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Il pietrificatore di Triora
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E-book313 pagine4 ore

Il pietrificatore di Triora

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Info su questo ebook

Nel corso dei secoli alcuni studiosi e scienziati si sono dedicati ad un’arte tanto oscura quanto inquietante: la pietrificazione.
Con essa hanno cercato di rendere immortale ciò che per sua stessa natura non lo è: le nostre spoglie mortali.
I loro nomi sono: Giovanni Battista Negroni, Raimondo De Sangro, Girolamo Segato, Efisio Marini, Francesco Spirito e Paolo Gorini.
A Triora, antico borgo del Ponente Ligure, nel corso dell’annuale kermesse di Strigora, con la quale si rievoca il processo per stregoneria del 1587, il male si scatena.
Il paese si trova a fronteggiare masse stralunate di fanatici dell’occulto e un serial killer deciso a trasformare incaute turiste in statue di pietra.
Spetterà a Leonardo Fiorentini, mercante d’arte milanese con il pallino delle investigazioni e nostalgico del Ventennio, risolvere il caso.
LinguaItaliano
Data di uscita27 apr 2013
ISBN9788875638771
Il pietrificatore di Triora

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    Anteprima del libro

    Il pietrificatore di Triora - Ippolito Edmondo Ferrario

    Prefazione

    Se sei bello ti tirano le pietre... cantava Antoine nei pietrificati monumentali anni Sessanta, prima di dedicarsi alla nobile arte di circumnavigare il mondo con la sua barca. Se avesse scoperto prima questa sua vocazione avrebbe intonato, in tempi non sospetti, Fin che la barca va anticipando Orietta Berti. Ma ammesso e non concesso che Se sei bello ti tirano le pietre è assolutamente innegabile che, se sei bravo ti scrivono le pietre. Pietre tombali che mentre te la spassi sui campi elisi ti consentono una sopravvivenza marmorea nel Pantheon. Unica controindicazione: devi essere morto. Siccome Ippolito Edmondo Ferrario è vivo (e lotta insieme a noi) e prolifico, anziché scrivergli una pietra, una pietra ligure, una piastrella sul celeberrimo Muretto di Alassio, preferisco scrivergli una prefazione. Ora, ogni vero scrittore è afflitto da un’ossessione portante che diventa il suo segno di distinzione, la cifra delle sue iniziali sulla camicia di forza del suo talento. Hemingway aveva un machismo vitale nei confronti della morte (quella degli uomini, dei tori, dei marlin... Non fa differenza), io ho quella dei nani. In ogni mia storia infilo almeno un nano anche quando non è propriamente pertinente al contesto. La magnifica ossessione di Ippolito, la sua bellezza di Ippolita è Triora. Triora, borgo ligure che ha anticipato Loudon e Salem nella caccia alle streghe. A Triora Ippolito ha dedicato gran parte della sua combustione saggistica dimostrando di avere il sacro fuoco. Il processo per stregoneria, il delirio inquisitorio, la tortura del femminile innocente non potevano risparmiarsi di diventare lo sfondo di un thriller a ponente della fertile medioevale mente di un umanista come Ferrario. Anzi, parliamoci chiaro, di un illuminista. Ippolito: infatti fa luce. E non solo stavolta su una pagina iniqua della storia, ma sulla malìa che un luogo bello e dannato, come direbbe Fitzgerald, esercita su chi ne è irresistibilmente attratto. Oggi tutti purtroppo sappiamo che l’unico modo sicuro per fare giustizia è scrivere un giallo. Il giallo è consolatorio rispetto al noir perché ci consegna un colpevole. Certo è poca cosa rispetto agli innocenti che hanno pagato per colpe non loro. E allora l’autore non si accontenta. Saccheggia i generi, la storia, la scienza, la letteratura offrendoci un piano trasversale per una verità possibile. Il pietrificatore di Triora inizia come un romanzo pulp, con tanto di mattanza annunciata che sarebbe piaciuta (e non è detto che non piaccia) a Tarantino, prosegue come un’indagine bucolica, nel senso di buco del culo, e agreste che avrebbe deliziato il Pupi Avati de La casa delle finestre che ridono. E si ride in questo romanzo. Almeno quanto si trema. Continua l’inchiesta permettendoci di accedere al mondo dei pietrificatori. Allievi perversi di quel Paolo Gorini che a partire dal 1842 si dedicò alla ricerca di un metodo scientifico che permettesse la conservazione dei corpi, onde evitare l’onta del processo di putrefazione. (Alcuni personaggi di Ippolito sono putrefatti. Ma d’animo!). Gorini non era interessato all’imbalsamazione. Piuttosto alla pietrificazione: la sostituzione di liquidi corporei destinati a solidificarsi nel tempo. Come ci ricorda l’autore, Ippolito, che è uno scapigliato di ritorno gli scapigliati erano attirati e inorriditi, al tempo stesso, dalla morte. Così come il rovescio della medaglia della pietrificazione fu la cremazione. Niente di più semplice. La trama de Il pietrificatore di Triora non è per nulla semplice... ma fluida... liquida. Un detective privato, demotivato, viene assoldato per rintracciare la nipote di un facoltoso avvocato maneggione scomparso a Triora. Fino a qui siamo in piena hard boiled chandleriana. Ma Ippolito Edmondo Ferrario non può permettere che il suo detective si accontenti del cliché. E allora eccoci pronti a incontrare le tre teste di Cerbero, don Venti di Guerra, ex cappellano militare della Folgore, ambigui direttori del Centro Studi Internazionale sulla Stregoneria, avvenenti e curiose pulzelle in pericolo, orrori della guerra civile, notabili che ai brutti tempi si sono fatti pagare per nascondere gli ebrei, salvo poi rivenderli ai nazisti; vecchi saggi e ubriaconi di paese, ma soprattutto Triora. Triora in cui viene organizzato un festival happening per far sì che la tragedia di secoli prima (il processo di stregoneria) potesse trasformarsi in una grande opportunità. Un po’ come se a Dachau si fossero messi a vendere ai turisti camere a gas in bocce di vetro.... È qui che Ippolito Edmondo Ferrario diventa l’unico vero pietrificatore della storia: ti lascia di sasso. Sa restituire umanità e disumanità a chi ha scagliato la prima pietra. Non è vero che il ricercatore insegue la verità. È la verità che insegue il ricercatore" scriveva Musil ne L’uomo senza qualità e Ippolito di qualità ne ha molte. Mi verrebbe voglia di fargli pietrificare un mio nano. A Triora naturalmente!

