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La profezia dei templari
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E-book367 pagine5 ore

La profezia dei templari

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Info su questo ebook

È da millenni che non si vedeva un bestseller così

Un grande thriller

Anno del Signore 1190, terza crociata. Un cavaliere templare, Johannes von Hartelius, ha il compito di salvare la Lancia Sacra di Longino, protetta per generazioni dai suoi antenati e ora in pericolo. 
Germania, 1945. Il Führer in persona sigilla dei documenti che ha ricevuto, li lega alla custodia dove è contenuta la Lancia Sacra e affida tutto a un discendente del cavaliere von Hartelius.
Giorni nostri. Il fotoreporter John Hart ritrova il corpo di suo padre crocifisso, con il marchio di una lancia su un fianco. Sopraffatto dal dolore, scopre dopo poco la missione della sua famiglia: difendere a ogni costo la lancia da un’organizzazione occulta, la Confraternita. Deciso a ottenere giustizia per suo padre, Hart riesce a infiltrarsi tra gli adepti, ma si renderà presto conto che il segreto della Lancia è più terribile di quanto avrebbe potuto immaginare…

Un autore da 1 milione di copie
Tradotto in 38 Paesi

Un viaggio nel tempo
Un thriller che vi lascerà senza fiato

Hanno scritto sulla trilogia di successo dell’autore:

«Tra mistero, thriller, paranormale ed esoterismo, lo scrittore britannico accompagna il lettore in un viaggio al cardiopalma alla ricerca di una verità scomoda e spaventosa.»
horror.it

«Una serie avvincente a sfondo esoterico che tiene il lettore avvinto alla trama, pagina dopo pagina. Un vero must per quanti amano i romanzi imperniati sulla decifrazione di codici.»
thrillermagazine.it
Mario Reading
È nato nel 1953 a Bournemouth in Inghilterra e ha studiato all’università letteratura comparata. Collezionista di libri antichi, esperto delle profezie di Nostradamus, è stato, tra molte attività avventurose, insegnante di equitazione in Africa e gestore di una piantagione di caffè in Messico. Autore del bestseller internazionale Le profezie perdute e della Trilogia dell’Anticristo, pubblicata in 39 Paesi, è scomparso nel 2017
LinguaItaliano
Data di uscita26 gen 2017
ISBN9788822704894
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    Anteprima del libro

    La profezia dei templari - Mario Reading

    Capitolo 1

    Homs, Siria

    16 luglio 2012

    La manifestazione per la pace stava sfuggendo rapidamente al controllo. John Hart lavorava come fotogiornalista da quindici anni ed era pronto a percepire focolai di energia negativa. Intuiva quando le cose stavano per volgere al peggio. Per questo era ancora vivo.

    Hart si fece strada a gomitate verso il fronte della folla e cominciò a scattare foto, cambiando fuoco ed enfasi con la stessa naturalezza con cui cambiava macchina fotografica. Ma il tempo a disposizione non era infinito, e doveva avere il materiale pronto prima che la folla cominciasse a cercare dei capri espiatori. Aveva nascosto il giubbotto antiproiettile e l’elmetto da difesa antiaerea dietro un muro, ma non passava di certo inosservato. Aveva tre corpi macchina appesi al collo e uno zaino a parte per l’iPad e gli obiettivi. Se anche un solo uomo lo avesse fatto oggetto di particolare attenzione, Hart sarebbe dovuto scappare. Era vicino ai quaranta anni, e non correva più veloce come un tempo.

    Risuonarono dei colpi d’arma da fuoco. Erano distanziati l’uno dall’altro e regolari, come se chiunque stesse sparando avesse un programma prestabilito – un cecchino o qualcuno che esplodeva una serie di colpi d’avvertimento. La folla si riversò nella direzione da cui provenivano i colpi.

    Hart aveva già assistito a una cosa del genere. Era un brutto segno. Significava che le persone non si preoccupavano più di quel che poteva capitare loro, e facevano affidamento solo sulla superiorità numerica per proteggersi.

