L'oscuro manovratore
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Cresciuto dove la sopravvivenza è l'unica prerogativa possibile, aveva imparato a memoria, da prima il ruolo impostogli dalla società, per poi ricusarlo e lasciarsi alle spalle quella strada di smarrimento, pur di rimettersi in carreggiata, creando qualcosa di buono (per se e per gli altri).
Lo scontro - incontro casuale con una giovane benestante (anch'essa alla ricerca di se stessa e in lotta contro i propri diavoli), complica la sua già critica condizione.
In un incessante tira e molla, la loro attrazione fulminea, diventa una scommessa.
Antagonista di questo loro romanzo rosa è la dittatoriale figura materna, che non lascia nulla di intentato per frapporsi tra i due amanti e allontanarli l'uno dall'altro.
Il tutto si conclude, dove è iniziato: in uno scenario totalmente cambiato, ma nel contempo sempre uguale.
Il giovane fattosi uomo, fiero di essere diventato ciò che è riuscito a diventare, delle acquisite consapevolezze, avendo stravolto i piani dell'oscuro manovratore a cui, per ragioni ignote, era legato.
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Anteprima del libro
L'oscuro manovratore - Kosta Mariano
Prefazione
Incisivo, atipico, acuto, L’oscuro manovratore si configura come ottima prova letteraria di Kosta Mariano, abile a costruire una trama mediamente complessa, che prende forma gradualmente, e a sbrogliarla con puntualità, senza la fretta – tipica di certi scrittori esordienti – di anticipare gli eventi.
I personaggi sono ben definiti e sprigionano forte carica empatica; i discorsi diretti vengono usati col contagocce, non raggiungono il minimo sindacale ma il ritmo (mediamente elevato) non ne risente (merito dello stile veloce, sferzante e chiaro); la cifra stilistica affonda le sue più robuste radici nell’analisi dei sentimenti e delle relazioni interpersonali, con tutto ciò che ne consegue in termini di stati d’animo alterati e vite da (ri)costruire; il modus scribendi denota buona conoscenza della lingua italiana.
In definitiva, si tratta di un libro che può aspirare a coprire un target di lettori medio-vasto, da quelli giovani (interessati maggiormente alle scene forti e non edulcorate) a quelli più maturi, che desiderano profondità di narrazione.
Alcune parole chiave, che emergono dall’analisi del testo e che riconducono alle tematiche indagate, suggerendo peraltro un secondo livello di lettura, più articolato e profondo rispetto a quello principale di puro intrattenimento, sono ricerca, cambiamento, ostacolo, errore, scelta, volontà, aiuto, indagine, speranza, percorso, (in)comprensione, futuro, (ri)costruzione, passato, decisione, (in)consapevolezza.
Ergo: un’opera apprezzabile, da gustare tutto di un fiato.
Comitato di lettura SensoInverso
Il destino guida chi lo segue di sua volontà, chi si ribella, lo trascina
Seneca
Non v’è sentiero alcuno difeso contro
la forza del destino e contro
l’inclemenza del fato
Pedro Calderón de la Barca
Capitolo 1
Quando non hai nulla a cui aggrapparti, la speranza può rappresentare per te una prospettiva, ma da sola non basta a plasmare un’esistenza, da sola non basta a vincere la disperazione, perché così come può sollevarti il pensiero di avere una minima possibilità, allo stesso modo può distruggerti, lasciandoti dentro un vuoto infinito da cui nonostante i sovrumani sforzi, verrai di volta in volta ingoiato.
Emilio Pellecchia, un quindicenne come tanti, figlio di un disoccupato, dedito alla sublime arte dell’arrangiarsi e di una casalinga, sempre pronta a spezzarsi la schiena per sopperire alle penurie della debole economia domestica, cresciuto in un quartiere difficile, dove le urla delle ciantelle vasciaiole si propagavano dall’alpha e l’omega nella frazione di un nano secondo, quasi alla velocità della luce: per la loro potenza vocale; dove le canzoni neomelodiche si sentivano anche con lo stereo spento(considerato il volume con cui venivano riprodotte),malgrado il categorico rifiuto da parte di qualche povero martire, costretto a sciropparsi quei lamenti o meglio dire: espressioni artistiche di discutibile caratura
; dove gli odori delle cucine si diffondevano nell’aria mescolandosi ai miasmi fetidi che salivano dai tombini mai spurgati; dove la notte e la mattina si confondevano, visto l’afflusso di compratori di caramelle
dopo una certa ora; dove i bambini(anche di tenera età), venivano affidati alla strada, che gli faceva già da maestra oltre che da tutrice; dove vige la legge spietata della giungle urbana: il forte sovrasta e il debole soggiace passivamente, rassegnato al proprio ruolo di vittima sacrificale ai soprusi e agli abusi dei più svegli.
