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Effetto Monarca
Effetto Monarca
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E-book407 pagine5 ore

Effetto Monarca

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Info su questo ebook

Una strage in Etiopia è solo l’inizio dell’orrore, si capirà subito quanto siano inutili quelle linee tracciate sulle mappe col nome di confini. Nessuno si fiderà neanche del proprio fratello, l’unica soluzione sarà fuggire e non farsi prendere, sapendo che non si potrà farlo per sempre.
Una fiaba, cinica e violenta, che narra del giorno nel quale alle pecore spunteranno i denti a sciabola.



 
LinguaItaliano
Data di uscita11 ott 2018
ISBN9788829525751
Effetto Monarca

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    Anteprima del libro

    Effetto Monarca - Luciano Balzotti

    Effetto Monarca

    di

    Luciano Balzotti

    Ai miei figli

    Il segreto sta nel non prendersi mai troppo sul serio

    Zero per cento

    Valle dell’Omo

    Pierre Blanchard era un militare francese di quei corpi speciali dei quali si parla raramente e solo in termini epici, qualche volta anche in termini infamanti.

    La sua missione era già a metà strada mentre in Francia si stava ancora discutendo se intraprenderla. In realtà era partita immediatamente dopo il fatto, meno di un giorno per scegliere gli uomini, preparare l’attrezzatura e volare ad Addis Abeba e uno di viaggio sulla strada prima di raggiungere l’obiettivo.

    Il governo etiope non si era opposto e quando gli europei, molto cortesemente, si erano mostrati contrari a un loro aiuto operativo avevano anche fatto un bel sospiro di sollievo. Era una questione francese e la Francia avrebbe provveduto. Pierre era un militare, ma non uno stupido come l’opinione pubblica giudicava spesso i militari: uomini senza cervello sempre pronti a usare i muscoli. Sapeva benissimo cosa implicava un intervento in terra straniera, le difficoltà politiche e organizzative. Si poteva fare in segreto rischiando l’incidente diplomatico o con il benestare pubblico o meno del governo implicato, per queste cose ci voleva sempre tempo, troppo. In questo caso bisognava operare subito, se almeno si voleva salvare una vita, altrimenti non avrebbero trovato neanche i cadaveri. Il governo etiope aveva opposto una tiepida resistenza di circostanza, per non più di mezza giornata, poi aveva ceduto su tutti i fronti, dando l’idea di aver perso il controllo di quei territori e di essere contento di chiunque andasse a dare una controllata al posto loro, comunque, dopo il video nessun governo poteva mettersi tanto a discutere.

    Pierre, come quasi tutto il mondo, aveva visto il video ed era favorevole all’intervento. I video in realtà erano due, il primo mostrava un uomo convinto di quel che faceva, una persona della quale una nazione poteva solo andare fiera: sulla sua pagina Facebook l’infermiere August Morel spiegava le sue ragioni per andare in Africa. Morel era un paramedico di Medici Senza Frontiere, si era reso subito disponibile per andare in Etiopia, da dove era giunta voce di un focolaio di febbre emorragica. Forse non si trattava della famigerata Ebola, ancora non era certo ma, come diceva Morel nel video, bisognava andare a vedere e aiutare la popolazione. Il paramedico, in pochi minuti, snocciolava una serie di buoni motivi che a dir poco potevano essere oggetto di beatificazione. Il video terminava con le immagini del luogo dove aveva colpito il virus: la valle dell’Omo.

    L’ebola o chissà quale altra immonda malattia non era però l’unico problema, la valle del fiume Omo era da qualche anno preda di scontri e notizie poco edificanti per il governo etiope. La costruzione di un’enorme diga aveva sì dato energia allo Stato ma anche devastato i popoli che vivevano a valle, che si erano trovati improvvisamente davanti al problema di una diminuzione di acqua, sia per le coltivazioni sia per il bestiame. Il governo aveva risolto la cosa con la mano pesante e all’occidente erano arrivate notizie di deportazioni di massa e di esecuzioni sbrigative degli oppositori.

