Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Profumo di mimosa
Profumo di mimosa
Profumo di mimosa
E-book1.114 pagine14 ore

Profumo di mimosa

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Il romanzo, che racconta la vita di un gruppo di amici, è diviso in tre parti distinte nelle quali cambiano l’età dei protagonisti e le tematiche trattate. La prima parte narra degli amori adolescenziali e dell’orrore davanti la morte, la seconda della difficile scelta tra vendetta e giustizia, la terza dei diritti delle famiglie arcobaleno e della pretesa di limitare l’amore per legge.
Omicidi, amori e disamori, fenomeni da baraccone e bambini contesi cercheranno di smuovere molte risate e qualche lacrima.
Le ultime vicende sono ambientate nel 2008 ma a oggi, gennaio 2024, poco è cambiato per i figli delle coppie omosessuali.
LinguaItaliano
Data di uscita14 giu 2018
ISBN9788828336389
Profumo di mimosa

Leggi altro di Luciano Balzotti

Correlato a Profumo di mimosa

Ebook correlati

Thriller per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Profumo di mimosa

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Profumo di mimosa - Luciano Balzotti

    Profumo di mimosa

    di

    Luciano Balzotti

    A mio padre

    Prima parte

    Profumo di mimosa

    1975

    1

    Il burattinaio

    Nel tempo aveva imparato, era diventato un ladro di corpi esperto. Aveva però scoperto che non era facile scatenare il fenomeno, doveva volerlo fortemente, e l’ospite doveva essere a portata di vista. Non poteva farlo con tutti, con alcuni non ci riusciva. Infine, gestire due corpi per più di pochi minuti, si era dimostrato impossibile.

    Aveva fatto alcuni esperimenti, aveva scoperto che l’ospite non si accorgeva di niente, alla sua uscita manifestava un leggero giramento di testa e non ricordava nulla, una volta una sua compagna di classe era crollata a terra battendo la testa. Con il tempo, questa specie di potere, aveva cominciato a dare una sensazione di fastidio e non lo usava quasi mai, aveva paura che l’altro o l’altra si facessero male. Era passato quasi un anno dall’ultima volta, non voleva più fare del male a nessuno.

    Puoi farti tutte le promesse che vuoi, darti dei confini, ma quando arriva quell’età nella quale il tuo corpo comincia a cambiare, devi arrenderti. Anche se riesci eroicamente a tener ben nascosta la tua diversità agli altri, non puoi nascondere a te stesso la voglia impetuosa, che gli ormoni scatenano all’interno del tuo corpo.

    La curiosità di vedere da vicino come fosse fatto l’altro sesso, era qualcosa difficile da soffocare, morbosa e, per questo, ancora più irrefrenabile. Certo c’erano i fumetti, qualche rivista osé, ma mica era facile averli tra le mani. Poi, non era la stessa cosa. Doveva assolutamente vedere, toccare. Poteva farlo facilmente e allora perché no? Aveva resistito tutto l’inverno. Ora che aveva rivisto il suo amore segreto, si erano agitate tutte quelle voglie sopite. Doveva farlo, un attimo solo.

    L’ospite scelto si affacciava tutte le mattine alla finestra del bagno per chiuderla, aspettò che accadesse. Fu sorprendente la facilità con la quale prese possesso del corpo. Non perse tempo, spogliò l’ospite e l’ispezionò per bene. Proprio là, tra le gambe. Cos’era tutta quella roba? E tutti quei peli?

    Come siamo diversi!

    Esitò prima di toccare con delicatezza, quasi con timore. Sentì il corpo dell’ospite reagire in modo strano. Cosa si aspettava? Era o non era una parte delicata? L’imbarazzo prese il sopravvento, rivestì frettolosamente l’ospite e uscì dal corpo. La morbosità si era tramutata in vergogna per quello che aveva fatto, sentì il volto avvampare. L’altro sesso non era come si aspettava, magico e desiderabile.

    Faceva schifo.

    2

    Un pomeriggio al sole

    Erano le tre di un pomeriggio di un giorno di agosto del 1975. Se ne stavano seduti entrambi con le gambe rannicchiate al petto, l’ombra dell’enorme platano si stava spostando e non gli consentiva più di allungarle. Si erano arrampicati sul tetto di una casupola del comune, che custodiva non sapevano bene che tipo di tubatura. Il tetto di cemento era spiovente, alla sommità una specie di muretto verticale sembrava fatto apposta per poggiarci la schiena. L’ombra però arrivava fino ad un certo punto, oltre il sole picchiava peggio di Chinh-Hao in Cinque dita di violenza, le cicale cantavano senza soluzione di continuità e tutto era immobile. Non tirava un soffio di vento, sembrava che anche il tempo si fosse lasciato andare, riposando all’ombra di qualche albero, stanco del continuo trascorrere di se stesso.

    Adriano si divertiva a sputare sul cemento assolato, guardando quanto tempo ci metteva lo sputo a evaporare senza lasciare traccia.

    — La fai finita — gli disse Luciano

    — Porca vacca, guarda come frigge — rispose Adriano dopo aver sputato di nuovo.

    — Ma che schifo.

    — Oh, neanche dieci secondi. Che dici se ci piscio, riesce a colare sotto prima di evaporare?

    — Non ti azzardare a tirare fuori il pisello. Almeno prima fammi scendere, non mi va di passare sul tuo piscio.

    — Tanto evapora.

    — E chi se ne frega. Non ci passo sopra uguale.

    — Vabbè, lasciamo stare. Era un interessante esperimento scientifico. Mi tarpi le ali — disse Adriano riprendendo a sputare.

    — Non ti si secca mai la lingua?

    — In effetti ho sete. Andiamo a cercare gli altri?

    — Le gentil donzelle staranno chiuse in casa, il sole rovina loro le vellutate carni, mentre Sergio è sicuramente già a casa di Riccardo e se non sono le cinque non escono.

    — Ma che fanno in casa? Non si annoiano?

    — Sergio starà aiutando Riccardo a costruire qualche diavoleria elettronica, e le femmine dormono o leggono.

    — Vabbè dormire, ma leggere…

    — Per te le cose sono collegate: non puoi fare la seconda senza finire per fare la prima.

    — Stai sui libri tutto l’inverno che senso ha starci pure l’estate — si lamentò Adriano.

    Avevano quattordici anni, entrambi portavano una T-shirt, pantaloni corti e sandali. C’era stata una lunga discussione e una difficile scelta, i pantaloni corti li facevano sembrare ancora bambini, ma faceva talmente caldo che avevano rinunciato di comune accordo a indossare i jeans. Luciano era un ragazzo moro molto robusto, quasi grasso. Adriano era l’opposto, biondo e sebbene non molto più alto di Luciano, sembrava molto più slanciato, il suo corpo era meno tozzo di quello del suo amico. Entrambi portavano i capelli lunghi fino a ricoprire le orecchie, ma quelli di Luciano davano un’idea di ordine, mentre quelli di Adriano sembravano non aver visto un pettine da giorni. Entrambi parlavano con un forte accento romanesco, specialmente Adriano.

    — Certo che se Riccardo non avesse Sergio sarebbe un problema per lui. Praticamente gli fa da baby-sitter.

    — Dio li fa e poi li accoppia, non so chi abbia più bisogno dell’altro. Io, se fossi Riccardo, mi sarei ucciso — disse Adriano, sempre con il sorriso sulle labbra, ma con una nota di puro terrore nella voce.

    — Non lo dire. Come puoi saperlo.

    — Preferisco morire che rimanere storpio. Una vita su una sedia! Come diavolo fa a resistere.

    — Si è trovato un hobby che lo soddisfa, studia con profitto e ha degli amici che non gli fanno pesare il fatto di non poter camminare. E soprattutto non lo definiscono storpio.

    — Mia madre lo chiama infelice — disse Adriano.

    — Si dice handicappato — precisò serio Luciano.

    — Devo dire che infelice è proprio brutto, ma pure handicappato non si può sentire. Storpio non è una parolaccia. Qualunque parola si adopera, comunque, non gli ridarà l’uso delle gambe.

    — Forse neanche tua madre ha tutti i torti. Anche se Riccardo si sforza tremendamente per sembrare contento, si vede benissimo che soffre per la sua situazione.

