Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Il Progetto
Il Progetto
Il Progetto
E-book375 pagine4 ore

Il Progetto

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

L’inquinamento atmosferico ha raggiunto tassi elevatissimi, tanto da rendere l’aria irrespirabile. È possibile sopravvivere solo indossando le miracolose mascherine prodotte dall’ALIFAX, le "salvavita", in grado di filtrare e purificare l’aria, senza le quali le persone vengono contagiate da un terribile virus letale e, una volta infette, arrestate e rinchiuse in celle sotterranee. Ma qualcosa non quadra.
LinguaItaliano
Data di uscita6 set 2019
ISBN9788893692267
Il Progetto

Correlato a Il Progetto

Titoli di questa serie (24)

Visualizza altri

Ebook correlati

Arti dello spettacolo per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Il Progetto

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Il Progetto - Luca Narciso

    MicrosoftInternetExplorer4

    SECURITY FORCE

    Struttura organizzativa

    • Capo supremo

    • Élite

    • Torchiatori

    • Squadra speciale

    Divisa: nera, con casco dello stesso colore.

    Equipaggiamento: mitra, pistola, frusta d’acciaio.

    • Ronde

    Divisa: rossa, con banda nera laterale.

    Equipaggiamento: manganello, pistola elettrica.

    • Guardie

    Divisa: scafandro bianco.

    Capitolo 1

    Il caldo insopportabile non accennava a scomparire... Era trascorsa una delle estati più afose degli ultimi venti anni.

    «Restate in casa» «non passeggiate troppo a lungo» «uscite solo se necessario» questi i messaggi che venivano trasmessi dai telegiornali; «Siamo arrivati alla resa dei conti! I nostri avi ci avevano avvertito! È la fine...!» Gli studiosi ripetevano queste frasi in ogni trasmissione in cui erano invitati, «L’effetto serra non può più essere controllato, e non resta ancora tanto per il nostro pianeta!» Avevano ragione.

    L’inquinamento aveva raggiunto livelli spaventosi, l’aria era ormai già da qualche anno irrespirabile e nessuno sarebbe sopravvissuto senza indossare le apposite mascherine costruite dall’ALIFAX; filtravano l’aria rendendola pura, ma i filtri andavano cambiati una volta al mese presso la sede centrale dell’azienda. Ma come aumentano i costi per le armi in tempo di guerra, così il costo delle mascherine era cresciuto vertiginosamente ed erano moltissime le persone che non potevano permettersele... e molte di queste, a causa dell’inalazione dell’aria tossica, morivano soffocate, altre si ammalavano di cancro ai polmoni e di un’altra malattia chiamata varicoliosi: un virus sconosciuto fino a due, tre anni fa, ora, purtroppo, tristemente noto; non esisteva ancora nessun vaccino, nessuna medicina che potesse salvare da quel morbo. Era una malattia che portava inevitabilmente alla morte, una morte lunga e dolorosa: escoriazioni su tutto il corpo, fuoriuscite di liquidi dalle cavità oculari e nasali, perdita della memoria, della vista, dell’olfatto, dell’udito, paralisi degli arti inferiori.

    Il virus colpiva esclusivamente gli esseri umani, gli animali ne erano immuni.

    Le persone infette si trasformavano in esseri vegetali estremamente contagiosi, che venivano perciò rinchiusi in celle sotterranee al buio, al freddo, senza cibo e acqua, nell’intento di velocizzare il trapasso. Ma l’istinto primordiale dell’uomo è quello della vita, e la voglia di sopravvivere spesso era più forte della malattia e spingeva perciò i malati ad atti di cannibalismo che si consumavano nell’oscurità del sottosuolo.

    Questo lo sapevo perché un mio amico, Tim Burkley, lavorava lì come Guardia. Era entrato nella Security Force da giovane e gli era stato subito assegnato quel compito in attesa di una promozione che, a sentir lui, era imminente, visti i suoi buoni risultati. La Security Force fu fondata dal capitano Gary Fùrgel, uomo crudele come pochi; dieci anni prima, era stato condannato per violenza sessuale e omicidio di una dodicenne, ma assolto inspiegabilmente.