    Ma all’occidente di qualche selvaggio non importava nulla, visto che la ditta costruttrice della diga era italiana e che dove l’acqua veniva deviata sarebbero nati terreni utili e fertili per i biocarburanti coltivati in genere da ditte cinesi. Il massimo della faccia di bronzo si era ottenuta quando la valutazione d’impatto ambientale, di una diga in Etiopia, era stata redatta da una ditta di Milano vicina alla società costruttrice. E vicina non solo geograficamente.

    Così va il mondo.

    Pierre non era contrario alla diga, era un’idea buona per avere energia, non si potevano fermare i benefici a milioni di cittadini per difendere quelli di poche migliaia, ma ci sono modi e modi, e alcuni sono criminali.

    Il risultato scontato era stato inevitabile: malumori all’inizio scontri alla fine.

    Dove il tempo sembrava essersi fermato e i popoli vivevano tali e quali da millenni, improvvisamente erano passati dalle frecce ai Kalashnikov.

    Quello che irritava, o forse divertiva Pierre, erano le flebili proteste di quei benpensanti che ritenevano i popoli della valle dell’Omo uomini liberi, rovinati dalla civiltà, che idiozia. Se quelle tribù fossero state così libere e paradisiache, come affermavano certi individui, perché nessuno di questi deficienti non si trasferiva da quelle parti? Certo, una bella vacanza organizzata con un buon tour operator, che ti porta per cinque giorni a vedere come vive un tuo lontanissimo cugino, fa tanto Indiana Jones. Poi di corsa alla tua odiata civiltà.

    Pierre si domandava quanta libertà avrebbe perso una donna di quei posti, vivendo a Parigi per almeno ottanta anni, studiando, lavorando e scegliendosi un compagno, invece di viverne all’incirca quaranta da quelle parti, con un piattino sempre più grande dentro un labbro fino a sformarti la faccia e passando la vita dentro una capanna, con un uomo che magari ti fa pure un po’ schifo.

    Sottigliezze.

    Per Pierre era altrettanto assurdo non intervenire ed emancipare quella gente per non rovinarne la purezza, maledetto perbenismo ipocrita. Per anni in quei posti erano arrivati solo i turisti a filmare quelle tribù come fossero scimmie, la civiltà stentava a farsi viva, e adesso qualcuno si era precipitato a riempirli di armi.

    Scuola e medicina no, i mitra sì.

    La mente di Pierre lasciò quelle elucubrazioni inutili e tornò a Morel, stimava persone come il paramedico, il mondo aveva bisogno più di gente come quelle che di soldati come lui. Era pronto a rischiare la vita per quell’uomo che aveva visto solo in due video.

    E già, il secondo video.

    L’equipe di Medici senza Frontiere era attrezzata per spedire video giornalieri, anche da quel buco di mondo nel quale si trovava, l’ultimo video, un filmato di meno di un minuto, era drammatico.

    Si vedeva Morel con la faccia sconvolta, che prendeva la webcam e la volgeva verso la tenda usata come ospedale, era tutto sottosopra, sembrava ci fosse passato un elefante infuriato. A fare più paura erano le macchie di sangue e gli squarci sulle pareti, non c’erano più i malati né i dottori, per un istante il volto serio e strano di una bambina, di non più di cinque anni, fece la sua comparsa poi il video tornò su Morel, la sua faccia, dopo quella scura della bambina, sembrava ancora più bianca.

    — Ci hanno attaccati, sono tutti morti. Ho bisogno di aiuto.

    La bambina si avvicinò a Morel, che subito la prese in braccio accarezzandola sulla testa.

    Abbiamo, bisogno di aiuto.

    Poi il video s’interrompeva bruscamente.