    — Lo vedi che mi dai ragione.

    — Mica si è ammazzato come avresti fatto tu.

    — E solo una mancanza di coraggio.

    — Coraggio per ammazzarsi o per continuare a vivere?

    Adriano fissò Luciano quasi sorpreso.

    — Sei bravo con le parole. Uno a zero per te.

    — Senza considerare che Riccardo è molto intelligente, vedrai che la mancanza delle gambe non basterà a fermarlo, nella vita avrà più successo di noi due.

    — Non è che le gambe gli manchino, le ha ma non funzionano, magari con qualche nuova medicina. Chi lo sa?

    — Lui non ne parla mai, ma mi sembra di aver capito che non ci sia molto da fare. Anche lui ha perso le speranze, altrimenti invece dell’elettronica si sarebbe dedicato alla medicina.

    — È vero — disse ridendo Adriano — è possibile che le gambe se le costruisca, scommetto che ci ha pensato.

    Rimasero silenziosi per qualche minuto, quasi per digerire il discorso troppo serio per due monellacci come loro.

    — Lo sai che diavolo ha fatto alle gambe? Anna ha accennato a un incidente, ma quella apre bocca e le dà fiato senza preoccuparsi cosa ne esca — domandò Adriano.

    — Non lo so. Non so nemmeno se è nato così. Sicuramente lo sa Sergio, dopo tutto sono di qui tutti e due, si conoscono da sempre. Quanti anni sono che veniamo in vacanza qui? Io almeno una decina, diciamo che conosco Riccardo da almeno cinque o sei anni, lo ricordo sempre sulla sedia a rotelle.

    — Sì, anch’io l’ho sempre visto su quella maledetta sedia.

    — È strano, non glielo abbiamo mai chiesto. Dovremmo chiederlo a Sergio.

    — L’ho fatto — disse Adriano.

    — E che ti ha detto? — chiese sorpreso Luciano.

    Adriano cominciò a contorcersi e fare strani scatti con le mani, poi emise un suono gutturale. Tutti e due scoppiarono a ridere.

    — Quanto sei stronzo. Però lo imiti bene. Che figura faresti se ti vedesse?

    — Qualche volta mi è scappato, mi sono sentito un verme. Eccone un altro che non capisco come faccia a non buttarsi da un ponte.

    — Ah, ma allora sei tu quello strano. Sergio ha solo qualche tic.

    — Qualche tic, eh? — Adriano lo guardò serio per un istante poi ripeté l’imitazione di Sergio tale e quale a prima. Risero fin quasi alle lacrime.

    — Sei proprio stronzo. Povero Sergio — disse Luciano asciugandosi gli occhi.

    — Allora perché ridi?

    — Chi va con lo zoppo…

    — È l’inizio di un proverbio, o stai parlando ancora di Sergio e Riccardo.

    — E falla finita. Insomma che ti ha risposto Sergio, che ha fatto Riccardo alle gambe?

    — Te l’ho fatto vedere poco fa cosa mi ha risposto, è diventato rosso e ha cominciato a fare versi strani. Non ho avuto il coraggio di ripetere la domanda. Magari è una cosa che Riccardo non vuol far sapere. Sergio, che è legato a lui come un fratello, si è sentito in difficoltà. Lo sai cosa succede quando Sergio è in difficoltà.

    — Uh! — fu la risposta di Luciano.

    — Che poi mi domando perché si impunti sulle parole. Per esempio, l’altro giorno doveva dire papà, ci ha messo una vita e uno sforzo bestiale. A parte il fatto che quando cominci a dire pa-pa-pa-pa, la parola l’hai già detta, se vedi che non ci riesci, fermati e trova un’alternativa: padre… no, lì si sarebbe bloccato di nuovo sul pa, genitore, marito di mamma, figlio di nonno. Che ne so. Possibile che ti impunti nel voler dire una cosa che non ti riesce.

    — Credo proprio che non lo faccia apposta.

    — E allora perché quando canta non si impiccia mai? Per non parlare di come suona la chitarra, non gli vengono mai i suoi famosi tic in quei momenti? Potrebbe andare in giro con una chitarra in mano e parlare cantando.

    — Come la fai facile.

    Adriano fece finta di suonare una chitarra e si mise a cantare

    — Blam blam blam, ciao come va oggi? blam blam, è veramente una bella giornata, blam blam. Te lo immagini? Sarebbe uno spasso.

    — Già lo prendono in giro così. Specie quello stronzo di Fernando.

    — Quello è veramente odioso. Se ne approfitta perché è grande e grosso, ogni volta che lo incontra lo tormenta.

    — Li tormenta, vuoi dire. Sia Sergio che Riccardo. Anna mi ha detto che ha fatto battutacce anche su Simona.

    Sul solare viso di Adriano passò un velo d’ombra.

    — Se le dice qualcosa davanti a me, finisce male.

    — Guarda che è veramente grosso e ha due anni più di te. Poi gira sempre con quegli altri due.

    — Una testa di cazzo e due coglioni. — Ripresero a ridere di gusto.

    L’ombra si stava ritirando, non riusciva più a coprire la punta dei piedi, tra poco sarebbero dovuti scendere se non volevano fare la fine degli sputi di Adriano.

    — C’ho i collicioni potti.

    — Che? —

    — C’ho i pollicioni cotti.

    — Si chiamano alluci.

    — Allucinogeno allora ha che fare con i pollicioni?

    — Sì. La puzza dei tuoi da le allucinazioni — disse Luciano scendendo a terra con un salto. Adriano lo seguì sorridendo.

    — Perché non sai delle mie scoregge.

    — Non ci tengo. Falle sentire a Simona.

    — Le femmine non apprezzano codesta arte — disse serio Adriano, poi dubbioso aggiunse — secondo te le femmine scoreggiano? Forse più dei maschi, è per quello che usano tutto quel profumo. — Luciano intanto lo guardava e rideva.

    — Io, Anna che scoreggia non ce la vedo proprio.

    — Ti credo, magra com’è, potrebbe esserle fatale. — E giù altre risa.

    — Pensa, una scoreggia come ultimo atto della vita. Prrrrrr. — Fece Adriano facendo finta di afflosciarsi.

    — Per te sarebbe anche il riassunto della tua esistenza.

    — No, la mia sarebbe molto più forte. Così. — Fece un pernacchione gigantesco, agitando le mani come per simulare un terremoto. Le cicale si azzittirono. Il silenzio fu accolto con scrosci di risa incontenibili.

    Erano lungo la via che conduceva al paese, intorno solo campagna, in alto la montagna e il bosco. Definire montagna una cosa alta neanche mille metri era un tantino eccessivo, ma essendo la cosa più elevata nei dintorni, quell’appellativo se lo poteva permettere. Poi dire che si vive ai piedi di una montagna non fa lo stesso effetto di dire ai piedi di una collina. Il bosco c’era, l’inverno nevicava e faceva un freddo cane. Quindi era montagna, e basta. Il paese di Passombroso era in quell’angolo di terra che non è più Lazio senza essere ancora Toscana o Umbria; la celeberrima campagna italiana, dove si vive bene e a lungo, perché il mangiare è sano e l’aria buona. Almeno così recitano tutte le guide.

    Sergio e Riccardo erano nati là, e sembrava che l’aria del luogo non avesse fatto loro tanto bene. Luciano, Adriano e le tre ragazze, invece erano villeggianti, così almeno erano chiamati. I villeggianti, per un motivo o un altro, avevano una casa nel paese nella quale passavano almeno una parte delle vacanze estive. Nel corso degli anni tra quei sette ragazzi si era formata una intesa speciale, quei giorni insieme rappresentavano una specie di isola del tesoro. Non c’era nessun legame duraturo, solo quelle cinque o sei settimane all’anno, nelle quali stavano insieme tutto il giorno pensando solo a divertirsi. Forse era quello a farli sentire uniti, la comune spensieratezza di quei pomeriggi buttati a non fare niente, aspettando la sera. Il ritrovarsi dopo un anno e sentirsi uguali a prima, anche se si era più alti e i denti caduti erano rinati più grandi. Poteva succedere di tutto, ma nessuno doveva toccare la loro vacanza a Passombroso. Il tempo poteva passare, ma quei giorni dovevano rimanere fermi, uguali per sempre. Cos’è la gioventù se non il lusso di poter sprecare il tempo. Lo stesso tempo che avrebbe trasformato quel lusso in illusione, poi l’illusione in disincanto e infine lo stesso disincanto in rassegnazione. Ma questo non sarebbe mai successo, non a Passombroso.