Una sorta di microcosmo fantastico, pieno di luci e ombre; fiero delle sue contraddizioni, dei suoi modi di fare poco ortodossi, della propria rabbia repressa, della propria umiliante sconfitta.
Perso nel suo orizzonte piatto, Emilio passava le sue intere giornate in quelle palazzine popolari (diventate da tempo una piazza di spaccio), dove era nato e cresciuto, intento ad imparare a sopravvivergli senza lasciarsi intimidire dalla prepotenza di quel reticolato di umori e controsensi.
Intorpidito dal fragore delle connaturate ed endemiche ipocondrie, veniva conglobato in quel carcere accogliente e asfissiante: così restio al mondo esterno, per non parlare poi delle sue frequentazioni tutto altro che raccomandabili, ma purtroppo erano gli unici con cui poteva stare, gli unici con cui condivideva la provenienza e quel senso di appartenenza, gli unici che parlavano la sua stessa lingua: tanti lupi simili che si riconoscevano fiutandosi.
Alcuni di loro, potevano vantare nel proprio curriculum vitae: anni di carcere, abusi e soprusi subiti, dipendenze da sostanze stupefacenti, abbandoni familiari, padri, madri, figli, zii e nonni in galera e via discorrendo in un climax infernale di terapie d’urto a traumi mai superati e di una poco rassicurante anamnesi.
A suo agio in un posto abbandonato dal mondo e soprattutto dallo Stato, che di quelle palazzine sembrava essersi dimenticato, come quasi di tutto il paese, ormai martoriato dall’orma infamante della malavita camorristica (retaggio di unità d’ Italia, fatta un po’ alla buona, per risanare le casse dei Savoia: scesi a patti con il diavolo per accaparrarsi quelle ricchezze).
Trascorreva pomeriggi interi a giocare, insieme ai quattro scappati di casa dei suoi amici a calcio sotto quei porticati, dove il tonfo delle cannonate del super santos, rimbombava fino a giungere fin dentro le abitazioni adiacenti e di tanto in tanto, si sentiva strillare qualcuno con frasi del tipo: ata cacat u cazz cu stu pallon
, che tradotta suonerebbe più o meno così: avete rotto le scatole con questo pallone.
Perso dietro un sogno impossibile, Emilio c’è la metteva tutta per emergere da quel degrado, ma il talento serve a poco, se non hai nessuno a cui mostrarlo e soprattutto se nessuno riesce a valorizzarlo.
In un continuo gioco forza tra bene e male, la resilienza degli individui di quelle palazzine verdi (quell’infausto microcosmo di caos e disordine) veniva messa ogni giorno a dura prova da tonnellate di inconvenienti convenevoli.
In un posto dove l’onestà e la legalità non avevano mai pagato, dove a farla da padroni erano sempre stati quelli con meno scrupoli: in quell’aria viziata, si finiva spesso per perdere la bussola, anche Emilio col passare degli anni non sapeva più da che parte stare, perché è facile essere buoni e ligi ai dettami sociali quando tutto intorno a te di cattivi esempi non ne hai e la strada che ti si para davanti è in discesa; un po’ meno lo è quando devi sopravvivere al gioco del più forte e scampare al cane mangia cane.
Maestri di virtù, per sua sfortuna, non ne aveva mai conosciuto, solo casi disperati, ormai rassegnati al peggio: stoici moderni, vittime della filosofia spicciola di cui si erano indottrinati, con corsi accelerati di pazienza, subita passivamente in età prematura, maestri del vivere alla giornata e esasperati cultori dell’arte dell’arrangiarsi.
Allevato da schiere di militanti suburbani, cresciuti troppo in fretta; essendo loro stessi stati allevati da progenie di disobbedienti, affetti dall’ansia di maturità anzitempo.
Emilio si districava tra quelle belve dalle sembianze umane con totale naturalezza, avendo condiviso con loro: la sua infanzia e i primi anni dell’adolescenza. Talvolta gli toccava fare a pugni con qualche buffoncello delle zone limitrofe, venuto a fare il galletto a casa degli altri, ma tutto sommato, difficilmente era il primo ad alzare le mani, essendo di indole pacifica.
Di tanto in tanto, dopo la scuola: si metteva in sella alla sua fedelissima bicicletta e macinava chilometri, per il solo gusto di spingersi sempre più in là, altre volte invece passava pomeriggi interi con la sua rampante trottola a corda, a cercare di imparare o perfezionarsi in strabilianti evoluzioni.
Eppure in tutto ciò: amava studiare, apprendere nuove nozioni, distinguersi da quella massa d’ asini cresciuti e pasciuti, che non avevano nemmeno la minima concezione dell’importanza dello studio e della cultura.
Dopo aver avuto un brutto incidente in moto, in sella ad un Beverly 300 nero, guidato dal suo amico d’infanzia: Salvatore, detto braciola
, in cui quest’ultimo aveva perso la vita e lui aveva riportato una frattura scomposta di tibia e perone sinistro (il suo piede), oltre che una frattura multipla del femore distale, più diverse vertebre incrinate e diverse escoriazioni su braccia e volto.