    Hart si lasciò trascinare verso il lato del viale. Sentì odore di gas lacrimogeno. Deviò in una strada laterale che procedeva parallela alla via principale. Si ritrovò quasi immediatamente a correre insieme a un gruppo di circa trenta giovani uomini con i volti coperti. Alcuni stavano parlando al cellulare. Avevano organizzato qualcosa, concluse. E per uno scopo ben preciso. Li avrebbe seguiti, in attesa di vedere cosa sarebbe successo.

    Hart e i suoi compagni sbucarono in una piazza semi-abbandonata. La zona aveva subito di recente un bombardamento o un attacco concertato dei carri armati. Lamiere e cemento sgretolato aumentavano l’effetto da paesaggio lunare. Il sole scintillava su una distesa di vetri rotti.

    Hart si tenne a lato del gruppo, scattando foto in continuazione.

    Una Peugeot 205 gialla doppiò l’angolo opposto della piazza a forte velocità, centrò un mucchio di detriti e si cappottò.

    Il gruppo cambiò direzione come un animale che ha fiutato la preda.

    Un uomo emerse dallo sportello accartocciato della Peugeot, i lineamenti nascosti dietro una maschera di sangue. Quando vide la folla puntare verso di lui prese la decisione più deleteria della sua vita. Tirò fuori la pistola.

    Ci fu un boato collettivo. Il gruppo si trasformò in un’orda. Il loro obiettivo, prima indefinito, si palesò.

    L’uomo esplose tre colpi in aria. La folla tentennò per un istante, poi tornò a compattarsi. Iniziò a lanciare una gragnola di mattoni, pietre e pezzi di cemento. Hart si rese conto che nessuno era in vena di prestare alcuna attenzione alla parola press stampinata sul tetto della Peugeot sia in inglese che in arabo.

    Si posizionò sopra una piramide di detriti di cemento e cominciò a scattare foto. Sapeva bene che non doveva farsi coinvolgere in quel che stava succedendo. Era un veterano dell’assedio di Sarajevo. Dei conflitti in Sierra Leone e Cecenia. Della guerra in Afghanistan. I fotografi non fanno la storia – la documentano. Era una verità indiscutibile. Mai intromettersi negli eventi.

    Fu allora che la donna entrò barcollando nel suo campo visivo e ribaltò tutte le sue certezze. Probabilmente stava viaggiando sul sedile posteriore della Peugeot, intenta a digitare un testo sul suo iPad che ora stringeva al petto come un talismano. Hart la riconobbe nonostante il giubbotto antiproiettile e l’elmetto imbottito con il gruppo sanguigno stampato sulla parte anteriore in inchiostro bianco indelebile. Era la giornalista Amira Eisenberger.

    Conosceva Amira da dieci anni. Erano andati a letto insieme ad Abidjan, al Cairo e a Baghdad. Una volta avevano anche passato insieme quindici giorni di ferie nell’isola keniota di Lamu, e poco dopo Amira si era scoperta incinta. La natura discontinua della relazione andava bene a entrambi. Nessun legame. Nessun impegno. Innamorarsi in tempo di guerra è facile. La parte difficile era mantenere in vita il rapporto quando scoppiava di nuovo la pace.

    Hart spostò le macchine fotografiche dietro la schiena e si lanciò di corsa in direzione della folla, gridando. L’autista era morto. L’orda si stava concentrando sulla donna.

    Un giovane tentò di afferrare l’iPad di Amira. La donna cercò di opporre resistenza, ma il ragazzo la colpì sul viso con il dorso della mano e scappò via con il bottino. Passando accanto al corpo malconcio dell’autista, gli allentò un calcio.

    Un uomo, un po’ più vecchio degli altri, raccolse la pistola del morto. Costrinse Amira a mettersi in ginocchio, le buttò a terra l’elmetto e le puntò l’arma alla tempia.

    «No!», urlò Hart. «È una giornalista. È dalla vostra parte».

    La folla si girò verso di lui come un sol uomo.