    La Security Force era un corpo armato scelto che aveva l’obiettivo di garantire la pace e la sicurezza nelle città anche attraverso mezzi poco ortodossi; in molti, infatti, raccontavano di aver avuto incontri con quelle persone, e descrivevano stanze buie e sporche, dove venivano picchiati, torturati, umiliati durante gli interrogatori. Interrogatori il cui contenuto restava un mistero, nessuno aveva mai raccontato cosa venisse loro chiesto, non potevano, tutto doveva restare segreto, altrimenti l’avrebbero pagata cara. Un corpo di polizia che in realtà non faceva altro che imporre il volere di qualcuno con la forza e il terrore, qualcuno che agiva nell’ombra.

    La Security Force era divisa in diversi settori e a ognuno era assegnato un compito specifico.

    Le Ronde indossavano una divisa color rosso fuoco con una banda verticale nera sul lato sinistro; l’equipaggiamento comprendeva un manganello e una pistola elettrica. Il loro compito era quello di sorvegliare le strade ventiquattro ore su ventiquattro in squadre formate da almeno quattro uomini. Erano i primi a intervenire in caso di disordini e in situazioni di particolare urgenza e pericolo era richiesto l’intervento della Squadra Speciale: uomini scelti per la loro stazza e forza fisica che avevano l’obiettivo di entrare in azione per placare rivolte particolarmente violente. Erano autorizzati a utilizzare qualsiasi mezzo pur di riuscire nell’intento. Indossavano una divisa completamente nera e un casco della stessa tinta che ricopriva mezzo volto; erano autorizzati a portare un mitra, una pistola e una frusta d’acciaio.

    C’erano poi i Torchiatori, coloro che svolgevano gli interrogatori; avevano il volto coperto da un passamontagna e quali mezzi utilizzassero per estorcere le informazioni, restava un mistero.

    L’Élite era invece l’organo più importante, quello che prendeva le decisioni, che ordinava, quello più temuto; i suoi membri operavano dalle sedi centrali della Security Force, in uffici lussuosissimi, standosene comodamente seduti in poltrona. Non avevano l’obbligo di indossare nessuna divisa ed entrare a far parte dell’Élite era tanto ambito quanto difficilissimo; erano, infatti, soltanto trecento i suoi membri, sparsi per il mondo, ciascuno dei quali durava in carica dieci anni.

    Sopra l’Élite c’era soltanto il Capo Supremo, Gary Fùrgel prima, il figlio Van poi. Era lui a scegliere i membri di ogni settore, a comandare su tutto il corpo di polizia e i suoi poteri nel campo della sicurezza pubblica erano praticamente infiniti.

    E infine c’erano le Guardie, l’organo meno importante e con il compito più infame. Indossavano uno scafandro bianco per evitare il contagio proprio perché provvedevano ad arrestare i malati di varicoliosi, li conducevano nelle celle sotterranee e vi restavano di guardia. Tim era uno di loro, e mi raccontava spesso le cose spaventose che accadevano lì giù, violando il segreto professionale; racconti che avrebbero fatto rabbrividire chiunque. Mi spiegava come la malattia degenerava, come trasformava le persone, le rendeva irriconoscibili; mi raccontava come questi esseri vegetali fino a quando la paralisi non li bloccava definitivamente, vagavano nelle loro celle larghe tre metri per cinque ammassati a volte anche in sei o sette, orinando per terra e bevendo poi l’urina per cercare di sopravvivere un giorno in più. E di come sempre più spesso si scagliavano l’uno contro l’altro strappandosi brandelli di pelle a morsi spinti dalla fame lacerante e di come divoravano con avidità i corpi dei loro compagni deceduti. Tim era felice di quel lavoro, era quello che aveva sempre sognato da bambino; quando a scuola gli amici lo prendevano in giro per il suo peso, diceva loro che un giorno si sarebbe vendicato, non appena fosse entrato nella Security. Ce l’aveva fatta, ma il suo obiettivo era diventare un membro della Squadra Speciale, così da poter sfogare tutta la sua repressione sulla gente.

    «Un giorno ce la farò» diceva. «Vedrai! Indosserò anch’io la divisa nera al posto di questo scafandro, e la gente avrà paura di me, mi rispetterà... Vedrai...»