    Quella manciata di secondi aveva sconvolto il mondo, i video del campo medico venivano visti da un ristretto numero di persone ma, quasi per magia, quello di Morel era diventato virale in meno di un’ora. I due video erano stati visti da più di un miliardo tra PC e cellulari, senza contare che i telegiornali di ogni angolo di mondo non si erano fatti sfuggire la cosa. Chiedere l’intervento del governo Etiope era cosa vana, da quelle parti stavano avendo problemi anche prima della diffusione di quella che sembrava una febbre emorragica.

    In pochissimo tempo un furgone blindato, che poteva con molta fantasia passare come uno di turisti, era stato allestito per l’intervento. L’idea di usare gli elicotteri era stata scartata per ragioni logistiche, in quegli spazi aperti, se Morel era ostaggio di qualcuno sarebbe morto prima che gli elicotteri fossero atterrati. All’interno del blindato camuffato c’erano quattro militari e un quinto alla guida. Oltre le tute anti contaminazione batteriologica e i sacchi mortuari, aveva armi pesanti e un paio di barelle speciali nelle quali infilare i sopravvissuti, se ci fossero stati. Non avevano spazio per portare un numero maggiore di quelle barelle.

    I cinque militari erano uomini di poche parole, si erano subito intesi sul fatto che difendersi da un eventuale attacco, indossando quelle tute, era impossibile. Contro ogni direttiva, avevano estratto a sorte due di loro che ne avrebbero fatto a meno. L’uomo al posto di guida aveva i vetri antiproiettile e i filtri dell’aria, lui non doveva neanche scendere dal mezzo.

    Pierre non avrebbe indossato la tuta.

    Ogni tanto dava uno sguardo a quella terra dove l’umanità era nata, la sua vista si perdeva in quello spazio sterminato, era come guardare il mare, una terra meravigliosa dove la prateria arrivava fino al cielo. Pierre era nero come la pece, era stato parecchie volte nella terra dei suoi avi, ma preferiva Parigi. Era immune al mal d’Africa e ora sperava di essere immune anche a qualcos’altro.

    Erano diretti a nord del lago Turkana, dopo aver evitato di passare all’interno di Turni, poco prima di arrivare a Omorate, si diressero verso il fiume Omo e in meno di dieci ore dal loro arrivo in Africa erano sull’obiettivo. Ne erano passate meno di sessanta dal video con la richiesta di aiuto, con un po’ di fortuna Morel poteva essere ancora vivo.

    Prima di arrivare al campo medico incontrarono un villaggio di capanne, il blindato rallentò. Non era loro intenzione avere uno scontro ma erano pronti al peggio, a dirla tutta non avevano intenzione di incontrare nessuno, furono accontentati. L’atmosfera era strana e maledettamente preoccupante, proseguirono a passo d’uomo scrutando ogni angolo del villaggio, che poi cosa voi scrutare tra venti capanne? Non c’era nessuno, si vedeva benissimo che il villaggio non era abbandonato, i segni di vita erano evidenti, ma non c’era anima viva fuori dalle capanne.

    — Alain, fermati un momento — disse Pierre all’autista.

    — Non è nel nostro programma — protestò Alain. Attraverso l’altoparlante collegato alla cabina, la voce arrivò con un effetto metallico.

    — Non me ne frega nulla. Qui ci dovrebbero essere almeno una settantina di persone, possibile si siano rintanate nelle capanne? Di cosa hanno paura? Gli altri indosseranno la tuta, a scendere sarò solo io e se succede qualcosa tentate di salvarmi senza rimetterci il culo. Intesi?

    — Chi comanda sei tu.

    Pierre sapeva che quello che stava facendo era un azzardo assurdo, poteva mandare a puttane tutta l’operazione, ma lì ci dovevano essere anche i bambini. Se correva il rischio di farsi uccidere per August Morel, poteva permetterselo anche per un bambino.

    Scese dal blindato, i suoi compagni si richiusero dentro quando ancora non aveva poggiato entrambi i piedi a terra. Era senza tuta ma con elmetto e giubbotto antiproiettile, e un mitra in mano.

    — C’è nessuno? — Urlò in inglese, francese e in un amarico che avrebbe fatto ridere qualunque etiope.

    Nulla.