    Hart agitò la tessera stampa sopra la testa e parlò in un arabo zoppicante. «Non è responsabile per quello che ha fatto l’autista. Lei appoggia la vostra rivoluzione. Conosco questa donna». Stava contando sul fatto che alcuni degli uomini dovevano averlo visto correre con loro e scattare foto. Ormai si erano abituati alla sua presenza. Era intuibile che non lavorava per Assad o la cia. «La conosco».

    Fecero inginocchiare Hart accanto ad Amira. Poi gli presero le macchine fotografiche e lo zaino con l’attrezzatura.

    Hart sapeva che era meglio non discutere. Tre macchine fotografiche e un iPad non valevano quanto la vita. Le avrebbe ricomprate al mercato nero quando le acque si sarebbero calmate.

    «Siete spie vestite da giornalisti. Vi spariamo».

    «Non siamo spie», disse Amira, anche lei in arabo. «Quest’uomo dice la verità. Noi appoggiamo la vostra rivoluzione».

    L’uso della loro lingua da parte di Amira spiazzò i rivoltosi.

    «Mostraci la tessera stampa».

    Amira tastò la tasca interna della giacca e tirò fuori la tessera.

    L’uomo più anziano sollevò gli occhiali sulla fronte e tenne la carta talmente vicina agli occhi che fu evidente che soffriva di una forte miopia. «Qui dice che il tuo nome è Eisenberger. È un nome ebraico. Sei un’ebrea».

    «Mi chiamo Amira. Mio padre è arabo».

    «Ma tua madre è ebrea. Hai scelto di portare il suo nome. Sei una sionista. Sei una spia israeliana».

    Hart sapeva che lui e Amira erano condannati. Niente avrebbe potuto salvarli. L’uomo che impugnava la pistola aveva una barba rada da mullah ed era un leader riconosciuto. Mentre Hart lo osservava, armò la pistola.

    Lo schianto e il sibilo di un fuoco crescente di mitragliatrici echeggiò nella piazza. La folla si aprì in tutte le direzioni come un fiore al vento.

    Hart si gettò su Amira proprio mentre l’uomo con la pistola prendeva la mira. Perché l’aveva fatto? Istinto? Senso di cavalleria? Perché Amira aveva brevemente – molto brevemente – portato in grembo suo figlio? Probabilmente la pallottola avrebbe attraversato il suo corpo privo di protezione e ucciso comunque Amira. Che modo stupido di morire per entrambi.

    La pistola fece clic su una camera di caricamento vuota. L’uomo con la barba invocò Allah a testimone della inservibilità dell’arma dell’autista morto.

    Hart si girò e lo guardò.

    I due uomini si fissarono.

    Hart si alzò in piedi e gli si avvicinò.

    L’uomo puntò la pistola alla fronte di Hart e premette il grilletto una seconda volta.

    Non successe nulla. Nel caricatore erano rimaste solo tre pallottole, e l’autista morto le aveva sprecate sparando quei colpi di avvertimento.

    Hart mise le mani intorno al collo dell’uomo e cominciò a stringere. Più tardi Amira gli disse che aveva gridato nel farlo, ma lui non ne aveva alcun ricordo. Sapeva solo che una nebbiolina rossa era calata su di lui e lo sguardo si era rivolto verso l’interno, come un uomo che sta per morire. Come un morto vivente.

    Soldati del governo siriano separarono i due uomini pochi istanti dopo. In quel momento, l’uomo che aveva tentato di uccidere sia lui che Amira era ancora vivo e vegeto.

    In seguito, quando lui e Amira attraversarono di nuovo la piazza, diretti all’aeroporto, dopo la loro espulsione formale da parte delle autorità siriane, videro il corpo dell’uomo accartocciato contro un muro, come se fosse stato sbattuto lì da uno tsunami. Quando chiesero al soldato al volante cosa fosse accaduto, rispose loro che l’uomo aveva cercato di fuggire ed era stato inavvertitamente investito da un camion.

