che fendeva con le ali l’aria alzandosi in alto, sempre più su fino a scomparire nel nulla, la sagoma di una barca, simile ad  un puntolino che si muoveva piano nel piccolo spicchio di mare che si scorgeva  nitido e che con il suo azzurro  intenso  faceva da contrasto a quello più tenue del cielo.

    Lì davanti, quasi a poterle toccare con mano le vette delle Apuane, montagne uniche, ricche di un fascino strano, montagne che non hanno eguali nel mondo e che sono lì da secoli a separare il mare dall’Appennino, montagne amiche che Michele amava di un amore profondo: in direzione nord il gruppo delle Panie, il Procinto con i Bimbi, il monte Nona e più lontano la sagoma del Sumbra, verso sud il  Matanna ed il Piglione.

    Arrivò poi il momento di mangiare un boccone, perché dopo il pezzo di pane e formaggio consumato velocemente all’alba, più niente era entrato nello stomaco dell'uomo e che dopo quella lunga camminata era tornato a reclamare cibo.

    Michele si sedette sopra una pietra liscia, tolse dalla tasca del gilet un rotolo di carta e dopo averlo poggiato per terra lo aprì rivelando il suo contenuto che era dato da due fette di pane raffermo nelle quali erano racchiusi due rocchi di salsiccia.

    Si mise a consumare con voracità quel cibo affondandovi i denti e masticandolo quasi con rabbia, provando la gioia di sentirlo scendere nello stomaco, mentre lo sguardo continuava a penetrare il panorama e le orecchie si beavano nel carpire i piccoli rumori che arrivavano timidamente, quasi timorosi di violare il silenzio della montagna. L'allegro  cinguettio di una rondine, il ronzante volo di un calabrone, il lesto strusciare di una lucertola fra le fessure della roccia, il pacato stormire dei  radi ciuffi d’erba mossi dal vento.

    Il sole stava per andare a nascondersi, quasi stanco dopo il suo lungo peregrinare nel cielo, l’aria era più frizzante e le prime ombre annunciavano l’ormai imminente sopraggiungere della sera.

    Michele doveva rientrare, perché la strada per riportare le pecore all’ovile era lunga, considerata anche la lenta andatura degli animali.

    Dopo aver emesso un semplice fischio, che fece scattare Lampo quasi  fosse una molla e che lo fece correre con ampi giri intorno al gregge per radunare le pecore, il giovane iniziò la discesa lungo l’accidentato sentiero che con una serie di ripide serpentine lasciava la sommità del monte Croce e si rituffava nel cuore della valle.

    Le ombre della sera erano già calate mentre Michele, preceduto dal gregge, guidato con la solita maestria da Lampo era ormai giunto in prossimità del recinto. Quando procedendo ad uno ad uno, tutti gli animali ebbero oltrepassato il cancelletto che fungeva da ingresso per l’entrata e per l’uscita, il giovane lo richiuse, facendo scivolare il chiavistello e serrando il lucchetto della catena.

    Si avviò poi lentamente verso casa e non appena entrato provò ad accendere la luce, ma fu praticamente impossibile perché con sua grande sorpresa notò che la corrente non c’era. Molto probabilmente il temporale della notte precedente aveva creato un guasto sulla linea che collegava la casa alla centralina di Palagnana ed Abramo, il titolare, sicuramente non era ancora stato in grado di provvedere.

    Capitava spesso un inconveniente del genere, perché la linea era vecchia e malandata i corti circuiti erano frequenti e a causa delle località difficili da raggiungere; a volte erano necessarie ore per riuscire ad individuare l’origine del problema.

    Abramo, l’anziano gestore della centralina che era situata lungo il corso del torrente Turrite era sempre disponibile ed anche se le località servite

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