    Si avvicinò alla capanna più vicina e sbirciò dentro, poi velocemente c’infilò la testa pronto a ritirarla.

    Vuota.

    Passò cautamente alle altre, erano tutte vuote. Si guardò intorno: gli attrezzi di vita quotidiana erano ancora tutti là. A terra segni di pneumatici di un grosso veicolo, forse un trattore o una ruspa, cosa ci fosse andata a fare era un mistero.

    Mancavano solo gli uomini.

    No, anche gli animali.

    Entrò dentro una capanna e guardò meglio, dietro la schiena gli passò un brivido: erano macchie di sangue quelle?

    Le stesse macchie in altre capanne, meglio andare via.

    Risalito sul blindato vide che i suoi compagni stentavano a togliersi la tuta.

    — A parte che non ho toccato nulla e si ritiene che la contaminazione avvenga solo per contatto, tu Daniel te la devi togliere per l’operazione, come era nei patti, quindi non fare storie.

    Daniel si tolse la tuta con un certo malumore.

    Poco dopo erano al campo medico, mezza dozzina di tende e alcune vetture. Si fermarono e questa volta scesero tutti e quattro: Pierre davanti, i due con la tuta e una barella, dietro e ultimo Daniel. Pierre e Daniel erano armati, molto armati.

    La situazione però sembrava la stessa del villaggio.

    Pierre si chiese cos’era quel brivido che continuava a provare, non sembrava una situazione molto diversa da altre che aveva già vissuto. Si diressero subito alla tenda più grande, le altre sembravano vuote, due erano afflosciate a terra. Entrarono in tre, uno rimase di guardia all’esterno, si trovarono davanti alla stessa situazione del video, solo che Morel era steso su un lettino e sembrava morto, all’improvviso il suo corpo fremette, Pierre si avvicinò e gli toccò il collo facendo una smorfia.

    — Cazzo, non so quanto abbia di febbre, mettetelo dentro e andiamocene via da qui.

    I due con la tuta si sbrigarono a infilare Morel in quella specie d’incubatrice che avevano portato e si diressero verso il blindato. A momenti prese un accidente a tutti e quattro, quando improvvisamente si trovarono di fronte la bambina del video, Pierre rischiò di spararle una raffica di mitra. Era strana quella bimba, li osservava senza parlare, seria, la sua faccia non rivelava né paura né curiosità, li guardava e basta, o meglio, li fissava immobile. Pierre si avvicinò a lei, si chinò su un ginocchio per essere all’altezza della bambina, anche così era molto più alto di lei.

    — Come ti chiami? — Chiese in inglese con un sorriso.

    Per tutta risposta la bambina alzò una mano e gli toccò il volto, a lui sembrò una ricerca di affetto, ai suoi commilitoni una possibile trasmissione di un morbo mortale. Pierre non ci dette peso, tanto aveva già toccato Morel.

    — Vuoi venire con noi? Capisci quello che dico? — Chiese Pierre mentre i suoi tre compagni alzavano contemporaneamente gli occhi al cielo.

    La bambina fece un cenno di sì con la testa, ovviamente gli uomini non capirono a quale delle due domande avesse risposto, se ne accorse anche lei e disse in un inglese stentato.

    — Voglio rimanere con il mio papà.

    — E dove è il tuo papà?

    — Là — indicò con un dito.

    Pierre si alzò mentre Daniel strinse più forte il suo mitra.

    — Portami da lui — poi si rivolse agli altri — voi pensate a Morel.

    La bambina tese la mano a Pierre che la strinse e si fece condurre poco lontano, dietro una delle tende, un uomo era seduto sopra un masso, era così immobile da sembrare una parte del paesaggio, ecco perché forse non lo avevano notato, sulla faccia aveva un’espressione sconvolta. Cosa aveva visto quell’uomo per avere un simile sguardo? Sembrava aver pianto, i suoi occhi erano rossi, forse era solo malato.

    — Signore, mi capisce?