    Questo era uno delle poche cose in cui io e Tim eravamo completamente diversi: io e la mia famiglia odiavamo la Security; la consideravamo un pericolo per la sicurezza e disprezzavamo i suoi mezzi intimidatori.

    Tim invece l’aveva sempre ammirata, aveva sempre desiderato farne parte. Questo sicuramente anche perché il padre, Ronald Burkley, era un Torchiatore, tra i più temuti all’interno della Security. Una volta, mi raccontò Tim, si presentarono a cena a casa loro addirittura quattro membri dell’Élite e chiamavano il signor Burkley per nome, come fosse uno di loro e un giorno ricevette una telefonata del signor Fùrgel in persona.

    Anche per questo forse Tim era sicuro di una promozione. Il suo cognome l’avrebbe certamente aiutato.

    Capitolo 2

    Fortunatamente ero riuscito ad acquistare una salvavita dell’ALIFAX (così erano chiamate le mascherine) impegnando diversi gioielli che erano appartenuti a mia madre;

    «Sta facendo la cosa giusta» mi disse l’impiegato. «Ha perso qualche ricordo, ma ha guadagnato la vita!»

    Sì, era vero, ti salvavano la vita, ma allora perché non regalarle, perché non permettere a chiunque di salvarsi, perché invece continuavano a essere vendute a un prezzo inaccessibile per troppi?

    Addirittura ricordo una sera di essere entrato in uno dei ristoranti più costosi del paese, Thinger’s, per incontrare un attore per un’intervista e dietro di noi era seduto un gruppo di persone, tra le quali un signore che, forse in preda ai fumi dell’alcool, pareva farneticasse. «Quest’effetto serra è una manna! La varicoliosi sta eliminando molte persone...!» ripeteva. «...Barboni, straccioni, mendicanti... solo gli eletti meriteranno la salvezza...! E l’ALIFAX ci sta offrendo l’elisir della lunga vita!»

    Passando vicino la cassa per pagare il mio whisky, sbirciai un conto poggiato lì vicino: due bottiglie di Cristal Rose Magnum da 5000$ l’una, tre di Chateau Petrus da 10000$, tagliolini Truffle da 200$, due Truffle carpaccio da 100$, cinque Takni 40 da 275$, un bicchiere di Jhonny Walker da 75$... il tutto per l’incredibile ammontare di 37.120$... Chiesi allora di chi fosse.

    «È per il senatore Rashfield. Victor Rashfield, un pezzo grosso» mi rispose il proprietario indicandomi quel signore ubriaco.

    I miei filtri stavano per consumarsi e dovevo urgentemente recarmi alla sede centrale per sostituirli... non era una cosa che amavo fare, perché significava attraversare tutta la città e aspettare in fila per ore. Ma andava fatto.

    Lasciai il mio appartamento e m’incamminai su per Major Street a piedi, poiché l’utilizzo delle auto era stato vietato ai civili ormai già da un paio d’anni a causa dell’inquinamento, mentre era invece permesso ai membri della Security. E per muoverti o decidevi di camminare, oppure ti abbonavi al servizio Aria pulita dell’ALIFAX che utilizzava mezzi di trasporto a energia solare; ma l’abbonamento era un altro privilegio per pochi, visto il prezzo esorbitante, e io non potevo permettermelo.

    Così, ero costretto a attraversare l’intera città sotto quel sole insopportabile.

    Major Street era una lunghissima strada che collegava Ground Five Plaza con Rashmore Square, due delle piazze principali della mia città.

    Era un via piacevole da percorrere, almeno fino a qualche anno fa, quando la situazione non era ancora così disastrosa; su entrambi i lati era costeggiata da pioppi rigogliosi e ristoranti chic, negozi di artigianato e grandi firme. C’era anche un importante albergo, il Central Park Hotel, cinque stelle lusso, e da bambino mi piaceva tantissimo fermarmi di fronte l’ingresso e guardare la gente che entrava e usciva con indosso gioielli e buffi cappelli. È strano come fosse ancora lucido il ricordo di quella strada, visto che oramai erano già parecchi anni che era totalmente cambiata. Addirittura ricordavo ancora il negozio di scarpe di proprietà di Auly Campel, la ragazza più bella della Saint Paul High School, il mio liceo; tutti i ragazzi della scuola il pomeriggio si fermavano lì di fronte nella speranza di riuscire a intravederla attraverso le vetrine e incrociare il suo sguardo, e io ero uno di quelli.