    Andrea G. Pinketts

    Avvertenza

    Cara lettrice/lettore,

    mi sembrava giusto e opportuno darti qualche delucidazione prima di dedicarti a questo mio parto letterario.

    I personaggi descritti appartengono quasi tutti alla mia bacata fantasia, alla quale continuo a dare ampio credito; se ti capitasse di visitare Triora però potrai constatare che all’albergo Colomba d’Oro c’è effettivamente Simona Pastor; ti sarei grato se non le chiedessi notizie del pietrificatore. Non mi fraintendere, ma già sopporta a fatica il sottoscritto e dubito che accetterebbe di sottoporsi a farneticanti domande sulla storia che vado qui di seguito a raccontare. Inoltre, a parte la viva e vegeta albergatrice triorese, le biografie dei defunti pietrificatori sono vere e reali. Questo libro lo dedico anche a loro, pionieri di una scienza tanto oscura, quanto affascinante.

    Ancora in quel di Lodi potresti imbatterti nel leggendario veterinario dottor Giuseppe Ferrario. Se sei in vena di indagini, accantonale, e semmai offrigli un buon bicchiere di vino. È la prima volta che si parla di lui in un libro e sinceramente non so come la prenderà. Non ama i ficcanaso e, nonostante sia mio padre, è un tipo da maneggiare con cautela.

    A Milano invece, passeggiando per via Sant’Andrea, potresti ritrovarti a guardare le vetrine della mia galleria d’arte: per un autografo sono sempre disponibile, ma se hai capitali da investire in arte la tua visita mi sarà ancora più gradita.

    Se alla fine della lettura sarai assalito da ansia, angoscia e terrori ancestrali non prendertela con me, ma piuttosto con te stesso e con la tua insana curiosità.

    Capitolo primo

    I

    Triora (Imperia), giorni nostri.

