AAA Primo Amore Cercasi
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Marco alla mamma di Matilde: “So di essere molto giovane e lei penserà che alla mia età ci si voglia soltanto divertire ma, mi creda, i sentimenti per me sono una cosa molto seria, sia i miei che quelli degli altri. Non direi quindi che sia stato per conoscere lei che sono venuto ma, al contrario, perché lei conosca me“.
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Anteprima del libro
AAA Primo Amore Cercasi - Angelo Tarantino
AAA
Primo amore cercasi
Un giorno la luna
sarà vestita di scienza
ma ci sarà sempre una stella
vestita d’infinito
Era un freddo pomeriggio del febbraio 1958 quando Marco, il giorno del suo sedicesimo compleanno, decise di non usare più l’ascensore.
La cabina di mogano scorreva lentissima e silenziosa nella tromba delle scale, tra le volute di metallo brunito. Ad essa si accedeva tramite una porta a due ante che incorniciava quattro cristalli molati attraverso i quali era visibile l’interno. In fondo, accanto alla pulsantiera, c’era uno specchio e, sotto ad esso, uno stretto sedile, un vezzo, data la brevità di ogni possibile tragitto. Mentre scivolava tra un piano e l’altro, le superfici di vetro, illuminate dalla debole luce della lampada incastonata nel soffitto, sfavillavano nella semioscurità come pietre preziose.
Sino a quel giorno, era stato un suo inesauribile compagno di giochi. Una serie di emozioni aveva tratto spunto da lì, nella complice penombra di un austero palazzo di cinque piani; dalla trasgressiva eccitazione di usarlo da solo prima di compiere dodici anni, all’inebriante entusiasmo durante i continui su e giù, con, come unica destinazione, il sogno, l’illusione di volare; ma la sensazione più intensa era il turbamento che lo assaliva quando gli capitava di poter spiare le donne che salivano ai piani superiori; con un po’ di fortuna, gli appariva la fuggevole visione dell’orlo di una sottoveste o di qualche centimetro di cosce. Il massimo era quando la preda ignara, muovendosi, faceva che si aprissero spiragli più generosi e quelle fulminee apparizioni scatenavano le morbose fantasie che erano poi la linfa dei suoi sfoghi solitari.
Sedici anni, una ricorrenza importante che lo faceva sentire adulto. Aveva finalmente acquisito il lasciapassare per i misteri dei film vietati e un’età più in linea con la sua precoce prima liceo classico. Era arrivato quindi il momento di abbandonare quei passatempi da ragazzino e, sancito con un sospiro il divorzio dall’ascensore, affrontò deciso le scale, avvolto in un caldo Montgomery color cammello.
Il tragitto dal terzo piano si rivelò molto più accidentato di quanto lui potesse immaginare, l’imprevisto infatti lo fermò dopo una sola rampa.
Al piano di sotto, una porta era socchiusa e, passandole accanto, sbirciò istintivamente dentro.
Intravide Matilde. Era una ragazza del Sud, arrivata da qualche anno a Roma per l’Università, ospite di certi suoi zii. Marco, nei suoi appostamenti, l’aveva già sbirciata varie volte e aveva notato come, con noncuranza, lei oscillasse sulle gambe con un ondeggiamento così ampio da permettergli di scoprire quale fosse il suo colore intimo preferito, il nero. Quella tinta impenetrabile che spiccava sulla pelle bianca lo turbava, gli lanciava un messaggio inquietante.
Ora Matilde era lì, davanti a lui, fasciata da una vestaglia di stoffa lucida che disegnava le morbide curve del suo corpo. La folta massa di capelli corvini le scendeva voluttuosamente sulle spalle, incorniciando i lineamenti marcati ma addolciti da grandi occhi di un azzurro cupo, quasi grigio, che davano al suo volto un che di seducente e misterioso.
Marco rimase immobile, come scolpito, sul pianerottolo. I suoi occhi irrispettosi indugiarono sul seno di lei, un poco scoperto. Matilde non si ritrasse, anzi, tendendo il busto, gli lanciò un’occhiata provocante e, in tono confidenziale, disse, Marco, cosa fai lì impalato, perché non vieni dentro a fare due chiacchiere?
.
Fu sorpreso che sapesse il suo nome.
Lei sembrò avergli letto nel pensiero, Ho sentito tante volte tua madre chiamarti, in queste vecchie case le parole rimbombano e la mia stanza deve essere proprio sotto la tua; io mi chiamo Matilde, allora che fai, entri?
Quando fu entrato, capì dal silenzio che erano soli e lei, dopo averlo aiutato a sfilarsi il cappotto, gli fece strada sino al soggiorno. Lo invitò ad accomodarsi su un divano e gli si sedette accanto, così vicina da sfiorarlo.
Senza staccarsi, cominciò a raccontargli di sé, della piccola città in cui viveva, dei suoi studi di Lettere ormai quasi completati, delle lezioni private che dava agli studenti delle Medie per togliersi qualche capriccio che altrimenti non avrebbe potuto permettersi. Parlava ininterrottamente accompagnando le parole con gesti delle braccia e delle spalle.
Marco ascoltava silenzioso e guardava affascinato la vestaglia lambirle la pelle e quando le punte dei seni, inturgidite dalla carezza, si disegnarono prepotentemente sotto il tessuto, quasi volessero lacerarlo, si rese conto che era nuda. Si sentì avvampare e, assalito da un impeto irresistibile, in un attimo le fu addosso, scostando di slancio i lembi dell’indumento che si aprì, rivelandogli una realtà che sino a quel momento aveva potuto solo immaginare.