    Lei era bellissima, aveva dei lunghi capelli neri e gli occhi di un verde quasi fosforescente, impressionanti; riuscivano a ipnotizzarti. Sembrava più grande della sua età, dimostrava almeno due, tre anni in più e forse anche per questo i nostri professori non facevano altro che complimentarsi con lei e approfittare di ogni occasioni per carezzarle la spalla o stringerle la mano.

    Un giorno la vidi entrare in sala riunioni con il docente di chimica e uscirne poco dopo, seguita da quell’uomo con un’aria soddisfatta stampata sul volto. Che cosa fosse successo lì dentro fu facilmente intuibile qualche mese dopo quando fu arrestato per molestie sessuali su minorenni. Un giorno a scuola incrociai lo sguardo di Auly nel corridoio e mi sorrise; ma non fu un sorriso normale, ebbi la netta sensazione che in realtà quella ragazza non fosse per nulla felice come cercava di far sembrare... nascondeva una sofferenza profonda.

    In città si raccontavano strane storie sulla sua famiglia.

    La madre era stata rinchiusa in una casa di cura poco dopo averla partorita; dicevano che una notte il marito l’aveva sorpresa in balcone con la piccola tra le braccia in procinto di lanciarsi nel vuoto ed era riuscito a bloccarla.

    Il padre, il signor Michael Campel, da quel giorno rimase solo con la bambina, ma era un uomo d’affari sempre in viaggio, e perciò Auly viveva nell’enorme villa di famiglia con la servitù.

    Ma quell’uomo era cattivo; la notte, quando era in città, rincasava ubriaco e violentava le cameriere legandole al letto e dopo, picchiava con violenza la povera piccola senza mai però lasciarle segni sul corpo.

    Quando finiva la scuola la costringeva a lavorare nella boutique di Major Street dalla mattina fino alla chiusura senza neanche permetterle di tornare a casa per riposarsi.

    «Non voglio dipendenti che lavorano uno schifo ed esigono anche di essere pagati!» le urlava.

    Una mattina il signor Campel fu trovato morto nel suo letto in un mare di sangue con un’ascia conficcata nel petto.

    Auly non era in casa, e di lei si persero per sempre le tracce.

    Ora Major Street non aveva più niente di quella strada di un tempo: i pioppi non ombreggiavano più la via da anni, la maggior parte dei ristoranti e dei negozi aveva chiuso per fallimento e gli unici rimasti aperti avevano gonfiato i prezzi alle stelle.

    Al posto del Central Park Hotel ora c’era lo stazionamento dei veicoli della Security e dell’ALIFAX. E la boutique di Auly era stata sostituita da un banco dei pegni, lo stesso dove avevo depositato i gioielli di mia madre in cambio dei soldi necessari per la salvavita. Erano il decadimento e l’abbandono a far da sovrani su quella strada.

    Arrivato a Rashmore Square, imboccai Pennington road direzione ovest e quella era sicuramente una delle strade peggiori di tutta la città; era lì, infatti, che si trovavano le celle sotterranee. L’ingresso era situato sul lato destro della via, sorvegliato giorno e notte da tre Guardie armate; alle spalle della cancellata, sulla quale padroneggiava la scritta Vietato l’ingresso ai non autorizzati - zona militare limite invalicabile - zona a elevatissimo rischio di contagio, s’intravedeva la scalinata buia che conduceva alle celle.

    Ma la cosa peggiore di Pennington road era l’olezzo che aleggiava nell’aria; un odore fetido, un misto di urina, feci e carne in decomposizione. Fortunatamente le mascherine proteggevano in parte da quella puzza, ma era talmente intensa che penetrava anche attraverso le salvavita.