    Hart si appoggiò contro il fianco del furgone e chiuse gli occhi. Cos’è questa follia?, si domandò. Perché sono qui? Perché sono ancora vivo?

    Quando Amira allungò la mano a toccargli il braccio, Hart scosse la testa.

    Capitolo 2

    Fiume Saleph, Armenia cilicia, Turchia meridionale

    10 giugno 1190

    Johannes von Hartelius non aveva mai visto prima un uomo in armatura completa cadere in un fiume impetuoso. Tanto meno l’imperatore del Sacro Romano Impero.

    Vestito solo di una camiciola di lino e un paio di braghe in pelle di pecora, Hartelius si precipitò sulla riva e si tuffò nell’acqua gelida. Fu trascinato all’istante verso la corrente centrale, quindici metri oltre il punto in cui Federico Barbarossa e il suo destriero ferito stavano lottando per restare a galla. Il cavallo da battaglia del sovrano non poteva competere con la combinazione di uomo e armatura abbarbicata come un peso morto al pomo della sella. Inoltre, la freccia di balestra piantata nel collo dello stallone, che ormai sanguinava a fiotti, lo stava indebolendo di minuto in minuto.

    Hartelius, scarso nuotatore anche nelle circostanze migliori, riusciva solo a gettarsi palate d’acqua contro il torace, lanciandosi in un affondo per poi allargare le braccia come un uomo che accolga l’amata per stringerla al petto. Entrambi gli scudieri del re, rapidamente separati dalle loro cavalcature, si erano già arresi al fiume. Hartelius era solo con il monarca sessantasettenne, ma ancora distante più di sei metri dalle sue spalle. Dietro di sé, sentì il clamore dell’imboscata spegnersi in lontananza, lasciando il posto al rombo avido del fiume.

    Su rive opposte, cavalcavano in parallelo i due balestrieri turchi che avevano preso di mira il re. Hartelius si lanciò di lato appena il primo e poi il secondo cavaliere scagliarono i loro dardi. Il primo quadrello rimbalzò sulla superficie dell’acqua a poca distanza dalla testa di Hartelius, mentre il secondo solcò la luce del crepuscolo in un ampio arco discendente. Hartelius si gettò indietro nel tentativo di evitare il missile, ma il dardo gli tranciò la pelle della guancia destra con la stessa precisione di un’accetta che spacca il legno.

    Hartelius affondò sotto la superficie del fiume. Sentì la morsa gelida dell’acqua intorpidire la ferita; vide la chiazza rossa del proprio sangue portata via dalla corrente verso la luce evanescente del cielo. Quando riaffiorò, il cavallo del re stava nuotando da solo – il sovrano non si vedeva da nessuna parte. Hartelius si tuffò, ma il freddo e lo shock della ferita cominciavano a farsi sentire. Per tre volte ancora si sforzò di raggiungere il fondo del fiume, ma ogni tentativo risultò più superficiale e meno efficace del precedente. Ormai era consapevole di essere ben oltre il punto in cui il re si era separato dal suo destriero. E non c’era alcuna possibilità di tornare indietro contro corrente.

    Hartelius abbandonò la testa in avanti tra le braccia e lasciò che il fiume lo portasse con sé. A una decina di metri da lui, vide i due balestrieri esitare e guardare indietro. Il loro bersaglio principale era morto – nessun uomo avrebbe potuto resistere a una corrente così impetuosa con addosso l’armatura. In prossimità del buio, perché sprecare le forze per un cavaliere ferito, seminudo e privo di equipaggiamento, quando il vero bottino era rimasto all’accampamento? I turchi fermarono i cavalli e tornarono sui propri passi lungo le rive opposte del fiume, prima all’ambio, poi al piccolo galoppo.

    I balestrieri si erano realmente resi conto che la loro vittima era l’imperatore del Sacro Romano Impero in persona? Hartelius concluse che probabilmente non ne erano consapevoli. L’imboscata era cominciata poco prima del crepuscolo. Ed erano ormai tre giorni buoni che il re non era più scortato dal significativo stormo di corvi, la cui assenza, per molti, aveva preannunciato la sua morte imminente.