    Per quei ragazzi le loro vacanze erano sacre più di ogni altra cosa, il giusto riposo dopo le fatiche della scuola. Con chi passarle nel modo migliore se non con degli amici, che vedi solo in quei giorni e ai quali non devi giustificare nulla?

    Adriano e Luciano arrivarono fin alle prime case del paese, passandosi con i piedi un sasso come fosse un pallone di calcio. Non incontrarono nessuno, neanche una macchina di passaggio. Faceva veramente troppo caldo per avventurarsi in strada.

    3

    Al bar

    Anna, Simona e Isabella stavano andando a prendersi un gelato. Non lo facevano spesso, per lo più passavano il tempo nel piazzale vicino la casa di Anna. Più che un piazzale era uno slargo fra alcune costruzioni, prima di una lunga scalinata che portava in basso alla casa di Isabella, dietro la quale, ancora un po’ più in basso, c’era quella di Sergio. Nel piccolo spiazzo si arrivava da casa di Riccardo senza dover fare neanche uno scalino, anche per questo era stato scelto come posto naturale di raduno. Non era molto grande, ma ci si poteva giocare a carte comodamente, le automobili non potevano arrivarci, ci passava poca gente ed era sempre all’ombra.

    Per le tre ragazze però, quel pomeriggio, faceva veramente troppo caldo; decisero che un gelato ci sarebbe stato proprio bene. Avevano lasciato la loro tana intavolando un serissimo discorso su chi fosse il cantante più bello.

    Le tre non potevano essere più diverse una dall’altra.

    Simona portava un cappellino di paglia e un vestito a fiori di almeno una dozzina di colori, dei quali il meno acceso era il giallo canarino. Il cappello non nascondeva la sua frangetta e da dietro usciva una cascata di lunghi capelli neri, alle orecchie due pendagli che arrivavano fin quasi alle spalle e sul collo una serie di collane di perline variopinte. Il vestito le arrivava fino alle caviglie, la parte superiore, nonostante fosse sbottonata fino al possibile e a dispetto dei tredici anni di Simona, conteneva a malapena un seno prorompente; sotto i fianchi si allargava in una gonna che dava l’idea di potersi aprire fino a diventare un paracadute; ai piedi dei sandali di cuoio.

    Isabella vestiva con il minimo indispensabile: una maglietta, un paio di shorts e sandali. Da sotto la maglietta traspariva un reggiseno che aveva ben poco da reggere. I suoi capelli erano raccolti in due trecce bionde, chiuse con due elastici di colori diversi.

    Anna indossava un paio di Jeans lunghi e una camicetta color rosa pallido, abbottonata fino all’ultimo bottone. Da sotto non traspariva nulla, anche perché non c’era nulla da far trasparire, aveva rinunciato anche a mettere il reggiseno. Portava i capelli, castano scuro, raccolti in una corta coda di cavallo.

    Anna era la più grande delle tre, quasi quindici anni ed era anche la più alta. La sua allarmante magrezza la faceva sembrare anche più lunga di quello che era.

    — A me piace anche il cantante dei Cugini di Campagna — stava dicendo proprio Anna mentre camminavano.

    — Chi quello con quella vocina? — ribatté Simona ridendo, — secondo me non è nemmeno del tutto uomo. Io preferisco Drupi, quello sicuramente è tutto maschio.

    Sottolineando la parola maschio.

    — Che c’entra, è proprio la vocina che mi fa tenerezza, poi mi piacciono i capelli. — disse Anna.

    — Allora è sicuramente meglio Battisti oppure Cocciante.

    — No, no. Cocciante è proprio brutto — disse Isabella. — Io preferisco Baglioni.

    — Beh, proprio bello non è.

    — Però canta bene. Io mi accontenterei — insistette Isabella.

    — E del cantante dei Camaleonti che ne dite? — domandò Anna.

    — Chi? quello con i baffoni? — chiese sorpresa Simona.

    — No. Il cantante… l’altro, quello senza i baffi.

    — Ho capito, ti piacciono i bambolotti.

    — E dai, ammettilo piace anche a te.

    — A carino, è carino — ammise Simona — ma per me deve essere un po’ più rude, più uomo. Tipo Terence Hill.

    — Non vale — urlarono insieme Isabella e Anna. — Avevamo detto solo cantanti.

    Ci fu un minuto di silenzio, rotto da Isabella che disse solo tre lettere.

    — Mal!

    Le tre ragazze non dissero più niente. I loro occhi si levarono al cielo insieme a tre languidi sospiri, testimonianza del turbamento che quel nome portava ai loro cuori straziati e afflitti da un cantante giunto da terra straniera.

    Dopodiché le tre si guardarono in faccia ed esplosero in una risata collettiva che le portò quasi alle lacrime.

    Arrivarono davanti a uno dei tre bar della via principale, proprio mentre arrivavano anche Adriano e Luciano.

    — Che meravigliosa vista per le mie pesche fusille, tre deggiadre lonzelle — disse Adriano, poi continuò a parlare tra sé e sé ad alta voce facendo finta di essere confuso — Non erano pesche erano fosche… e le lonzelle? No, no forse donnelle… no, nemmeno questo…

    — Falla finita — gli disse Anna ridendo.

    I cinque si riunirono in gruppo, salutandosi.

    — Dove siete andati di bello? — chiese Simona ai due ragazzi.

    — Siamo andati prendere un po’ di more, ma Luciano ha detto che preferisce le bionde e siamo tornati indietro.

    Luciano arrossì subito violentemente e colpì con una piccola spinta di rimprovero Adriano. Anche Isabella arrossì mentre le labbra accennavano a un sorriso.

    — Ma non è troppo presto per le more? — domandò ingenuamente Anna, che non aveva capito il gioco delle allusioni.

    — No, no. Adriano ha detto che ne ha vista una che sta proprio al punto giusto — disse Luciano con una punta di veleno, guardando fisso Adriano con un’aria di vendetta. Il ragazzo biondo rispose con un sorriso da birbante, fu Simona a colpire Luciano con una spinta, non troppo amichevole, su una spalla.

    — Ahi — protestò Luciano mentre le tre ragazze, trascinate da Simona, si incamminarono verso il bar.

    — Ti sta bene — disse Adriano

    — A momenti mi scavicchia una spalla — si lamentò Luciano, mentre insieme all’amico si accodava alle tre ragazze.

    Quando le tre entrarono nel bar, i ragazzi rimasero sorpresi, non avevano soldi in tasca e aspettarono che le ragazze uscissero. Non vedendoli entrare Isabella fece capolino dall’entrata.

    — Noi ci prendiamo un gelato, voi non volete nulla?

    — Potrei farti vedere le mie tasche vuote, ma mi vergogno perché in una c’è un grosso buco e nell’altra ci vive un ragno — le rispose Adriano.

    — Dai offro io. Tu, Luciano?

    Luciano sentì il suo cuore accelerare per la vergogna, aveva anche lui le tasche vuote, ma mai e poi mai si sarebbe fatto offrire qualcosa da Isabella. Non era così che dovevano andare le cose.

    — No, non mi va niente.

    — Ma dai! Una Coca cola?

    — No, non ho sete — sembrò falso anche a lui mentre lo diceva.

    — Almeno entra a farci compagnia — disse Isabella facendo finta di mettere il broncio. Facendolo sembrare uno sforzo Luciano entrò nel bar, lei lo prese sottobraccio e lo accompagnò al tavolo dove si erano seduti gli altri. Adriano li guardò arrivare pensando che Luciano, sottobraccio ad Isabella, sarebbe andato felice anche al patibolo.

    — Mario, — disse Isabella rivolta al barista — ci porti anche una Coca Cola grande e cinque bicchieri.

    — Ma Isa… — stava per protestare Anna.

    — Non ti preoccupare, la pago io — la interruppe Isabella.