    Il tanfo, naturalmente, proveniva dal sottosuolo, dalle celle dei malati sporche e sovraffollate; venivano pulite soltanto quando si svuotavano completamente, quindi capitava che un infetto restasse per diversi giorni da solo in una cella tra gli escrementi e i corpi degli altri già morti. E ovviamente, complice il caldo asfissiante, l’olezzo saliva fino in superficie, rendendo quella strada una fogna a cielo aperto.

    Attraversata a passo svelto Pennington road, continuai per Silver street, Foxnew avenue e giunsi a Moliteen park, circa mezzo chilometro dalla sede centrale dell’ALIFAX.

    Quando già s’intravedeva il tetto dell’edificio, un urlo squarciò il silenzio e i miei pensieri.

    Nel parco, a pochi metri di distanza da me, una donna urlava e piangeva disperata, continuando a strofinarsi con violenza il volto.

    Non capii subito il perché di tutto quello, non mi rendevo conto di cosa stesse succedendo, fino a quando un signore alle mie spalle urlò:

    «Oh mio Dio! Un infetto! Un infetto in libertà!»; quelle parole provocarono il panico: tutti iniziarono a scappare, a urlare, cercavano di fuggire da quel posto.

    E fu allora che lo vidi...

    Capitolo 3

    Un uomo di mezza età, con i capelli brizzolati, coperto di stracci e con un paio di ciabatte ai piedi, era immobile al centro di un’aiuola. Non indossava la mascherina, e il suo sguardo era fisso nel vuoto. Ma non era il suo abbigliamento ad aver attirato l’attenzione della gente, bensì quello che gli stava succedendo sul volto: un lungo rivolo di liquido giallo gli scorreva dall’occhio sinistro e dalle narici sgorgava sangue. Sintomi tipici della varicoliosi.

    Negli occhi di quell’uomo si leggevano tutta la disperazione e l’angoscia di chi aveva appena appreso di essere ormai già morto.

    «Chiamate la Security! Che mandino le Guardie a prelevare quel coso!» urlò la donna disperata che continuava a piangere; due ragazzi iniziarono invece a scagliare sassi contro il malato ricoprendolo di insulti:

    «Mostro! Mostro! Va via da qui!» gli intimavano.

    E lui restava lì, fermo, non reagiva a nulla, né alle offese né tanto meno alle sassate, immobile come una statua.

    La Security non tardò ad arrivare.

    Quattro Guardie coperte dallo scafandro, scesero dalla camionetta e si avvicinarono a passo svelto verso di noi.

    «Allontanatevi in fretta! È pericoloso restare qui! La zona va decontaminata e quell’uomo portato con urgenza in cella!» ci ordinò uno di loro.

    «Come farete a portarlo via?» gli chiesi.

    «Questo è un compito che spetta a noi signore, lei pensi soltanto ad allontanarsi» mi rispose.

    «Credo sia un mio diritto conoscere quali sono le tecniche utilizzate dagli organi che operano per la nostra sicurezza» continuai.

    «Senta, non abbiamo tempo da perdere; quell’uomo potrebbe avere già infettato altre persone e dobbiamo impedire che continui a farlo! Mi capisce?!» replicò la Guardia, stufa di dovermi dare spiegazioni.

    «Lo ascolti» s’intromise un altro. «Lo dice per il suo bene; restare qui è pericolosissimo per tutti voi.»

    «Certo, mi allontano. Era solo una domanda, tutto qui» gli risposi.

    «L’unico modo per portarlo via è colpirlo alla testa per fargli perdere i sensi; non verrebbe mai con noi altrimenti. Sa dove dobbiamo portarlo, e sa che lì è come scendere all’inferno» concluse la Guardia.

    Non avevo mai assistito a una cattura fino a quel giorno e fu qualcosa che difficilmente dimenticherò.

    I quattro uomini si avvicinarono al malato accerchiandolo.

    «Coraggio, stia tranquillo, è tutto a posto» gli disse uno di loro.

    «Siamo qui per aiutarla, se lei ce lo permette.»

    «No!» rispose il clochard. «So chi siete! Volete portarmi nelle celle, volete uccidermi!»

    «No signore, vogliamo solo aiutarla; vogliamo portarla in un centro dove si prenderanno cura di lei. Si fidi» continuò l’altro.