    Insieme, i corvi e la Lancia Sacra di Longino avevano rappresentato per i fedeli la prova inconfutabile che l’autorità del re gli era stata conferita direttamente da Dio. La sacra Lancia era proprio quella usata dal centurione romano cieco da un occhio, Longino, per colpire il fianco di Gesù sulla croce. La storia aveva interpretato questo gesto come un ultimo atto di pietà, per impedire la frattura simbolica delle ossa di Cristo da parte dei seguaci dei sommi sacerdoti israeliti, Anna e Caifa. Da allora, la Lancia Sacra era servita da emblema per tutti i grandi condottieri della Germania e dei regni d’Occidente. Ora i corvi erano spariti, e anche il sovrano. E la Lancia Sacra era senza dubbio sul fondo del fiume Saleph, dove nessuno l’avrebbe mai recuperata.

    Hartelius non ebbe altra scelta se non quella di abbandonarsi alla corrente e di lasciarsi trasportare. Più avanti, vide lo stallone del re guadagnare con immensa fatica la riva opposta e crollare su uno sperone di sabbia. Il corpo dell’animale fu squassato da uno spasmo, le zampe si agitarono in aria come quelle di un puledro appena nato, poi s’immobilizzò nella morte. Hartelius si diresse verso lo sperone. C’era un’unica soluzione possibile alla sua condizione, altrimenti sarebbe morto di freddo.

    Arrancò sulla sabbia e si trascinò fino al cavallo. La spada del re era ancora attaccata alla sella, dentro il suo fodero. La sfilò con sforzo e usò la lama per sventrare lo stallone. Sangue caldo e il contenuto dello stomaco si riversarono sui suoi piedi. Strappò via la sacca delle viscere e poi, soffocando i conati di vomito, si infilò dentro la pancia svuotata del cavallo turcomanno. Sentì il calore del corpo avvolgerlo e cullarlo come se fosse un bambino.

    In questo modo, attraverso questo simbolico rito di passaggio, Johannes von Hartelius, casto cavaliere templare che indossava con orgoglio il mantello bianco della purezza, frater et miles, e servo sotto giuramento dei re tedeschi, rinacque.

    Capitolo 3

    Venne il mattino e, con esso, il sole. Hartelius, maleodorante e infestato di mosche, sgusciò fuori dal suo nascondiglio e si guardò intorno. In lontananza vide del fumo – se saliva da fuochi di cottura del cibo o era la conseguenza di una carneficina, era impossibile dirlo.

    Hartelius abbassò lo sguardo sul cavallo turcomanno. Era stato per lui un ottimo rifugio. Per tutta la notte il suo calore residuo lo aveva riparato dal freddo e sottratto alla vista di ricognitori turchi o soldati in avanscoperta a caccia di sbandati. Adesso, avendo ormai sacrificato da tempo la camiciola per bendare il viso ferito, Hartelius decise che gli umori e il sangue rappreso che ancora rivestivano il suo corpo avrebbero protetto la pelle diafana, almeno per un po’, dai raggi del sole del mattino. Aveva convissuto con il tanfo delle viscere per tutta la notte – ormai ne era quasi immune.

    Sollevò la spada del re e fece per avviarsi. Ma un ricordo fugace lo fece indugiare. Alcuni anni prima, quando era un cavaliere molto giovane, il re gli era passato accanto a cavallo durante un’investitura presso la cattedrale di Spira. Ricordò di aver chiesto al suo compagno cosa contenesse la custodia in pelle finemente lavorata che pendeva dalla sella del re, sul lato opposto a quella della spada.

    «Ma quella è la famosa lancia. La Lancia Sacra di Longino. Il re la porta ovunque con sé».

    «Non può essere una lancia. Sarà lunga meno di trenta centimetri».

    Il suo compagno aveva riso. «La Lancia Sacra ha più di mille anni, Hartelius. Il legno dell’asta è marcito da tempo, lasciando solo la lama e un chiodo della croce di Cristo, che è stato assicurato alla parte smussata con del filo d’oro».