    L’uomo per tutta risposta prese tra le sue braccia la bambina stringendola, senza alzarsi dal sasso sul quale era seduto.

    — Signore, questa è sua figlia? — Continuò a chiedere in inglese Pierre.

    L’uomo fece un cenno di assenso, sembrava muto.

    — Capisce l’inglese?

    Finalmente si decise a parlare, la sua voce seppur profonda sembrava arrivare da un fantasma.

    — Capisco il francese, l’inglese e il tedesco — sul suo viso apparve un sorriso tra lo scherno e il disprezzo. — Non siamo del villaggio qui vicino, mi chiamo Kofi e lei è Nia, mia figlia, avevamo portato sua madre.

    S’interruppe come se fosse inutile continuare.

    — Cosa è successo? — Chiese Pierre, questa volta in Francese.

    L’uomo lo guardò in modo strano, poi fu travolto da un fremito e cominciò a piangere senza controllo, mentre la bambina prese ad accarezzarlo.

    — Perché io no? — Disse sconvolto, poi alzò la testa guardando negli occhi Pierre.

    — Andate via, scappate finché siete ancora in tempo.

    Poi stringendo a sé la bimba continuò a piangere ripetendo

    — Pourquoi moi no? Pourquoi moi no, pourquoi?

    La conversazione era conclusa e anche il tempo a disposizione, Pierre capì che oltre a essere impossibile far salire quei due sul furgone, loro si sarebbero rifiutati di farlo. Girò i tacchi, entrò sul furgone e ordinò di partire.

    Dove erano gli altri medici? E i malati? Possibile che non ci fossero nemmeno i corpi? E gli abitanti del villaggio?

    Se si fosse ripreso a quelle domande avrebbe risposto Morel, per ora se ne stava steso dentro la barella rabbrividendo di tanto in tanto, nel giro di poche ore sarebbe stato al sicuro in un ospedale parigino. Pierre pensò che avrebbe dovuto fargli compagnia per parecchio tempo, lui e Daniel chissà quale morbo si erano beccati. In ogni modo anche se fosse stato Ebola erano in tempo per essere curati efficacemente. Però Morel era sul posto da sei giorni e quindi non poteva essere Ebola, per quel poco che Pierre conosceva di quel virus non era in grado di ridurti in quello stato in così poco tempo, poi il contagio doveva essere avvenuto al massimo tre giorni prima durante l’attacco, Morel e quelli di Medici Senza Frontiere erano tutti personale esperto, non potevano essersi contaminati appena arrivati e anche così il tempo era lo stesso poco.

    Bah, un altro mistero.

    Si sentì battere su una spalla, Daniel gli indicò dei fumi in lontananza, cosa diavolo stava bruciando? La mente di Pierre volò subito ai villaggi. Avevano percorso poca strada ma erano perfino in anticipo sui tempi, avevano preso contatto con il comando della missione e li stavano aspettando con degli elicotteri un centinaio di chilometri dopo Turni, in una zona ritenuta sicura.

    — Vai verso il fumo più vicino, voglio vedere di cosa si tratta, senza avvicinarti troppo.

    — Agli ordini — rispose la voce metallica.

    Il blindato si fermò a un chilometro da quelli che sembravano degli enormi falò, Pierre scese dal veicolo, agilmente salì sul tettuccio e guardò attraverso un binocolo. Ancor prima di vedere gli arrivò l’odore di carne bruciata, abbassò il binocolo e respinse l’istinto di vomitare, ne aveva viste di cose brutte ma a tutto c’è un limite. Tre enormi cumuli di cadaveri stavano bruciando, grovigli di teste, braccia e gambe come in un girone dantesco. Quante persone erano? Almeno un centinaio a cumulo, dovevano esserci altri villaggi fantasma nei dintorni.

    Chi era stato e perché? Forse un modo di combattere il virus?

    Neanche un selvaggio farebbe una cosa del genere per fermare un virus, e chi lo aveva fatto non era un selvaggio, per una carneficina simile bisognava essere armati e organizzati. Sembrava avessero ucciso parecchi abitanti di quei dintorni, le parole di Kofi gli risuonarono in testa

    — Perché io no?