    «Sì, invece! Lo so! È quello che avete fatto a un mio amico! Lo avete colpito alle spalle, caricato su quella camionetta e portato nelle celle! Non lo farete anche con me, non voglio morire!» il clochard aveva la voce rotta dal pianto.

    «Signore, mi ascolti» riprese la Guardia. «Il suo naso continua a sanguinare e del liquido continua a scorrerle dall’occhio; lei ha contratto la varicoliosi e se non collabora, potrebbe contagiare altre persone. Per lei non ci sono più speranze; collabori, lo faccia almeno per gli altri!»

    Era la routine. Le Guardie dovevano cercare di convincere il malato a consegnarsi spontaneamente, senza ricorrere alla violenza.

    «No! Ve l’ho detto, non collaborerò! È solo sangue dal naso, non ho contratto nessuna malattia! Non verrò con voi lì giù!» urlò il clochard.

    Mentre succedeva tutto questo, la quarta Guardia si portò alle spalle dell’inconsapevole barbone; senza fare rumore estrasse il manganello.

    «Andate via! Via! Ora me ne torno a casa!» continuava il vagabondo.

    «Coraggio, faccia il bravo e si calmi; vedrà risolveremo tutto.»

    «No! No! Ve l’ho detto, non collab... Ouch!»

    Un colpo netto al centro della nuca lo colse di sorpresa; il clochard fece due passi in avanti barcollando e crollò a terra sanguinando copiosamente.

    «L’avevamo avvisata...» fece uno dei quattro.

    «Già; uomo avvisato mezzo salvato!» aggiunse un altro.

    «Coraggio, ora carichiamolo e portiamolo in cella prima che si risvegli.»

    «Sì, sbrighiamoci.»

    Lo trascinarono lungo l’erba lasciando una scia di sangue fino alla camionetta e lo sistemarono nella parte posteriore.

    «Ecco fatto, fra un po’ arriverà un’altra squadra a decontaminare la zona.»

    «Perfetto. Possiamo andare.»

    «Ok, andiamo. Se lo meritava, un altro straccione in meno!» Tutti e quattro scoppiarono in una fragorosa risata, salirono a bordo e partirono a sirene spianate.

    «Se lo meritava, un alto straccione in meno...»

    Quelle parole continuarono a ronzarmi nella testa; non riuscivo a dimenticarle... Perché essere così cattivi? Perché pronunciare una frase come quella? Che cosa aveva fatto di male quel clochard per meritarsi la morte? Mi sembrava di aver già ascoltato parole simili...

    Il rintocco dell’orologio di Huppelfield Church mi destò da quei pensieri e mi diressi verso l’ALIFAX che distava oramai pochissimo.

    Capitolo 4

    L’edificio era altissimo, circa venti piani; era azzurro con le porte e le finestre dorate. La scritta ALIFAX, anch’essa in oro, era impressa in rilievo a caratteri cubitali sulla parete centrale. Il parcheggio che circondava la costruzione era pieno di autoveicoli dell’azienda e un settore era riservato invece a quelli della Security; i bus del servizio Aria pulita erano esposti in bella mostra di fronte l’ingresso principale, con uno stand vicino dove era possibile sottoscrivere un abbonamento.

    Nella piazzola centrale era situata un’enorme fontana al centro della quale, in marmo lucido, vi era un uomo nudo che reggeva la Terra, salvandola dalle fiamme: non era altro che una rappresentazione metaforica dell’azienda stessa.

    Ma la propaganda aziendale non era rappresentata soltanto dalla fontana, ma anche da numerosi cartelloni pubblicitari.

    L’ALIFAX è vita!, Grazie all’ALIFAX siamo ancora vivi!, L’ALIFAX rende la vita migliore!; questo era quello che recitavano. Ma ce n’erano tanti altri.

    E com’era prevedibile, un’interminabile fila di persone affollava l’ingresso, tutte lì per il mio stesso motivo; calcolai approssimativamente almeno due, tre ore di attesa, ma dovevo necessariamente aspettare.