    Entrambi gli uomini si fecero il segno della croce appena fu menzionato il nome del Redentore.

    «Tu l’hai vista, Heilsburg? Hai visto la Lancia Sacra con i tuoi occhi?»

    «No. Nessuno al di fuori dell’imperatore del Sacro Romano Impero può posarvi lo sguardo. Ma finché è in suo possesso, o in quello dei suoi successori, Dio è con noi. Tutto è possibile».

    Fremente di aspettativa, Hartelius recise il sottopancia di pelle e sollevò la sella dalla carcassa dello stallone turcomanno. Sì. La custodia era ancora lì, penzolava dalle cinghie fissate al pomo, proprio come ricordava.

    Hartelius si chinò per slacciare le fibbie della custodia e rivelare la Lancia, ma una forza a lui estranea gli fermò le dita a pochi centimetri dalla chiusura.

    «Nessuno al di fuori dell’imperatore del Sacro Romano Impero può posarvi lo sguardo», aveva detto Heilsburg.

    Ritirò di scatto la mano come se avesse toccato il fuoco. In veste di templare, aveva fatto molte promesse solenni. La più importante fra tutte, il voto di obbedienza al Gran Maestro e, anche prima di questo, al suo Signore, l’imperatore del Sacro Romano Impero. Tali voti non potevano essere infranti, persino nelle circostanze eccezionali della morte di un re, senza che lo spergiuro rischiasse la dannazione eterna.

    Adattò il sottopancia del cavallo a cintura, alla quale appese il fodero con la spada del re e la custodia in pelle contenente la Lancia Sacra. Soddisfatto di come aveva sistemato ogni cosa, nascose la sella del sovrano dentro lo stomaco maleodorante del turcomanno, si dissetò al fiume e si avviò in direzione dell’accampamento. Se vi avrebbe trovato i suoi compagni d’arme o un nemico trionfante era nelle mani del Signore. Di una cosa, però, era certo: avrebbe fatto a pezzi la Lancia Sacra con il pomo della spada del re piuttosto che farla cadere in mano ai saraceni.

    Impiegò tre ore per percorrere il tratto lungo il quale la corrente l’aveva trascinato in soli venti minuti. Era scalzo. Persino con gli ultimi brandelli della camiciola avvolti intorno ai piedi, ogni passo era un tormento. Il terreno era pietroso e inclemente. Il sole, nonostante fossero i primi di giugno, era implacabile. Più volte fu costretto a fermarsi e riannodare il turbante in stile saraceno che aveva improvvisato per proteggere la ferita dalle mosche che gli ronzavano continuamente intorno.

    Si rese conto che l’accampamento era stato abbandonato solo quando salì su una collina a un quarto di miglio dal sito dove era stato allestito. Abbassò lo sguardo sulla babilonia che i cavalieri crociati si erano lasciati alle spalle e sentì una morsa di vergogna serrargli il cuore. I segnali erano chiaramente leggibili, come se fossero marchiati a fuoco nella sabbia in caratteri gotici.

    Affranti e smarriti per la morte inaspettata del loro re, i cavalieri erano tornati a casa. Non c’era altra spiegazione. Il percorso della ritirata era inequivocabile. Hartelius si riparò gli occhi dal sole e cercò di scorgere altri dettagli rivelatori dal caos lasciato dall’esercito in fuga.

    Sì. Una pista più sottile si allungava in direzione di Acri. Significava che il figlio dell’imperatore Barbarossa, Federico vi di Svevia, malgrado tutto aveva proseguito alla volta di Gerusalemme con i cavalieri rimasti? Oppure era la pista lasciata dai turchi in fuga dopo che avevano attaccato il campo e ucciso il re?

    Tirarsi indietro a questo punto sembrò impossibile a Hartelius. Se fosse caduto in una trappola, pazienza. Ma ora aveva un dovere ben preciso nei confronti della famiglia reale. Doveva restituire la spada del re e la Lancia Sacra ai suoi legittimi proprietari. Doveva anche spiegare dove e come recuperare il corpo del re dal fiume, sempre che qualcuno non avesse già provveduto.