    Luciano la guardò incapace di cosa pensare. Si sentì uno stupido, se avesse accettato il gelato lei avrebbe speso di meno. Accidenti a lei, era ricca sfondata e lui non aveva neanche i soldi per comprarsi un pacchetto di figurine. Comunque aveva sete e rimandò i pensieri a dopo.

    Il bar in realtà era un’osteria. Intorno allo stesso tavolo, da lì a poche ore, si sarebbero seduti a giocare a carte degli allegri vecchietti, per i quali il mondo partiva da un bicchiere e finiva con il sette di denari. L’odore del locale era più quello di una cantina che altro, loro però lo preferivano agli altri due bar, perché era un luogo tranquillo, anche di sera, se si escludevano le bestemmie e le battutacce dei giocatori di Scopone e Tresette. Gli altri locali erano frequentati da giovani e, strano a dirsi, quei cinque si trovavano più a loro agio con i vecchi che con i ragazzi della loro età.

    — Sergio e Riccardo? — chiese Simona tirando fuori dalla bocca il ghiacciolo alla fragola.

    — Staranno costruendo qualche diavoleria elettrica — rispose Luciano.

    — Prima o poi prendono la scossa e Sergio comincerà a parlare normalmente — disse Adriano.

    — Non sei spiritoso — lo rimproverò Anna.

    — Guarda che in America ai pazzi gli danno la scossa per farli tornare normali. Si chiama shock elettrico — disse Adriano.

    — Ti confondi con la sedia elettrica. Dopo il trattamento il matto non è normale, è morto — lo prese in giro Luciano.

    — Sergio non è matto — disse Isabella

    — Si chiama elettro-shock e lo hanno inventato due italiani e non gli americani, l’ho studiato in una ricerca a scuola — precisò Anna.

    — E funziona? — chiese Isabella.

    — No, ma fa venire dei boccoli stupendi — le rispose Adriano con la voce in falsetto, facendo ridere tutti.

    Dopo qualche secondo di silenzio Adriano disse a Simona

    — Hai un bel vestito.

    — Ti piace? — cinguettò lei tutta contenta.

    — Per me è un po’ troppo vistoso — disse Anna con una punta di invidia.

    — Anche la tua camicetta e carina, — disse Adriano consapevole che ogni suo complimento a Simona era un problema per Anna — solo che il vestito di Simona e più… più… —

    — Pieno — mormorò Luciano sottovoce. L’unica a sentirlo fu Isabella che gli rifilò un calcione sotto il tavolo.

    — Ahi — si lamentò, sempre sottovoce lui.

    — … Più colorato — riuscì infine a concludere Adriano.

    — Il cappellino poi è la ciliegina sulla torta — aggiunse Luciano — la fa sembrare una studentessa inglese.

    Adriano prese il cappello dalla testa di Simona, così velocemente che lei non poté impedirlo e se lo mise.

    — A me come sta? — chiese evitando le mani di Simona che tentavano di riprendere il cappello appena poggiato sulla sua incredibile massa di capelli.

    — Sembri un contadino — gli rispose Luciano.

    — Ridammelo — protestava intanto Simona.

    — E aspetta un attimo, mica lo mangiamo. Prova tu — disse Adriano passando il cappello a Luciano.

    — Ma dai ridaglielo.

    — Su non fare il difficile, tanto Simona non lo sa che hai i pidocchi.

    — Che schifo! Ridammelo.

    — Non li ho i pidocchi — disse Luciano e si appoggiò il cappello sulla testa.

    Lo guardarono un istante poi scoppiarono a ridere tutti. Lui lo tolse subito arrabbiato per essere stato al gioco.

    — Dai, non eri mica brutto — lo consolò Isabella ancora ridendo.

    — Prova tu Anna — disse Adriano passandogli il cappello

    Anna non lo poggiò sulla nuca ma lo mise in verticale sulla testa, il cappello le scese fin quasi sugli occhi fermandosi sulle orecchie. Non riuscì a trattenersi nemmeno lei dalle risa.

    — Manchi tu Isa. Fai vedere come ti sta? — chiese Anna porgendogli il cappello.

    Isabella se lo mise bene sulla testa poi alzò un poco la parte davanti, sorrise e si mostrò a tutti.

    — Niente male, mi sa che te lo regalo — disse Simona

    — No grazie, i cappelli non mi piacciono — le rispose lei restituendoglielo.

    — Però ti stava veramente bene. — Riuscì a dire Luciano che faticava a riprendersi dalla vista di quel viso incorniciato dalla falda del cappello.

    Finirono i gelati e la bottiglia di Coca Cola continuando a prendersi in giro ancora un po’, poi si alzarono per andare a pagare.

    — Offro io — disse Isabella.

    Anna e Simona provarono a protestare tirando fuori i loro spiccioli.

    — Offro io, non vi preoccupate — insistette Isabella tirando fuori da una tasca degli shorts una carta da diecimila lire.

    Adriano provò a calcolare quanti fumetti avrebbe potuto comprare con tutti quei soldi. C’erano troppi zeri, dopo pochi secondi lasciò perdere. Luciano invece ripensò a quella volta che la madre stava male ed era dovuto andare lui a fare la spesa con diecimila lire. La madre si era raccomandata così tante volte di stare attento al resto che lui aveva fatto i conti a voce alta davanti al fornaio.

    Uscirono dal bar per tornare alla loro tana, per farsi magari una partita a Scala quaranta o continuare a parlare, senza lo stesso soggetto per più di due minuti. Le tre ragazze camminavano davanti, una sottobraccio all’altra, e i due maschi dietro quasi a rimorchio. Sorridevano felici, non fecero caso che a uno dei tavolini all’esterno di un bar erano seduti Fernando e i suoi inseparabili compari, Angelo e Oreste. Udirono però la voce potente di Fernando

    — Oh, guarda Grazia, Graziella e Grazie al cazzo. — Seguirono le solite risa grossolane dei due compari.

    Le tre ragazze si zittirono e fecero finta di niente continuando a camminare, Luciano sembrò volersi fermare ma prontamente Adriano lo spinse a camminare. Oreste disse qualcosa a Fernando.

    — Chi? Quei due? Li ammucchio con una mano sola.

    4

    Un distorsore

    Riccardo guardava attraverso una lente, montata su un marchingegno che si era costruito, gli lasciava le mani libere per saldare. Stava per terminare il lavoro che gli era costato tutto il pomeriggio. Sergio, in piedi vicino a lui, guardava e ogni tanto commentava o emetteva qualche suono sconnesso.

    — Ho quasi finito, un attimo ancora… ecco fatto, è pronto.

    Disse Riccardo posando il saldatore, lo stagno e allontanando la sedia a rotelle dal tavolo.

    — Lo vuoi provare? — chiese a Sergio guardandolo con un sorriso sotto i baffi. Sergio rispose con uno sguardo tra l’impaziente e lo spaventato.

    — Non è che p-p-prendo la scossa?

    — Non essere scemo. C’è solo una pila a nove volt.

    — E se si rompe la-la-la-la chitarra? —

    — Casomai, il cono dell’amplificatore. Ma noi lo teniamo basso.

    Sergio rispose con un grugnito e un gesto scomposto. Non era convinto dell’esperimento. Riccardo aveva visto lo schema di un semplice distorsore per chitarra su una rivista e lo aveva copiato, si era fatto da solo la basetta, spedito suo padre a rimediare i componenti e lo aveva montato. Adesso il suo lavoro giaceva nudo e crudo sul suo tavolo di lavoro, la scatola per contenerlo gli avrebbe creato più problemi del lavoro elettrico. Spostò ancora più indietro la sedia a rotelle, per vedere meglio il suo amico, voleva rimproverarlo ma gli fece tenerezza. Gli succedeva sempre così, lui un ragazzo costretto sulla sedia a rotelle, aveva pena per quel suo amico di quindici anni gracile, con tutti quei tic e che non aveva ancora neanche un accenno di peluria sul labbro superiore.

    — E dai! Non gli succede nulla alla tua chitarra.

