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La sesta volta che Molotov è morto
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E-book152 pagine2 ore

La sesta volta che Molotov è morto

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Info su questo ebook

Due amici, uno di molto matto, una storia divertente, intrisa di anni '90, calcio e follia.
Una storia di amicizia con un finale al fulmicotone, atmosfere da amarcord che, incredibilmente appaiono attualissime. Una prosa scoppiettante, un racconto che ci riporta a un momento storico che tanto ha condizionato la nostra contemporaneità.
LinguaItaliano
EditoreBlonk
Data di uscita9 ago 2018
ISBN9788828371830
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    Anteprima del libro

    La sesta volta che Molotov è morto - Iuri Toffanin

    Toffanin

    LA SESTA VOLTA CHE MOLOTOV

    È MORTO

    Succhiar mentine succhiate

    non è lo sport di nessuno.

    Federico Fiumani (Diaframma)

    UNO

    Milano, pochissimi anni dopo il 2000

    La prima volta che Molotov è morto, le vetrine in strada tremarono per le risate. Le nostre, quelle degli amici. Begli amici, davvero. Ridevamo come matti, una roba senza ritegno. E non tanto per la morte in sé, che poi ci sarebbe ben poco da ridere, quanto piuttosto perché noialtri non ci avevamo capito niente.

    Mi rendo conto che, messa giù così, la faccenda apre da subito la porta a una noiosa quantità di sfumature enigmatiche, per non dire ermetiche, di quelle che vien voglia di chiudere il libro e sceglierne al volo un altro, magari dalle premesse apparentemente più serie. Ma è un fastidio che risolviamo presto, date retta a me. È solo questione di portare un minuto di pazienza. So anche che la gente non parla volentieri di questo tema. Al cinema e in tivvù ne fa il pieno senza fiatare, ma quando la morte diventa argomento di discussione, ecco che disponibilità e loquacità cominciano a venir meno. Non posso farci molto, per indorarvi la pillola, perché sia che vi piaccia sia che vi dispiaccia, è questa la situazione di partenza della storia.

    Dunque, innanzi tutto c’è quel prima volta che già di suo basterebbe e avanzerebbe per far rizzare le antenne. In effetti, quando si parla di un primo poi ci si aspetta, quanto meno, pure un secondo, e fin lì nulla da dire. Certo che però se si parla di tirare le cuoia, beh, riesco a capire che qualcuno possa storcere il naso. Il punto è che quella fu davvero la prima volta che Molotov morì, almeno ufficialmente, nel senso che forse gli era capitato anche in precedenza, non ci è dato sapere, ma sta di fatto che nessuno doveva averci fatto caso. Neppure lui. È un po’ come i centodieci ostacoli: magari è una vita intera che li corri polverizzando un record dietro l’altro, ma finché non c’è un’anima in giro che si decida a cronometrarti e a fissare l’evento, è come se tu non li avessi mai corsi, quei centodieci metri, ostacoli inclusi. Ecco, per farla breve, possiamo dire che quella fu la prima volta che Molotov morì e che qualcuno se ne accorse. Lui per primo.

    Ci prese tutti in contropiede, il che spiega in parte la natura del secondo elemento ambiguo, ovvero le risate. Ridere mentre un amico muore: che ci sarà mai di più incomprensibile di così! Solo che in certi momenti non ci puoi fare nulla, le cose vanno come devono andare. Un momento stava camminando dietro di noi, il momento dopo era steso a terra, ridotto a uno zerbino, e in mezzo c’era stato giusto il tempo di sparare una botta tremenda. Sdeng. Una campana nel buio, e nessuno aveva visto niente.

    Fino all’ultimo momento in cui Molotov se n’era restato ancora in piedi, io, lui e gli altri stavamo semplicemente andando a zonzo per tirare tardi e lui chiudeva il gruppo, come fa di solito, perché è un tipo fatto a modo suo, gli piace avere sempre un punto di vista defilato. Un attimo dopo era accasciato a terra, una gamba sul marciapiede e l’altra no, le braccia aperte come uno dei due ladroni in croce che ti può capitare di vedere su certi dipinti nelle chiese e gli occhi grossi quanto noci, bianchissimi, rivoltati all’indentro. Per quel che si poteva giudicare, così, su due piedi, il cretino doveva aver centrato in pieno il cartellone stradale sotto il quale tutti noi eravamo invece passati indenni, chinando il capo. E ditemi che non c’era nulla da ridere. Sì, a occhio e a orecchio (perché la botta era impossibile non averla sentita così come era impossibile non vedere quel grottesco scarafaggio spiaccicato sull’asfalto) il segnale di biforcazione della provinciale gli aveva teso un agguato, con notevole successo. E adesso Molotov, che ha sempre la testa a metà strada tra la terra e le nuvole, se ne stava sul selciato a pelle di leopardo, complice l’averla cozzata fragorosamente contro il nudo metallo. E il poverino offriva anche convulsioni da epilettico e un accenno di filo di bava che prendeva forma al lato destro della bocca, in modo quasi sconcio.

    Un po’ che Molotov tende a essere un gran burlone e un po’ che comunque la gente che cade fa sempre quell’effetto lì, a vederlo ridotto in quello stato nessuno di noi riuscì a trattenere le risate per più di qualche iniziale istante, dedicato frettolosamente alla catalogazione della scena e subito spazzato. I punti, un po’ esclamativi e un po’ interrogativi, che avevano preso vita sulle nostre teste, si dissolsero d’incanto, seppelliti (come impone la nota formula) da un’ondata d’ilarità. Risate grasse, di quelle che rotolano senza sforzo e vanno lontano, e appunto sarebbero durate tutta la notte, se a uno di noi, quello di certo dotato di maggior quantità di sale in zucca, non fosse sorto un dubbio. Le convulsioni erano infatti sparite, tutto d’un tratto, e la faccia di Molotov era gonfia come un melone ma molto più livida, tanto che cominciava a sembrarmi che quel teatro fosse fin troppo realistico per essere tale.