    Hartelius aveva agito talmente d’impulso nel seguire il re in acqua che non sapeva ancora se qualcun altro l’avesse notato nella confusione del primo assalto nemico. L’attacco era avvenuto al calar del sole. La maggior parte dei suoi compagni erano in preghiera. Hartelius era stato dispensato dal partecipare ai vespri perché sfinito dal servizio di guardia. Esoneri del genere erano normali durante una campagna, dove le realtà militari avevano da tempo trionfato sui dogmi eccessivi. Hartelius si stava preparando per andare a letto quando i turchi erano piombati sull’accampamento.

    Ora, pericolosamente vicino alla disperazione, Hartelius frugò tra i resti lasciati dai cavalieri in fuga, alla ricerca di qualcosa da indossare sopra le braghe in pelle di pecora, ormai ridotte in condizioni pietose. Trovò solo un bliaut, appartenuto, senza dubbio, a una delle nobili ancelle inviate dalla Germania per servire alla corte di Sibilla, regina di Gerusalemme, nonché contessa di Giaffa e Ascalona.

    Con il viso contratto in una smorfia nella luce implacabile del mattino, Hartelius tagliò le maniche ridicolmente lunghe e accorciò l’orlo della gonna lungo fino a terra con la punta della spada. Poi si lavò nel fiume e infilò il bliaut dalla testa. La stoffa eliminata dalle maniche sarebbe servita a creare un copricapo. Se doveva morire vestito da donna, pensò Hartelius, così sia. Almeno non sarebbe morto bruciato dal sole.

    Capitolo 4

    I quattro uomini a cavallo venivano verso di lui al galoppo, con il sole alle spalle.

    Hartelius sguainò la spada del re e sollevò la lama diagonalmente davanti al corpo. Decise che avrebbe tentato di far cadere il primo cavaliere per poi ripararsi dietro il cavallo morto. Una tecnica che gli era stata insegnata quando era un giovane scudiero e che aveva usato numerose volte sul campo di battaglia, quando era stato privato della sua cavalcatura. Era felice di morire come avrebbe dovuto un martire, proteggendo la Lancia Sacra, e con un posto assicurato in paradiso. Nessun cavaliere avrebbe potuto desiderare una fine migliore. All’ultimo momento possibile avrebbe fatto scivolare la Lancia Sacra sotto la carcassa del cavallo, dove c’era da sperare che sarebbe marcita in fretta, aiutata dai fluidi del suo corpo e di quello del quadrupede, non vista e ignorata dal nemico.

    Di conseguenza, rimase deluso quando riconobbe il primo dei quattro in rapido avvicinamento dall’inclinazione della sagoma. Il cavaliere era costretto a piegarsi in avanti di almeno trenta gradi rispetto alla posizione eretta a causa di un difetto congenito a una gamba, più corta dell’altra. Einhard von Heilsburg era inconfondibile, persino in battaglia.

    «Heilsburg, rinfodera la tua spada. Sono io, Hartelius».

    Heilsburg fermò il cavallo a una decina di metri dal compagno d’armi.

    «Hartelius?»

    «Sì».

    «Sei vivo?»

    «Così pare».

    «Come mai porti un turbante? Hai mal di denti? Oppure hai deciso di diventare un saraceno?»

    «Ho condiviso un quadrello con un balestriere saraceno. Lui gli ha impresso la direzione e io ne ho subito le conseguenze sulla guancia. Dovevo riparare la ferita dal sole».

    Heilsburg si batté la coscia con la mano guantata di ferro. «Perché allora indossi vestiario da donna? Il turco ti ha proposto di sposarlo dopo il vostro screzio passeggero?»