    Sergio si avvicinò controvoglia alla custodia e tirò fuori la sua preziosissima chitarra elettrica. Aveva dovuto fare due viaggi da casa sua per portarla insieme all’amplificatore, quest’ultimo era un combo di pessima qualità e di una decina di chili, un peso insostenibile da solo figuriamoci con chitarra e custodia. Ogni dieci passi aveva cambiato mano per trasportarlo, per lo sforzo era arrivato rosso come un pomodoro. Avevano dovuto fare tutto a casa di Riccardo perché quella di Sergio era in fondo a una scalinata, inaccessibile a una sedia a rotelle. Sergio imbracciò la chitarra e subito Riccardo notò la trasformazione, niente più tic o gesti improvvisi. Era un mistero, con una chitarra tra le mani riusciva anche a cantare senza balbettare. Infilò la presa di corrente dell’amplificatore e lo accese. Subito un ronzio di sottofondo riempì la stanza.

    — Abbassalo se no fa rumore — disse Riccardo.

    — È già basso. —

    — E fa tutto sto casino?

    Sergio non gli rispose, aveva sempre pensato che fosse normale.

    — Hai portato i due Jack come ti avevo chiesto? — domandò ancora Riccardo.

    Per tutta risposta Sergio li tirò fuori dalla custodia della chitarra, Riccardo si mosse abilmente con la sedia a rotelle, glieli prese dalle mani e li infilò delicatamente nel distorsore sul tavolo, poi porse gli estremi a Sergio.

    — Questo nella chitarra e quest’altro nell’amplificatore — indicandoglieli molto bene — e stai attento a non tirare se no ti porti appresso tutto.

    — E come faccio a suonare?

    — Suoni immobile — disse spazientito Riccardo — tanto devi muovere solo le dita, no? Se funziona costruirò una scatola dove metterlo.

    Sergio infilò i due Jack temendo che saltasse tutto in aria. Si fidava ciecamente dell’amico, ma quella era la sua chitarra elettrica, il padre non gliene avrebbe comprata un’altra, mai e poi mai.

    — Alza un poco il volume — disse Riccardo.

    Sergio mosse la manopola di un niente, ma bastò a far aumentare il ronzio. Quasi religiosamente Sergio pizzicò una corda, dall’amplificatore uscì un suono. Preso coraggio Sergio suonò un Mi maggiore.

    — Non funziona. Suona uguale a prima.

    — Ovvio. È spento — disse Riccardo toccando qualcosa sul tavolo. Immediatamente il ronzio salì di volume.

    — Fa bzzz pure il tuo coso — disse con un pizzico di soddisfazione Sergio.

    — Ti credo, è tutto aperto. In ogni caso, suona!

    Sergio diede un colpetto di penna al Mi basso, il suono che uscì era saturo e aggressivo come mai aveva sentito prima. Gli occhi di Sergio erano increduli.

    — Alza un po’ il volume, non tanto.

    Sergio invece portò il volume quasi a metà. Poi diede una pennata più convinta.

    — È… è bellissimo — disse.

    Non si trattenne più. Immediatamente le note di Satisfaction dei Rolling Stones riempirono la stanza. Riccardo lo ascoltò anche lui sorpreso.

    — Oh, sembra il disco! — Disse appena Sergio si interruppe per un attimo, prima di passare a Black Night dei Deep Purple, dopo qualche giro del riff si fermò ancora, indeciso su quale musica provare.

    — Questo che pezzo era? Non lo conosco.

    — Erano i Deep Purple. Questo lo conosci? — attaccò con il riff di Smoke on the water.

    — Questo sì — rispose felice Riccardo.

    Intanto Sergio aveva preso a suonare un pezzo velocissimo, le dita si muovevano sicure sulle corde come zampe di ragno su una ragnatela. Era una musica piena di arpeggi e scale che Riccardo non aveva mai sentito. Quando finì gli occhi di Sergio erano illuminati dalla soddisfazione.

    — Questi chi erano?

    — Questo era Bach — rispose Sergio, come se si trattasse di Little Tony.

    Poi fece un accordo e due note, l’ultima con un trillo e ripeté il tutto per quattro o cinque volte. Il risultato era inquietante.

    — È la musica di un film dell’orrore? — domandò perplesso Riccardo.

    — No, sono i Black Sabbath.

    — Ma dove l’ascolti certa roba?

    — Tempo fa sono andato da un parente di mia madre in città, non puoi immaginare i dischi che aveva. Gli ho detto di farmi ascoltare qualcosa che qui in Italia non sentiamo mai o quasi. Beh, siamo conciati veramente male, in Inghilterra ascoltano normalmente Elton John, David Bowie, per non parlare di Santana o i nuovi gruppi di rock duro. Noi siamo fermi ai Cugini di Campagna e i Santo California.

    — A me Tornerò piace.

    — Sarà pure bella, ma è una scemenza.

    — Che vuoi dire che la musica italiana fa schifo?

    — No, ma tu conosci La Premiata Forneria Marconi o il Banco del Mutuo Soccorso? Che ne so, gli Area o chissà quanta altra gente che non ho mai sentito? Questi sono italiani e non li senti né in televisione né alla radio, come non senti gli Emerson Lake and Palmer o i Led Zeppelin. Invece Rosanna Fratello la senti eccome. Ora, se non hai la possibilità di comprarti una fortuna in dischi, senti solo quello che ti propongono, ti posso assicurare che non è un granché.

    — Elton John, lo conosco pure io.

    — Solo perché ha un successo mondiale come i Beatles. Poi fa canzoni che durano tre o quattro minuti, è… come dire… adatto alla radio. Tutti gli altri che ho nominato fanno pezzi anche di otto dieci minuti, è difficile che li trasmettano.

    — Facessero canzoni più corte.

    — Non puoi mettere il recinto all’arte. Se non si va mai fuori dagli schemi saremo condannati ad Adriano Celentano per i prossimi trent’anni.

    — A me piace pure Celentano — disse Riccardo andando a spegnere l’amplificatore, prima che Sergio riattaccasse a suonare.

    — P-p-perché hai spento?

    — Perché sono le cinque passate ed è ora di uscire. Il distorsore funziona, domani in qualche modo lo metto dentro una scatola e te lo regalo.

    — G-g-gra-zie.

    Incredibile, pensò Riccardo, aveva appena smesso di suonare e già ricominciava a tartagliare. Non si poteva neanche farglielo notare. Una volta Luciano gli aveva chiesto perché cantasse senza incespicarsi nelle parole, Sergio era rimasto muto per un attimo poi era esploso in uno di quei suoi gesti improvvisi, aveva offeso pesantemente Luciano e si era rifiutato di cantare e suonare per un paio di giorni.

    — La chit-t-t-arra e l-l-l’amp…

    — Lasciali qui, li riprendi stasera quando torniamo.

    Riccardo aprì la porta della sua stanza e aspettò che Sergio rimettesse religiosamente a posto la chitarra elettrica, e cominciasse a spingere la sua sedia a rotelle.

    — Ciao ma’ noi usciamo — urlò Riccardo.

    Subito dalla cucina uscì la madre di Riccardo asciugandosi le mani su un grembiule, stava preparando la cena.

    — Uscite? Mi raccomando Sergio, non andate in posti pericolosi.

    — A ma’! Dove li troviamo i posti pericolosi?

    La donna passò amorevolmente una mano tra i ricci castani di Riccardo.

    — Non mi toccare i capelli — protestò duramente il ragazzo. La donna ripeteva frequentemente quel gesto.

    — Se no ti spettino? — chiese lei scherzando, poi aprì l’uscio di casa che dava direttamente sulla strada, li lasciò uscire e richiuse. Le sue labbra ancora sorridevano, ma i suoi occhi verdi avevano dentro una tristezza senza confini.

    Sergio e Riccardo uscirono dal vicolo che portava sulla strada principale e si imbatterono nel gruppo di amici.

    — Ehi, che avete combinato oggi? — chiese allegro Adriano.

    — R-r-riccardo mi ha c-c-costruito un distorsore — disse raggiante Sergio.

    — E che è, un distorsore?

    — S-s-serve per suonare.

    — Non avevo dubbi — disse Anna.

    — Sentite, perché non ci date una mano a riportare gli strumenti a casa di Sergio — chiese Riccardo.

    Poco dopo Luciano reggeva la chitarra mentre Adriano portava l’amplificatore senza sforzo apparente, sotto lo sguardo sbalordito di Sergio.