    Saltò giù dal furgone e rientrò.

    — Cosa sono i fuochi? — Domandò Daniel.

    — Via di qua, subito — fu la risposta urlata di Pierre.

    Malakal

    Saif si era svegliato bene quella mattina.

    La sera prima si era addormentato molto soddisfatto, aveva liquidato la donna, quasi una bambina, rimandandola a piedi al campo profughi, adesso, in tarda mattinata, era pronto per la sua giornata di lavoro. Era uno dei poliziotti, beh oddio, non proprio un corpo di polizia, una specie di guardia al campo profughi di Malakal, in quel marasma c’era bisogno di chi facesse rispettare un po’ di ordine. Il Sud Sudan, uno Stato di recente costituzione, era ricco di pozzi petroliferi, ma i continui scontri tra etnie ne facevano un inferno, dove buona parte della popolazione viveva in campi profughi, nei quali persone come Saif la facevano da padrone. Lui era convinto che se il paese fosse stato solo di pietre e sassi, senza una goccia di petrolio, la pace e l’armonia avrebbero regnato tra gli abitanti, in quel caso, però, lui avrebbe dovuto fare il pastore o zappare la terra.

    Meglio com’era ora.

    Come se non bastassero i cittadini ad affollare il campo, era un continuo arrivare di profughi dal sud che cercavano riparo prima di ripartire verso l’Europa, tutti dovevano sottomettersi alle richieste di Saif e dei suoi compari in affari.

    Vuoi un posto per dormire, mangiare e forse lavarti? Paga!

    L’unica cosa che turbava Saif era di non essere nato a Khartum, giungeva voce che da quelle parti gli affari fossero notevolmente migliori. I disgraziati diretti verso lo Yemen erano costretti a tornare indietro, cacciati a suon di bombe dall’Arabia Saudita, facendo diventare la rotta passante per Khartum frequentatissima.

    Bisognava accontentarsi.

    Sedare violentemente le frequenti liti tra i dinka, i scilluk e i nuer, pretendere un pagamento per qualsiasi servizio e scegliersi una donna per la notte era un duro lavoro, Saif lo svolgeva con un impegno quasi maniacale, al campo chiunque poteva lo evitava, anche i colleghi. Quella mattina, al suo arrivo, trovò un giovane con la divisa ad aspettarlo, non lo aveva mai visto, doveva essere una recluta, un ragazzino di venti anni senza nemmeno un pelo sul volto. Era sicuramente figlio di qualche persona importante, perché un tipo simile, in quel mare di dolore, non poteva essere dalla parte degli squali.

    Così andava il mondo e Saif era contento di questo.

    Il corpulento militare si guardò intorno, c’era uno strano silenzio e tutto sembrava calmo, troppo calmo. Il giovane lo salutò poi alzò gli occhi al cielo, Saif si voltò a guardare nella stessa direzione, in lontananza qualcosa volava alto. Prima di capire di cosa si trattasse arrivò il rumore di un elicottero. Era un mezzo militare, molto grande, Saif si aggiustò la fondina della pistola, incerto se aspettare o andarsi a imboscare da qualche parte, l’arrivo dei militari di solito non era mai una buona cosa. L’elicottero si posò a terra con un’eleganza insospettata per le sue dimensioni, ne scesero un paio di uomini, non erano in divisa.

    Sta a vedere che sono solo due politici di merda.

    Saif s’impettì come un pavone, pronto a dimostrare la sua autorità verso quei due civili sconosciuti. Due cose però non gli quadravano, uno dei due sembrava un pezzente, uno di quelli che di solito arrivavano a piedi dall’Etiopia, non certo sopra un elicottero militare e, ancora più strano, una discreta folla si era radunata davanti al campo, i profughi quando vedevano i militari si nascondevano anche sotto terra. Allora perché tutta quella gente, perché gli sembrava che stessero tutti guardando lui? Si avvicinò alla giovane recluta, come per cercarne riparo o forse solo per fare squadra, a proposito: dove erano gli altri? All’improvviso un senso di paura lo avvolse insieme a un sudore freddo, quella mattinata non sembrò più tanto piacevole. Scoprì di essere circondato dalla folla, un cerchio che si apriva solo in direzione delle due persone scese dall’elicottero, lui ne era il centro. La folla era distante una ventina di metri, eppure sembrava soffocarlo.