    «Sono ancora casto, Heilsburg. Puoi starne certo. I miei voti sono intatti». Hartelius si appoggiò alla spada con aria stanca. C’erano momenti – e questo era uno di essi – in cui il perenne buon umore di Heilsburg diventava un po’ logorante. «Questa veste da donna è tutto quel che ho trovato per coprirmi, giù all’accampamento. Quando mi sono tuffato nel fiume dietro al re, avevo indosso solo la camiciola e un paio di braghe di pelle di pecora. In seguito ho usato la camiciola per farne delle bende e ho tenuto le braghe per decenza. A ogni modo, avevo ancora bisogno di proteggermi dal sole. Al momento il bliaut mi è sembrata una buona idea. Ma ora mi rendo conto che non riuscirò mai a farmi perdonare da te questo scandalo, così purtroppo dovrò ucciderti». Si raddrizzò e fece come se volesse sfilarsi il bliaut prima di combattere.

    I tre cavalieri che erano insieme a Heilsburg scoppiarono a ridere, ma l’espressione di Heilsburg si fece seria. «Mi stai dicendo che hai seguito il re nel fiume?»

    «Sì. Ma non ho potuto salvarlo dall’annegamento. Però ho recuperato la sua spada e la Lancia Sacra. Lo stallone turcomanno del re è finito su uno sperone sabbioso più a valle, e io sono riuscito a prendere questi oggetti dalla sella di Sua Maestà».

    «Hai la Lancia Sacra?».

    Hartelius mostrò la custodia di pelle.

    I quattro cavalieri si fecero il segno della croce.

    Heilsburg si sganciò dal cavallo e zoppicò verso l’amico. «Sei sfinito. Ecco, prendi il mio cavallo. Il figlio del re è accampato a un miglio da qui lungo quel sentiero. Siamo stati inviati a gruppi di quattro per verificare la presenza di altri predoni. È una fortuna che ci siamo imbattuti in te, Hartelius. I turchi sono ovunque. Fiutano l’odore di carogna nel vento. Saresti diventato carne morta. Dopo essere stato violentato, naturalmente. Il bliaut mette in risalto la tua bellezza».

    Hartelius finse di colpire l’amico. Poi si issò a fatica sulla sella vuota di Heilsburg. Era bello essere di nuovo in groppa a un destriero. «Vieni, Heilsburg. Cavalcheremo come cammelli battriani del Turkestan. Tu sarai la gobba anteriore e io quella posteriore. Ti fidi di me abbigliato in questo modo?».

    Heilsburg represse un sorriso. «No, Hartelius. Sei il portatore della Lancia Sacra. Camminerò sotto di te, come è giusto che sia. Il nostro siniscalco è rimasto ucciso durante la scorreria. Ci è rimasto solo un maresciallo. Il ritorno della Lancia Sacra sarà motivo di grande giubilo per lui e per tutti i cavalieri rimasti».

    Hartelius si rivolse ai suoi compagni d’arme. Era grato a loro per aver accettato senza contestazioni una storia che altri non-cavalieri avrebbero forse trovato tragicamente inverosimile. «Ho visto una scia di lumache lasciare il sito del nostro accampamento. Quanti uomini abbiamo perso?»

    «Tre quarti della forza di combattimento hanno disertato. I cavalieri rimasti sono meno di mille. E solo poche, scarse migliaia di servitori rimasti a provvedere ai nostri bisogni e a quelli delle nostre cavalcature. Molti cavalieri si sono suicidati alla notizia della morte del re. I loro corpi sono disseminati in tombe senza nome lungo la strada Silifke-Mut. Verranno mangiati dalle tartarughe, così ci hanno detto i sacerdoti. E poi cotti a fuoco lento dai demoni nel calderone eterno».

    «Vedo che non hai perso il tuo senso dell’umorismo, Fournival».

    «Nemmeno tu, Hartelius. Ma devo dirtelo: come donna, fai proprio pena».

    Capitolo 5

    Non appena Hartelius e il suo gruppo arrivarono ai margini del nuovo accampamento, furono circondati da almeno cinquanta cavalieri, tutti che chiedevano a gran voce notizie del loro sovrano scomparso. Ogni momento che passava portava altri cavalieri, così che

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