    — Mi dici che hai? — chiese Isabella a Luciano che stava muto.

    — Niente — rispose lui scorbutico.

    — Sta pensando a Fernando — suggerì Simona.

    — Che altro ha fatto quel disgraziato? — chiese Riccardo

    — Ci ha offese. È proprio un villano — rispose Anna.

    — S-s-s-stronzo bastardo — gridò Sergio.

    — Se ne approfitta perché è più grande — disse Isabella.

    — Non è più grande, è più grosso — precisò Adriano, con un sorriso sulle labbra.

    — Che hai da sorridere tu? — domandò Simona.

    — Niente pensavo che più sono grosse e pesanti più le cose sono fastidiose — disse passandosi l’amplificatore da una mano all’altra.

    — A cosa stai pensando? — gli domandò sottovoce Luciano avvicinandosi.

    — Hai mai visto Fernando da solo?

    — No — rispose Luciano dopo averci pensato un momento.

    Si guardarono in faccia. Luciano rispose al sorriso sadico di Adriano con una smorfia divertita.

    5

    Ricordi

    Luciano si rigirava nel letto. Non riusciva a dormire, pensava. Immaginò una marea di modi nei quali umiliare Fernando, tutti finivano con una scazzottata con lui vincente e l’energumeno a terra tramortito. In realtà il protagonista delle sue fantasie non era Fernando ma Isabella. Le variazioni dei suoi sogni erano tante ma il concetto era sempre lo stesso: lui era l’eroe che salvava la bella principessa Isabella dalle grinfie del drago Fernando. Si chiese se fosse innamorato di Isabella.

    Cavolo, innamorarsi è una cosa da femmine.

    Ma no, ormai aveva quattordici anni, non doveva più pensare così. Si innamorano anche i maschi. Solo non capiva come fosse successo. Conosceva Isabella da quanto? Sei o sette anni? Non lo ricordava. Si chiese se fosse stato sempre innamorato. Sicuramente no, allora cosa era successo? Lei aveva la stessa faccia degli anni precedenti: bionda, occhi azzurri e lentiggini intorno al naso. Non le erano neanche cresciute le tette… beh, un po’ sì, ma non era per quello. Altrimenti si sarebbe innamorato di Simona. Oh!

    Forse era lui che era cambiato? Va bene, va bene: la voce i peli e tutto il resto. Non era questo che intendeva. Sì, gli era sempre stata simpatica. Ma due anni prima, se ci fosse stata o no, non cambiava la giornata. Adesso non vedeva l’ora di stare con lei. Aveva un desiderio irrefrenabile di baciarla. Anche questo era strano, per altre ragazze si era anche spinto più in là con l’immaginazione. Con lei no, voleva solo baciarla.

    Eh sì, sono proprio innamorato.

    Ripensò a quante volte si erano presi in giro su chi fosse innamorato di chi. A pensarci bene lui e Isabella erano stati fidanzati un sacco di volte negli anni precedenti. Fidanzamenti di una mezza giornata. Di solito era Anna che diceva: Adriano ama Isa o Luciano ama Simona e viceversa, con rare partecipazioni di Riccardo e Sergio. Forse nella speranza di sentirsi dire che uno a caso amasse lei. Povera Anna, era sempre stata bruttina… no, non era vero. Prima che cambiasse i denti davanti non era poi tanto brutta, poi le erano cresciuti quei cosi da coniglio. Non riusciva nemmeno a tenerli dentro le labbra.

    Accidenti, da quanto conosco Anna? Almeno otto anni.

    Ci pensò un poco, prima Anna poi Adriano e Simona, l’anno dopo Isabella e ultimi Sergio e Riccardo. La prima volta che ricordava Adriano, Simona era accapigliata con lui, ci rimise il maschietto anche se era più grande di età. Che poi, con quei capelli, la femminuccia sembrava lui. Sorrise, ricordando che Anna glielo chiese: sei maschio o femmina?

    Adriano, con Simona, adesso si accapiglierebbe di nuovo volentieri. Per lui era diverso, Adriano pensava a Simona in modo… volgare, ecco sì: volgare. Lui non avrebbe mai pensato a Isabella nello stesso modo.

    Bisognerebbe considerare nel gruppo anche il fratello di Isabella, Damiano. Lui aveva cinque anni di più della sorella e aveva sempre snobbato lei e i suoi amici. Poi era strano, stava sempre a leggere e non parlava mai, la madre diceva che era tanto intelligente, a scuola aveva dei voti altissimi. Va bene che le madri si vantino dei propri figli, ma lei esagerava. Damiano sembrava un pesce lesso, poi il confronto con la sorella era deprimente, lei leggiadra e bella, lui goffo e brutto. Aveva la faccia che se fosse stata fatta di un unico gigantesco brufolo, sarebbe stata meno disgustosa, invece era un campo di battaglia di solchi e pustole.

    Anche Sergio e Riccardo erano più grandi, ma di un anno appena, non si notava. Sergio addirittura sembrava avere ancora undici anni. Loro due erano nativi del paese, sicuramente per loro non doveva essere facile vivere là, nello stesso posto di Fernando, Angelo e Oreste. Anche a Roma c’erano tipi come quelli, ma per non incontrarli bastava cambiare strada. Lì, a Passombroso, di strada ce n’era solo una.

    Si stava distraendo, perché si era innamorato?

    Isabella era bella, in fondo gli era sempre piaciuta, ma adesso pensava sempre e solo a lei. Ci aveva pensato anche a Roma durante l’inverno. Stava cambiando ne era certo, mai aveva fatto certi pensieri. Invece solo pochi mesi prima la sua immaginazione si era spinta a cose peccaminose molto più in là di un bacio, non poteva nascondere che aveva fatto sogni anche su Simona. Perfino su Anna. Poi gli era bastato rivedere Isabella per andare completamente fuori di testa. Di ragazze ne conosceva altre, beh non proprio tante. La sua classe alle medie non era mica mista, poi quelle dell’oratorio al massimo ci potevi pregare insieme. Ce n’era anche qualcuna carina, ma nessuna gli faceva lo stesso effetto. Con gli scout era leggermente diverso, ma neanche tanto. Che poi ‘sta separazione dei sessi, era una cretinata. Loro a Passombroso erano sempre stati insieme e non era mai successo niente di male. Cosa può succedere di male? Solo quello. A pensarci bene, più separi i sessi più crei quel gusto del proibito che peggiora la situazione.

    Stava di nuovo divagando.

    Doveva ammettere la cosa più semplice: aveva conosciuto il piacere sessuale. Un amico a scuola gli aveva spiegato come masturbarsi un paio di anni prima, da allora le cose erano cambiate. Poi, quando aveva cominciato a eiaculare, si era sentito un uomo, e gli uomini pensano alle donne in una certa maniera. Ecco lo aveva detto. Non era colpa di Isabella, era lui che era uno zozzone. Lei era la stessa di sempre.

    Ripensò a tutte le volte che aveva giocato con lei a nascondino, a carte, con la corda o a campana. Giochi maschili o femminili, sempre insieme senza problemi. Quante volte si erano avvinghiati contendendosi una palla? Quante corse fino all’ultimo respiro giocando ad acchiapperella o ruba bandiera, Quante volte avevano cantato o riso insieme? Ricordò quella volta che lei cadde sbucciandosi tutte le giunture possibili, era stata l’unica volta che l’aveva vista piangere. Lui aveva pianto davanti a lei parecchie volte. Quando aveva fatto a botte con Oreste, quattro anni prima o quando era morto suo nonno. La madre non aveva potuto tenergli nascosta la notizia, lui si era ritirato in un angolo del paese e aveva cominciato a piangere, non voleva che lo vedesse nessuno. Lo scovarono Anna e Isabella e lo consolarono. Bastò quello a fargli tornare il sorriso, in fondo a dieci anni basta poco per dimenticare la morte.