    Com’era possibile?

    Lui di solito girava tra quella gente come un leone fra le zebre, lo avevano sempre evitato e adesso invece lo stavano guardando fisso. Cos’era successo, e chi erano quei due? Ormai erano davanti a lui, cinque o sei metri di distanza. Saif vide la folla chiudere il cerchio dopo il loro passaggio, sentì la voglia di urlare, un’insensata voglia di urlare. Se lo stava immaginando o il cerchio della folla si stava stringendo? Era una bella mattinata di cielo sereno fino a poco prima e adesso gli mancava l’aria. Decise di prendere la pistola e ammazzarne due o tre, per vedere se quei topi si sarebbero allontanati, si girò per dire alla recluta di fare lo stesso. L’ultima cosa che vide fu la pistola del giovane che s’illuminava davanti ai suoi occhi, il proiettile rimbalzò dentro la scatola cranica parecchie volte prima di fermarsi, facendo del cervello un frullato. Non era comunque un posto dove avevano albergato grandi pensieri.

    La folla guardò l’aguzzino cadere pesantemente a terra, poi tornarono tutti alle proprie attività senza dire una parola. I due scesi dall’elicottero si avvicinarono alla giovane recluta che stava rimettendo a posto la pistola.

    — Faceva schifo prima figuriamoci adesso — disse lui indicando con uno sguardo sdegnato il cadavere di Saif.

    — Immagino — gli rispose quello più giovane dei due, — per un istante ho temuto che lo volessero mangiare — aggiunse con un sorrisetto.

    — Nemmeno in quel caso avrebbe sofferto quanto meritava, ma non siamo bestie come lo era lui.

    — Il campo? — Chiese l’altro, il suo viso era serio, austero.

    — Il campo è libero, ci sono trecento trentasei corpi da bruciare — disse il ragazzo — trentasette — aggiunse guardando a terra.

    — Solo trecento trentasette su migliaia di persone? — Chiese stupito l’uomo più giovane.

    — Perché? È strano?

    — Ragazzo, da altre parti sono di più, molti di più.

    I due fecero un cenno di saluto e si diressero verso l’elicottero.

    — Dove state andando? — Chiese salutandoli.

    — A nord.

    Lampedusa

    Hamid aveva solo venti anni e non aveva mai sentito una trepidazione come quella, finalmente vedeva la costa, sapeva che quella era una piccola isola ma pur sempre l’Europa. Era partito mesi prima dal sud del Sudan, ma partito era una parola stupida, era scappato attraversando il deserto con mille peripezie fino ad arrivare in Libia. A ogni sosta nei campi profughi, ogni passaggio, ogni frontiera o poliziotto incontrato aveva dovuto pagare e i soldi, che la sua famiglia aveva messo da parte per farlo andare via, erano finiti da tempo.

    A partire erano stati in molti e in pochi ad arrivare. Qualcuno si era fermato, altri avevano cambiato percorso per una delle tante vie prese dai disgraziati per trovare un posto migliore dove vivere, altri ci avevano lasciato la pelle. Si sapeva che sarebbe stato così, ma si scappava lo stesso. L’ultimo ostacolo era stata la Libia, i traghettatori pretendevano denaro o la schiavitù, Hamid dovette impegnarsi per lavorare in Italia come uno schiavo per parecchio tempo. Poi, il giorno prima della partenza era arrivato un gruppo di migranti, tutta gente silenziosa e strana. Avevano detto di arrivare dalle stesse parti dalle quali era arrivato lui, ma non era possibile, lui era arrivato stremato, questi invece sembravano aver fatto il viaggio in aereo, avevano persino i vestiti puliti. Gli schiavisti li avevano accolti con il solito disprezzo, ma i più malvagi erano stati fermati nei loro soliti eccessi da alcuni degli stessi compari, c’era sicuramente del denaro di mezzo.