Caso volle, (per suo profondo turbamento e senso di colpa) a salvargli la vita era stato proprio Salvatore, che col proprio corpo gli aveva fatto da scudo, nella caduta rovinosa.
Da quel giorno maledetto, in preda ad incubi notturni e tormenti perpetui, faceva una gran fatica ad accettare l’accaduto, tanto forte e vivido era il ricordo che anche uscire di casa gli era diventato difficile; scosso a tal punto da non riuscire nemmeno più a guardarsi allo specchio.
Ormai viveva una vita appartata: fatta di atroci dubbi e tragiche certezze; il suo migliore amico: quello che lo aveva accompagnato fino dalla più tenera infanzia; era volato via e con lui una parte di se.
Prima Baggio e poi Del Piero, l’avevano ispirato a migliorarsi e a dare il meglio di sé, in quello sport, da lui tanto amato, ma dopo quel brutto incidente, con due gambe mal conce e il perenne spettro dell’amico trapassato, diventava sempre meno palpabile, ormai non riusciva più a sognare, data la frequenti visite degli incubi, anche nella realtà e non solo più nella dimensione onirica.
Ormai viveva in un incubo perenne; per dirla in breve e la cosa peggiore che rischiava di rimanere sotto il crollo della propria dimensione mentale, il proprio incubo iterante era quello di rivivere ripetutamente, ad occhi aperti, quel tragico incidente, ritrovandosi ogni volta impotente difronte a quel destino interrotto tanto bruscamente; perché quando serri le palpebre e rivivi al rallentatore quelle sequenze raccapriccianti, che ti segnano e insegnano una dura lezione, quando il cinismo della realtà, colpisce forte, facendoti perdere l’orientamento, diventa molto dura rimanere in piedi.
Proprio quel cinismo spietato, in più occasioni aveva finito per sviarlo dalla sua chimera, ma ben presto comprende, che la sua vita è rilegata a quel sogno e si rifugia di nuovo in esso, provando a cambiare le carte in tavola e fare un dispetto al destino, che in più occasioni si era preso gioco di lui.
Passano gli anni e con essi, l’innocenza dell’infanzia, ormai accantonata insieme ai giochi dismessi, le angustie sembrano non conoscere fine, mentre le prime cotte sono solo un palliativo a tanto dolore sospeso.
Le delusioni iniziano a pesare come macigni, sotto cui il suo animo fragile, come lo stelo di un fiore, tende a piegarsi e lui a ripiegare su se stesso.
Le cattive frequentazioni, anche se per lui erano i soliti amici di sempre, lo trascinano in un vortice di sballo e perdizione.
Quelli con cui aveva spartito passioni, tempo e svaghi, lo stavano coinvolgendo in loschi giri, aveva da qualche mese iniziato a fumare erba e bere alcolici su alcolici, per allontanare dalla propria mente, quell’incombente fantasma: che puntuale tornava a tormentarlo, non appena metteva la testa sul cuscino.
I primi scippi in motorino, qualche furterello qua e là, il filo alla posta (a qualche ignaro pensionato), le prime rapine a mano armata, con pistole giocattolo di ottima fattura, che riuscivano a far cagare sotto anche il più temerario dei negozianti e via discorrendo in un crescendo di consapevolezza malavitosa.
Ormai le sue giornate, imprigionate in quella tela di no sense, vorticavano all’impazzata intorno a quel binomio correlato: farsi per rubare e rubare per farsi, che poi era diventato farsi di più per rubare di più e rubare di più per farsi di più.
Erano mesi che non lo si vedeva a scuola, anche all’oratorio salesiano, dove di tanto in tanto passava a salutare i suoi tanti amici e farci qualche partitella di calcetto, non lo si vedeva più da tempo.
Jasmine, una ragazza di quartiere, con cui stava uscendo da qualche settimana, amava quel personaggio che si era inventato.
Quel finto duro, che per nascondere le proprie debolezze, indossava una maschera inamovibile.
Ma di tutto quello schifo, era il primo a non andarci fiero.
Quando si guardava allo specchio, non ci vedeva un duro, ma un perdente, perché gliela stava dando vinta al suo lato peggiore, stava tirando fuori il peggio di sé e soprattutto stava perdendo la personale scommessa fatta con se stesso: di riuscire ad emergere da quel degrado senza sporcarsi la fedina penale, e soprattutto la coscienza.
Ogni giorno guardando il proprio riflesso: il suo volto sembrava rimproverarlo e ogni notte sotto quell’inferno di coperte e rimorsi, la sua voce interiore; rincarava la dose.
Ormai i panni del bulletto di rione, non gli andavano più a genio, ma non riusciva a tirarsi fuori da quella spirale di