    I suoi pensieri sorvolarono gli anni trascorsi a Passombroso. Sergio che perdeva sangue dal naso in continuazione, Adriano che camminava sulle mani, l’esuberanza di Simona, lei sì che era una professionista del pianto e del riso. Riccardo, impossibile da battere in qualsiasi gioco con le carte. Anna, la maestrina, quella che sapeva tutte le regole di tutti i giochi e mai avrebbe permesso di cambiarne una. Poi Sergio che suonava la chitarra mentre tutti cantavano, Sergio che cominciava a balbettare e fare tutti quei gesti strani. Adriano che invertiva le parole. Tutti insieme che coglievano le more sulla strada poco fuori dal paese, con Riccardo che le indicava e Anna sulle spalle di Adriano per prendere quelle più in alto. Le partite a biliardino con Riccardo che poteva giocare solo tenendo il portiere. Le sere passate insieme a giocare e scherzare fino alle urla delle madri che ordinavano loro di rincasare. La volta che avevano cantato fino a quasi mezzanotte e il vecchio Ugo, ubriaco come sempre, era uscito con il fucile da caccia minacciandoli di ucciderli se avessero continuato. Il giorno che avevano visto una vipera, che fosse una vipera non ne erano certi ma ne erano tutti convinti, in ogni modo strisciava ed era lunga. Erano sulla strada e le grida di Simona arrivarono fino al cielo, il povero serpente si diede alla fuga tra i massi di un muro a secco, chiedendosi cosa avesse fatto di male. I gelati, le merende offerte dalle madri, le crostate della mamma di Riccardo. E il volto di Isabella. Isabella.

    Finalmente prese sonno.

    Sognò di essere il prode Luciano che dopo aver ucciso il cattivo Fernando, prendeva tra le braccia la gentile Isabella e piano piano si avvicinava al suo volto… la baciava e poi… si svegliò di soprassalto sentendosi bagnato proprio lì sotto. Aveva avuto una polluzione.

    Sono proprio uno zozzone.

    6

    Nascondino

    Se ne stavano senza far niente nella piazzetta. C’era anche il fratello di Isabella, ma non Riccardo che dopo cena usciva difficilmente. Anche Anna la sera aveva problemi a uscire, la madre faceva sempre storie sull’orario di rientro.

    — Non rientrare dopo le dieci.

    — Mamma, sono le nove. Appena un’ora? Facciamo le dieci e mezza.

    — Ho detto le dieci.

    — Ma mamma, sono sotto casa.

    — Se per le dieci non sei rientrata, mando tuo padre a chiamarti.

    — Non ti preoccupare Anna — urlava il padre — ci metto mezz’ora per uscire — o qualche frase del genere, chiudendo la contesa senza alzarsi dalla sedia del soggiorno. Era salomonico, una volta dava ragione alla moglie e l’altra alla figlia. Forse qualche volta in più alla figlia.

    I ragazzi erano seduti, alcuni sulle scale all’entrata della casa di Anna, altri su una specie di panchina in cemento appoggiata al muro di fronte. Damiano, il fratello di Isabella, sedeva in disparte sulle scale che portavano alla casa del vecchio Ugo, pochi metri più in là.

    — Gli americani non ci vanno più sulla Luna? — domandò Adriano.

    — No. Ora sono impegnati con lo Skylab — rispose Anna.

    — Era più bello quando andavano sulla Luna. Che poi quel coso, secondo me, prima o poi ci cade in testa — disse Adriano.

    — Come fa a cadere? Fuori dalla terra non c’è mica la gravità — disse Simona.

    — Ecco, ha parlato Einstein — la prese in giro Luciano — la forza di gravità c’è sempre.

    — Allora perché gli astronauti galleggiano? — chiese indispettita Simona.

    — Perché sono di legno — rispose Adriano.

    — Uffa — si lamentò Simona.

    — La gravità c’è lo stesso, però più ti allontani più diventa piccola. A un certo punto non si sente quasi più e si comincia a galleggiare nell’aria. Dipende anche dalla grandezza del pianeta. Ecco perché sulla Luna sembra di pesare di meno — spiegò Anna.

    — Quindi, quel coso ci cadrà in testa — concluse Adriano

    Sergio allungò un braccio dietro a Isabella e diede uno schiaffo in testa ad Adriano.

    — Chi è stato?

    — Gli ame-me-me-ricani.

    — Però sarebbe bello se ci fosse una base spaziale tra le stelle, come in duemila uno odissea nello spazio — disse Luciano.

    — Forse per il duemila la faranno — disse Isabella.

    — Non dite scemenze. Per fare una cosa del genere ci vogliono almeno cinquanta anni — sentenziò Damiano.

    — Beh, hanno iniziato, no — disse Isabella.

    — Ma che? Quelli sono giocattoli di fronte a quella del film.

    — Io di quel film non ho capito niente. Alla fine a momenti mi addormento — disse Adriano.

    Ci fu un coro di anch’io, io pure.

    — Io non l’ho visto. Di che parla? Ulisse nello spazio? — chiese Simona.

    Dopo alcuni secondi di silenzio, fu Luciano a rispondere.

    — Sì — disse secco, cercando di evitare spiegazioni difficili.

    — Oh, e c’è anche quello con un occhio solo? — domandò ancora Simona.

    Dopo un attimo di smarrimento presero tutti a ridere, compreso Damiano. Avevano pensato all’occhio rosso di Hall 9000, non era quello di Polifemo certo, ma dopotutto…

    — Se aveste letto il libro, sarebbe tutto facile — disse Damiano.

    — E che prima di vedere un film devo studiare? — protestò Adriano.

    — È un romanzo, mica un libro di scuola.

    — Pe-pe-per lui è l-l-lo stesso.

    — Da fastidio anche a me vedere un film che per capirlo devi documentarti prima. La parte finale del film è quasi un mistero — disse Luciano.

    — Eppure è chiarissima — insistette Damiano.

    — Giochiamo a nascondino — propose Simona, evidentemente scocciata da quella discussione.

    — Non siete troppo grandi per giocare a nascondino? — chiese Damiano.

    — Sì, sì. Quest’anno ancora non ci abbiamo mai giocato — disse Adriano, ignorando Damiano. O forse solo per contraddirlo.

    — Andiamo giù però, come gli anni passati che è meglio — disse Anna.

    Corsero tutti, meno Damiano, giù per la scalinata che portava davanti la casa di Isabella. Da lì le scale si allargavano in uno spiazzo dal quale partivano altre due strade, una portava anche alla casa di Sergio, scendeva a zig zag con larghi e bassi scalini, l’altra arrivava alla strada principale del paese. Il bello era che da entrambe le strade si poteva risalire facilmente alla casa di Anna usando dei vicoli. Giocare a nascondino di giorno, in quel posto, era bellissimo. La notte con il buio, i tanti portoni e angoli oscuri nei quali nascondersi, era uno sballo.

    — Chi si acceca per primo?

    — Facciamo la conta.

    Si misero in cerchio e ognuno indicò un numero con le dita. Il più svelto a fare la somma fu Luciano, e anche il più sfortunato. Cominciò a contare da sé stesso velocemente per bloccarsi improvvisamente quando capì che toccava a lui.

    — Quindici, sedici, diciassette…

    — diciotto e diciannove — conclusero gli altri ridendo.

    — Uffa, che jella.

    — Zitto e accecati. Siamo in sei quindi conta fino a sessanta a voce alta.

    — Eh no, a voce alta no — protestò Luciano.

    — E non guardare.

    Luciano si appoggiò al muro proprio sotto l’unica illuminazione della strada: una lampadina a incandescenza che spuntava da un piatto di ceramica. Tenendo la faccia premuta contro un gomito cominciò a contare sottovoce, sentì subito gli altri scappare, non arrivò neanche a trenta che disse sessanta ad alta voce e cominciò la caccia.

    Non aveva sentito nessuno andare a destra, verso la casa di Sergio, ma era possibile che lo avessero fatto senza fare rumore. Quella strada scendeva ed era difficile fare tana da lì, però era anche vero che poco più avanti la strada biforcava tornando indietro attraverso un vicolo. Da qualsiasi parte fosse andato rischiava di ritrovarli tutti vicino alla tana ad aspettarlo. Negli anni passati erano state combattute battaglie memorabili. Se si scorgeva il cacciatore arrivare, se non si era nascosti bene si doveva subito scappare sperando di non essere visti. Si facevano appostamenti con tanto di vedetta, a volte era il cacciatore a nascondersi e aspettare che fossero gli altri a fare capolino. Raramente si finiva con una corsa, anche perché correre con tutte quelle scale era rischioso. Una volta però Luciano aveva scovato Sergio proprio dove la strada di destra si ricongiungeva alla strada principale, subito era tornato indietro per toccare per primo la tana, sorpreso che Sergio neanche provasse a rincorrerlo. Lo aveva trovato ansimante alla tana, aveva fatto il giro dall’altra parte ed era riuscito ad arrivare primo, oltretutto aveva fatto Tana-libera-tutti.