    Sì, sono io quello col sale in zucca che fu colto dal dubbio, e meno male.

    La risata mi si spense in gola. Deglutendo a più riprese senza niente da deglutire, mi sporsi verso di lui, divaricando le gambe e piantando le mani sulle ginocchia. Visto da lontano dovevo avere l’aria di uno pronto a prenderlo a calci, e non è che non ne avessi un pochino di voglia.

    «Alzati, buffone! Tirati su e falla finita» gl’intimai, ma mica del tutto convinto. Un dubbio ti rende dubbioso, in fondo.

    «Piantala di fare l’imbecille» aggiunsi più sottovoce, perché forse era anche di me che stavo parlando.

    Tre secondi dopo, mentre gli altri idioti continuavano a sbellicarsi, io ero inginocchiato e gli tiravo sberle secche e pesanti neanche m’avesse fregato la ragazza e la mia voce era un crescendo d’insulti e minacce che c’era da meravigliarsi che nel quartiere ci fosse ancora qualcuno in grado di dormire. Pian piano, perché col tempo maturano anche le nespole, pure gli altri capirono che lo scherzo tutto era fuorché uno scherzo, e la truppa si accalcò intorno a formare un quadrato, e un passante avrebbe potuto anche credere che ci fosse in ballo qualcosa tipo un incontro clandestino di boxe a mani nude e che lo avessi steso io, Molotov, con una castagna piazzata ad arte. Fu un gran spavento. Per me, per loro, per tutti. Forse l’unico a non spaventarsi fu proprio Molotov, che chissà dov’era.

    Bene. In sintesi diciamo che gli schiaffoni ottennero il loro scopo, anche perché altrimenti non saremmo qui a parlare della prima volta che Molotov morì, ma dell’unica. Insomma, gli occhi tornarono lentamente a sembrare umani, anche se erano pietosamente arrossati da una fitta ragnatela di capillari esplosi, i polmoni presero a pompare come mantici e una stretta d’acciaio mi afferrò la maglietta all’altezza del petto, tirando e tirando e facendomi saltare qualche cucitura sulle spalle. La mano mi trascinò fino a due sputi dalla faccia di Molotov, ora pallida e foderata di goccioline di sudore. E che alito, dio mio, che alito, roba che a momenti ci finivo anch’io per terra, lungo e disteso, e poi chissà come andava a finire. Feci resistenza, impuntandomi sui muscoli di gambe e schiena e ponendomi a contrappeso della sua forza, non so perché, forse per paura. In parte ci riuscii e allora fu lui a sollevare la testa e ad avvicinarsi a me finché la distanza dei nostri nasi si ridusse ad uno sputo, uno soltanto. Quel tanto che bastava per investirmi di un odore mai sentito in precedenza, un misto di tutto, ma proprio di tutto ciò che ricorda un cadavere.

    Restammo a scrutarci negli occhi per non so quanti attimi, mentre gli altri fissavano noi, silenziosi, ipnotizzati, in attesa di un segnale di scampato pericolo.

    Fu lì che capii, senza bisogno che lui parlasse, che Molotov era morto per la prima volta.

    DUE

    La prima volta che Molotov morì aveva l’età delle rock star, anno più, anno meno. Jimi Hendrix, Janis Joplin, Kurt Cobain e quella gente lì, tanto per intenderci. Che poi non è mica una cosa da buttar via. Pensate alla lapide:

    Qui giace Molotov,

    prematuramente dipartito

    all’età di Kurt Cobain

    Se di musica un po’ ne capite, converrete che è un paragone interessante.

    Ora invece Molotov ha l’età di Cristo, o meglio, ha la stessa età che aveva Cristo quando gli toccò di morire, almeno nella sua parte terrena, ma forse neanche, è una faccenda delicata, meglio non andare oltre. Ognuno nutre convinzioni proprie in materia, perciò propongo di tenerci sul vago così da rimanere buoni amici, d’accordo?

    Comunque, pure chi non ne capisce di musica e men che meno di teologia, intuirà che anche questo secondo paragone è interessante. Inoltre, considerato quel che ne fu di Lui dopo tre giorni, lasciatemi dire che non mi sento stupido a nutrirmi di speranze, mentre gli tengo la mano nel letto di casa mia. Molotov è ridotto così da due giorni. Domani è il terzo, prendetene nota, perché chi può mai dire…

    L’ho visto morire troppe volte, Molotov, per girarmi dall’altra parte e spegnere per sempre la luce del comodino.

    TRE

    Sì, adesso Molotov ha l’età di Cristo, ma i due non è che siano in grande confidenza. A riguardo delle cose di Dio, Molotov ha idee tutte sue. Non è questione di crederci o non crederci, no, è più una faccenda di simpatia e di modi di fare e Molotov è uno che ci fa caso a questo genere di atteggiamenti. È vero, s’era concordato di lasciar stare questo argomento per evitare di pestare calli sensibili, però, se vogliamo intenderci su chi sia e non sia il mio migliore amico, qualcosa in merito bisognerà pur dirlo.

    Tanto per dare l’idea del personaggio, sentite questa. La prendo un po’ alla lontana ma fidatevi, poi arriviamo al punto.

    Sulla superstrada che da Grosseto porta a Livorno (e proprio in quella direzione, cioè da sud a nord, lo dico perché chi può escludere che anche la direzione non abbia poi una sua importanza?) qualche tempo fa poteva capitare d’imbattersi quasi subito in una serie di cartelli blu che annunciavano

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