    La mattina seguente gli avevano detto di prepararsi, sarebbe partito con quegli uomini, il mezzo di trasporto era un gommone ridotto neanche troppo malamente, non erano nemmeno in tanti e il motore, nuovo di zecca, sembrava molto potente. Hamid era rimasto sorpreso di questo, aveva visto imbarcazioni partire cariche fino all’inverosimile e con motori talmente usurati che i remi avrebbero fatto di meglio, loro erano solo una ventina e partirono a razzo. Erano tutti uomini, tutti giovani e tutti silenziosi. Hamid era anche un poco in soggezione, sembrava che tra loro si conoscessero tutti, mentre lui era il solo estraneo, poco male, una volta a terra ognuno avrebbe pensato per sé. Solo che quegli sguardi strani mettevano i brividi, avrebbe fatto volentieri a meno di essere guardato da quegli uomini. Poi durante il tragitto sembrò che le cose si mettessero meglio, i suoi compagni di viaggio non sembravano più tanto strani, nemmeno i loro sguardi.

    Si sbagliava.

    Arrivati a un certo punto della navigazione fermarono il gommone e sganciarono il motore facendolo affondare, Hamid si mise a urlare ma gli dissero di stare calmo e che sapevano cosa stavano facendo. Lui pensò che adesso sarebbero ricorsi al telefono satellitare e avrebbero chiesto aiuto, invece si misero in quattro ai remi dirigendo il gommone lentamente, sapevano il fatto loro perché poco dopo si vide la terra ferma, ma le sorprese non erano finite. Quello che sembrava il capo gli si avvicinò.

    — Sai nuotare? — Gli domandò.

    Hamid fece cenno di no con la testa, lui odiava l’acqua e il mare lo aveva visto per la prima volta solo quando era arrivato in Libia.

    — Stammi vicino e aggrappati a me — detto questo l’uomo con un coltello cominciò a squarciare il gommone.

    Morirò.

    Fu il pensiero di Hamid che fino a pochi secondi prima aveva sentito una gioia incontenibile. Perché stavano facendo questo, altri venti metri e sarebbero arrivati. Cominciarono a urlare tutti, la notte era scesa da poco e tutte quelle luci sulla costa erano il paradiso, mentre sotto di loro si aprivano le porte dell’inferno. Cominciarono a gettarsi in acqua.

    Oh, Signore com’è fredda, come la morte.

    Hamid piangeva mentre cercava di non affogare, andava giù e il compagno al quale si era aggrappato lo ritirava su dicendogli cosa doveva fare, ma lui non lo stava più a sentire, aveva bevuto e stava tossendo, più tentavano di farlo mettere disteso con la faccia fuori dall’acqua, più lui finiva sotto. Perse la presa del suo compagno, disperato tirò fuori la testa dall’acqua per respirare ma riuscì solo a bere una grande boccata dell’onda che lo travolse. Pensò ai sacrifici della sua famiglia per mettere insieme i soldi per dargli un futuro, a tutte le angherie sopportate, le offese, le umiliazioni per poi finire così. Era stato tutto inutile, come lo era adesso piangere sotto il mare.

    Intanto dalla riva, appena sentite le grida, erano partite alcune barche di pescatori. Da quelle parti ne avevano fin sopra i capelli dei migranti, ma un uomo in mare è solo un uomo in mare e ogni pescatore sa cosa deve fare.

    Hamid si sentì tirare in alto e fu issato di peso su una piccola imbarcazione, sputò tutta l’acqua che aveva nei polmoni e tirò un respiro profondo, era bramoso di aria, non aveva mai pensato che respirare fosse tanto bello.

    Poi aprì gli occhi e iniziò a

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