Senza più freni, le prese il viso tra le mani e premette convulsamente le labbra su quelle di lei, come aveva visto fare nella finzione cinematografica; non aveva mai dato un vero bacio e, per un attimo, dovette resistere all’impulso di sottrarsi, come ferito, quando la donna si protese insinuandosi nella sua bocca inesperta e suggerendogli il seguito che lui non conosceva.
Era impreparato a quell’invasione saettante e inattesa ma cercò istintivamente di assecondarla.
Frastornato da quel contatto morbido e caldo, non si era nemmeno accorto che, nel frattempo, la sua parte più segreta era stata magicamente svelata e una bruciante carezza la stava tormentando.
Qualche attimo e l’orgasmo dilagò mentre Matilde, sul cui volto si era diffuso un violento pallore, emetteva un lungo gemito. Poi, silenzio.
Marco, imbarazzatissimo e svuotato di ogni energia rimase immobile. Lei, adagiata languidamente sullo schienale, stette un po’ a guardarlo compiaciuta, poi si alzò e uscì dalla stanza. Lui, dopo averla vista scomparire, si ricompose frettolosamente. Al ritorno, Matilde, la vestaglia ben serrata, si adagiò su una poltrona e, rivolgendogli un sorrisetto ironico, gli svelò di aver individuato da tempo le sue occhiate indecenti e, per vendicarsi, di essersi divertita a provocarlo.
Il ragazzo ci rimase malissimo; era stato scoperto, schernito e, peggio, usato.
Improvvisamente lei si alzò di scatto apostrofandolo bruscamente, ora te ne devi proprio andare
e, quasi strattonandolo, lo mise alla porta. Rimase qualche minuto fermo sul pianerottolo; era confuso, sentiva che tutto quanto fino ad allora gli aveva dato gioia, la soddisfazione di un buon voto, la compagnia allegra degli amici, un giorno di vacanza, non gli avrebbe più fatto alcun effetto; pensieri e interrogativi nuovi turbinavano nella sua mente.
~ . ~ . ~
Si avviò lentamente verso il pianterreno mentre gli tornavano davanti le immagini più remote della sua breve esistenza
Alla fine degli anni 40, in una Roma ancora ferita e umiliata dall’occupazione, Marco era uno dei tanti ragazzini che giocavano alla guerra, in mezzo a macerie che erano il loro unico balocco. Nella mente, il ricordo vago ma indelebile della realtà da cui il giuoco prendeva lo spunto: il sibilo delle sirene, l’abbraccio delle madri durante le corse affannose verso i rifugi antiaerei, l’eco delle esplosioni, la notizia della morte di qualcuno.
Abitava in un grande palazzo, interamente occupato dalle famiglie dei dipendenti di un’importante azienda, proprietaria dello stabile.
Attraverso il maestoso portone, alto tre metri, si accedeva all’atrio, assai ampio, dove, sulla sinistra, in una angusta guardiola, vigilava il portiere; era un sottufficiale dei carabinieri in pensione, con i capelli bianchi tagliati a spazzola e costantemente impegnato a risolvere innumerevoli cruciverba con l’aiuto di un vecchio Melzi e con la coda dell’occhio controllava tutti i movimenti nell’androne, sempre pronto a intervenire. L’ambiente, per quei tempi, era confortevole, quasi lussuoso; c’erano l’ascensore e il riscaldamento centralizzato a carbone; con l’inizio della guerra era stato persino attrezzato un rifugio antiaereo nel sottoscala.
L’organigramma aziendale era rappresentato a tutti i livelli: dagli alti dirigenti ai modesti impiegati d’ordine. La guerra aveva creato una temporanea promiscuità che annullava ogni gerarchia. Nessuno, per motivi di sicurezza, teneva la porta chiusa e i bambini entravano e uscivano liberamente da tutte le case.
Tornata la pace, tra i grandi furono ristabilite le distanze ma la confidenza tra i ragazzini rimase.
Marco, che era tra i più piccoli, era stato preso in simpatia dal più anziano
. Questi non gli aveva insegnato solo a giocare a briscola e scopa ma gli aveva anche rivelato cose piuttosto scabrose che avevano innescato una morbosa curiosità. Gli aveva descritto, con tutti i particolari, le trasparenze dell’abbigliamento femminile del quale, nella fretta di correre nel rifugio al suono dell’allarme notturno, le donne non avevano avuto il tempo di curare molto la decenza. Al sentire quali desideri scatenavano quelle visioni, il giovanissimo allievo, che una volta aveva guardato con disgusto una madre che allattava, seppe che il seno di una donna poteva essere piacevole da toccare.
Finita la scuola elementare, gli fu concessa la libertà di andare a giocare con gli amichetti, vicino casa, nei giardini pubblici del quartiere. I monelli però, di nascosto, si avventuravano spesso più lontano, oltre la ferrovia che, allora, segnava il confine tra città e campagna. Lì, lo spazio a disposizione era molto di più e venivano organizzate grandi battaglie tra soldati blu e pellirosse o scalmanate dispute a ruba-bandiera
. Il tutto tra forti schiamazzi che non disturbavano nessuno. Quando i belligeranti, sfiancati, smettevano di giocare, si sdraiavano sul prato e i più grandi accendevano con gli zolfanelli delle sigarette deformi, fatte con le cartine riempite di cicche raccattate dai posacenere di casa. Tra una chiacchiera e l’altra, affioravano sistematicamente le fantasie sulle femmine. Per alcuni, erano più che fantasie. Non ce n’era infatti uno, di quelli che avevano una sorella, che non l’avesse spiata attraverso il buco di una serratura. Qualcuno non scendeva troppo nel particolare ma altri, senza ritegno, si compiacevano nel descrivere tutto.
Le reazioni erano diverse a seconda dell’età. I più piccoli si eccitavano sul seno che, per la sua evidenza, era più facile da immaginare. I ragazzotti, più smaliziati,