    Riconobbi qualche faccia conosciuta: un po’ più avanti c’era Roger, il portiere del mio palazzo; un po’ più in là, invece, Betty, la fioraia di Major Street accompagnata dal marito Stew.

    «Ehi, Ed!» una voce dietro di me mi chiamò. «Anche tu qui!»

    Alle mie spalle c’era Freddy Crimes, un carissimo amico che conoscevo da anni. Anche lui aveva frequentato la Saint Paul High School; eravamo nella stessa classe, io, lui e Tim.

    «Freddy! Come va?» lo abbracciai.

    «Non benissimo Ed. Ti ricordi Daly, la ragazza con la quale vivevo?»

    «Come no, certo. La biondina.»

    «Esatto, lei. Mi ha piantato. Ha detto che non potevo offrirle nulla, che ero un fallito senza lavoro; ed è partita con un ricco magnate.»

    «Mi dispiace Freddy, davvero.»

    «No Ed, meglio così. Una come quella meglio perderla che trovarla, credi a me. E poi mi sono preso una grandissima soddisfazione...»

    «Cioè?»

    «Ricordi Miguel Molines? Quel ragazzo che conoscemmo in quel viaggio a Cuba dopo il liceo?»

    «Miguel...? Sì, certo! Quel tipo un po’ grassoccio che ci fece da guida.»

    «Esatto lui, il ciccione. Qualche anno fa mi chiamò, mi disse che era qui in America e che voleva parlarmi; ci incontrammo e mi raccontò che era diventato uno dei soci maggioritari dell’ALIFAX, un pezzo grosso.»

    «Ma chi, Miguel? Ma dai!»

    «Te lo giuro! Sembrava incredibile anche a me. E invece era tutto vero. E mi offrì un posto come dirigente.»

    «Sei un dirigente dell’ALIFAX?»

    «Ovviamente accettai subito! Ed eccomi qui.»

    «Caspita! Complimenti Fred, è un’ottima occupazione!»

    «Sì, lo so. Una vera botta di culo! Aspettavamo un’occasione del genere da anni...» Lessi un’espressione strana nei suoi occhi, difficile da decifrare. E poi perché aveva utilizzato il plurale?

    «Ma la cosa più bella» continuò. «È che non appena Daly l’ha saputo, mi ha telefonato; mi ha detto che le cose non andavano bene, che aveva capito che in realtà, l’uomo che amava ero io e che voleva assolutamente rincontrarmi.»

    «E tu che le hai risposto?»

    «Di fottersi, e ho riattaccato!»

    «Ben fatto!»

    «Già...»

    In realtà, però, nel suo sguardo era leggibile un pizzico di rammarico e di nostalgia; amava ancora quella donna.

    «E sei qui per sostituire i filtri?» mi domandò.

    «Sì, devo proprio. Anche tu qui per lo stesso motivo?»

    «No, no. Li ho sostituiti ieri. Sono qui per lavoro. Ho il mio ufficio al dodicesimo piano.»

    «Ah, lavori qui in città? Anche fortunato!»

    «E che ci vuoi fare; dopo anni di disoccupazione e di stenti...»

    «Te lo meriti Fred.»

    «Senti» mi disse con un tono di voce più basso. «Vieni con me, ti faccio saltare tutta questa fila. Entriamo dalla porta di servizio.»

    «Grazie, Freddy. Avrei perso l’intera giornata altrimenti!»

    Sorpassammo il lunghissimo corteo sulla destra e dal gruppo si levò qualche protesta.

    «Siamo dipendenti, dobbiamo lavorare! Tranquilli, nessuno vi ruberà il posto!» li zittiva Fred.

    La porta di servizio era poco distante da quella principale e all’esterno un addetto alla sicurezza chiese al mio amico il tesserino.

    «Crimes. Buona giornata» gli disse.

    «Mark, lui è con me, fallo passare» gli ordinò Fred.

    «D’accordo. Buona giornata anche a lei.»

    Entrati nell’edificio, respirammo subito un’aria fresca; l’ingresso era pavimentato in marmo color avorio e le pareti erano azzurre come all’esterno. Sulla destra c’erano quattro ascensori che portavano ai piani superiori, sulla sinistra invece, alcuni uffici; di fronte era situato

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1