    Luciano per prima cosa si avvicinò lentamente al portone alla sua sinistra. La fioca lampadina del lampione illuminava solo una parte del portone lasciando un angolo, incassato di almeno un metro nel muro, così buio che era impossibile vedere cosa o chi ci fosse nascosto. Era un effetto dato dal passaggio secco dalla luce al buio, se ti fermavi a guardare fisso la parte scura dopo un po’ riuscivi a vedere qualcosa. Luciano restò immobile davanti a quel buio per mezzo minuto senza scorgere nulla, poi pensò che se qualcuno fosse sbucato all’improvviso gli sarebbe preso un infarto. Quando faticava ad addormentarsi qualsiasi ombra prendeva forme minacciose e orribili, finché non era più lui a guardare le ombre ma qualcosa nell’ombra che fissava lui. Con un brivido lungo la schiena si avvicinò e s’infilò nell’oscurità fino a toccare il muro. Non c’era nessuno. Si chiese perché avesse avuto tanta paura. Prese la strada alla sinistra, quella senza scale.

    Intanto Adriano si era infilato in un portone con Anna e Simona. Lui avrebbe preferito essere solo con Simona, ma Anna gli stava attaccata come un francobollo. L’interno del portone era illuminato solo dalla luce esterna, Adriano lo chiuse lasciando uno spiraglio per vedere fuori, facendo cenno alle due ragazze di nascondersi con lui nel cono d’ombra. La sua speranza era di avere Simona vicino a lui, molto vicino. Aveva una voglia di toccarla immensa, non sapeva cosa avrebbe dato pur di toccargli i seni. Ormai erano per lui l’unica ragione di vita, ne era ossessionato. Mettere le mani sulle tette di Simona sarebbe stato un appagamento vicino alla beatitudine, il giardino dell’eden, il paradiso in terra. Voleva solo toccarle, sfiorarle, almeno una. Ormai erano un’entità staccata dal corpo di Simona, assunte a divinità da adorare e venerare, oggetti di culto e di sfrenate fantasie.

    Invece di Simona quella che si appiccicò a lui nell’ombra fu Anna. L’unica cosa che sporgeva di lei era il naso, parte del corpo femminile con bassissime qualità erotiche. Accidenti se non gli stava attaccata! Sentiva il suo fiato sul collo. Poco dopo udirono dei passi, Adriano sbirciò di fuori e vide Luciano davanti al portone, che guardava perplesso, era ovvio cosa stesse pensando: perché è chiuso? Adriano ne approfittò per prendere un braccio di Simona e tirarla verso sé nell’ombra, lei si avvicinò e contemporaneamente Anna si strinse a lui più forte. Luciano si avvicinò al portone ne aprì lentamente una parte, proprio quella dietro la quale si erano nascosti i tre. Lo spazio si ridusse a pochi decimetri quadrati e i tre si ammucchiarono nell’ombra. Adriano si ritrovò schiacciato contro il muro da Simona che spingeva, Anna era nel mezzo tra loro, ormai spalmata su di lui. Si sentì un risolino. Luciano era indeciso se fosse di Anna o di Simona.

    — Tana per… tana per… — cominciò a dire sperando che la ragazza nascosta uscisse.

    Invece si aprì la porta di uno degli appartamenti del palazzo dove i tre erano nascosti. Subito l’androne si illuminò, una signora uscendo e vedendo i tre accalcati in un angolo urlò — Oh! Che state a fare? Sporcaccioni.

    Immediatamente i tre uscirono correndo tra le risa. Rimasero un attimo indecisi su cosa fare, poi Adriano scattò verso la tana seguito da Anna. Luciano, che stava chiedendosi perché la signora urlasse, si riprese e riuscì a tanare almeno Simona. Per riuscire a scoprire dove si fosse nascosta Isabella impiegò un attimo, salite le scale gli bastò aprire il portone verso quale stava guardando fisso Damiano. Se Damiano lo facesse apposta o no, era un mistero. Il suo sguardo era perso nel vuoto, come sempre, si limitò a seguire con gli occhi la sorella, lei neanche provò a rincorrere Luciano che arrivato alla tana, vi trovò Sergio sorridente.

    La volta dopo ad accecarsi toccò quindi a Simona, che contò mentalmente sì e no fino a venti, urlò cinquantanove e sessanta e iniziò la caccia. Luciano decise di infilarsi proprio nel punto buio del portone a sinistra di Simona, mentre Isabella e Sergio salivano le scale correndo, Adriano guardò sconsolato Anna che gli stava vicino come una sorella siamese. Lei tentò di riportarlo verso la strada dove erano nascosti prima, magari per infilarsi dentro un altro portone, ad Adriano l’idea non piacque e la spinse delicatamente ma con decisione a destra, dove in basso aveva visto delle vecchiette sedute fuori casa a godersi il fresco. Voleva testimoni, la paura di rimanere solo con Anna era direttamente proporzionale alla voglia di rimanerci con Simona. Adriano si nascose dietro un angolo in bella mostra delle vecchiette, che commentarono con le solite battute sulla gioventù andata. Anna era chiaramente delusa del nascondiglio.

    Intanto Sergio e Isabella si erano nascosti in cima a una scalinata che portava all’uscio di un appartamento. Non erano rare le costruzioni a due piani, con solo due abitazioni, a quella più alta di solito si accedeva con scale poste all’esterno. La scalinata scelta era completamente in muratura e particolarmente ripida, se ci si sedeva sul pianerottolo non era possibile essere visti da sotto, neanche se si salivano alcuni gradini. Damiano vide la sorella passare tirandosi dietro Sergio, a un certo punto, vedendolo indeciso lo prese per mano. Lo sguardo di Damiano si accese, si alzò dal punto dove era e guardò i due salire sulla scala, rimase un po’ a guardare immobile, poi si sedette davanti casa di Simona, da lì poteva vedere dove era nascosta la sorella.

    Simona aveva capito, da quello che aveva udito, che Anna e Adriano erano scesi per la strada di destra, quindi si sporse dal muro che costeggiava la scalinata, ma riuscì a vedere solo tre vecchiette che le restituirono lo sguardo, come se si aspettassero che lei si affacciasse. Sapere che Anna fosse da sola con Adriano le dava un senso di fastidio. Adriano come ragazzo le piaceva, ma lei aveva solo dodici anni, questa infatuazione più che altro la spaventava. Se lui si fosse fidanzato con Anna le sarebbe dispiaciuto, ma da una parte si sarebbe sentita sollevata.

    Però scese le scale decisa a scovarli.

    Una delle tre vecchiette avvertì i due, nascosti poco più in là. Subito Anna strattonò Adriano indicandogli il vicolo che li avrebbe portati fuori pericolo, ma Adriano disse di aspettare ancora un poco. Le tre vecchiette scoppiarono in una risata fragorosa, una delle tre aveva fatto una battuta, dicendo che il ragazzo preferisse essere preso da una piuttosto che fuggire con l’altra, confermando che a certi anziani basta un gesto per capire.

    Luciano era uscito dal suo nascondiglio nell’ombra e stava osservando Simona che scendeva le scale furtivamente, guardando in ogni angolo buio. Era indeciso se rimanere là ad aspettarla, dopo un po’ si ritirò nel suo angolo in attesa del momento più divertente per uscire.

    Sergio e Isabella erano seduti contro il muro davanti alle scale, ogni tanto lei faceva capolino. Dopo alcuni minuti Sergio ebbe uno dei suoi scatti, Isabella gli prese una mano tra le sue e se la pose in grembo accarezzandola.

    — Calmati — disse sottovoce sorridendo — devi stare calmo se no ci scoprono

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1