    La kermesse di Strigora era prossima. Il paese delle streghe usciva dal suo atavico torpore per inscenare la parodia di uno scempio di secoli prima. Le avanguardie di neo-hippie, Wicca, fanatici dell’occulto e adepti della scopata di gruppo, camuffata da messa nera, erano giunti da alcuni giorni. Legioni stralunate di moderni zombie, figli della cultura punk, e figli di puttana, si aggiravano per i carruggi in attesa dell’evento mediatico. Secondo le previsioni sarebbe stato il migliore degli ultimi anni. Lo spiazzo della ex caserma Tamagni, lugubre ricordo della guerra, aveva accolto camper, caravan e tende. L’aroma di cannabis si mischiava all’odore di salsicce cotte su rudimentali griglie e improvvisati falò. Capezzoli al vento marchiati da piercing, balli tribali e il rullio ossessivo dei bonghi scandivano i pomeriggi e le serate. Nel borgo aleggiava un’atmosfera messianica, degna della fine del mondo. John Carpenter vi avrebbe girato il seguito de Il signore del male.

    In quei giorni di festa i trioresi superstiti uscivano mal volentieri dalle loro case. Alcuni mandavano avanti le proprie attività commerciali: minuscole botteghe dove si vendevano cialtroneschi saggi di magia e bambole di streghe made in China. L’artigianato locale era morto da tempo. I pochi oggetti rimasti della scomparsa civiltà contadina erano custoditi presso il Centro Studi Internazionale sulla Stregoneria, ritrovo delle intellighenzie italiane e straniere in materia di studi antropologici. Si trattava di un circolo di esaltati dediti alla riesumazione di riti dimenticati che appartenevano più al mito che alla storia.

    Il borgo, dall’aspetto medioevale, arroccato sul monte Fronté, contava circa duecento anime.

    Duecento trioresi costretti a fare i conti con l’asprezza della vita di montagna e con gli allucinati progetti di studiosi venuti da città lontane.

    Il processo per stregoneria del 1587 era un marchio che il paese non si era mai riuscito a scrollare di dosso. Una stella a cinque punte cucita sulla giacca che ne aveva sancito la dannazione. Un biglietto di sola andata per la bocca del forno.

    Il tempo però a volte gioca tiri mancini. A Triora la tragedia di secoli prima si era trasformata in una grande opportunità. Un po’ come se a Dachau si fossero messi a vendere ai turisti camere a gas in bocce di vetro con la neve o kit per montare a casa propria il forno crematorio.

    Nel paese le streghe nessuno si era ribellato all’idea. Col senno di poi il processo si sarebbe potuto definire come il più grande investimento che il paese avesse mai fatto.

    Con cinquecento scudi, racimolati allora dal Parlamento locale per imbastire il procedimento, e con una pazienza di secoli, Triora era diventata il punto di riferimento fra coloro che vedevano nell’entroterra ligure la nuova linfa per il turismo di una regione in crisi.

    Pazienza per quelle duecento donne incarcerate e torturate. Il loro sacrificio era valso la pena. Per non parlare degli inquisitori e del commissario speciale Giulio Scribani; senza la loro tenacia il processo non avrebbe avuto il giusto eco, relegando Triora all’oblio del tempo. Anche gli aguzzini delle presunte streghe erano stati così riabilitati. Se non a parole, certamente nella coscienza collettiva.

    Triora, un presepio a cielo aperto, i cui figuranti se l’erano squagliata altrove nell’immediato dopoguerra, era tornata così a vivere.

    II

    Un uomo, più di tutti, aveva contribuito con i suoi studi e la sua perseveranza a questa inaspettata rinascita.

    Costui era l’attuale direttore del Centro Studi Internazionale sulla Stregoneria. L’archivista Spartaco Ariberti reggeva la carica da cinque anni con l’appoggio incondizionato della giunta comunale. Ottenuto l’incarico alla soglia dei cinquantacinque anni, aveva fatto le valigie abbandonando l’ateneo genovese e stabilendosi definitivamente a Triora. Corpulento e barbuto, aveva la faccia da bambino viziato e avvizzito. Vestiva sempre uguale preferendo completi di velluto d’inverno, possibilmente marroni, abiti color cammello d’estate. Suo accessorio preferito era il borsello di pelle nera che portava a tracolla. Vi teneva dentro il telefono cellulare, l’agenda e un piccolo cannocchiale. Aveva la passione per le camminate nel verde e per il bird- watching. Qualcuno diceva di averlo visto sulle rive del torrente Argentina in cerca di coppiette da spiare. A tratti occhieggiava come una civetta drogata: un tic, senza tac, che gli dava un’aria femminea. Per occultare questa sua debolezza ricorreva al pelo ispido che lasciava crescere in viso. La barba era il solo attributo a sua disposizione in quel deserto di virilità. Madre natura non era stata generosa con lui nemmeno al piano di sotto. Il piccolo virgulto di cui disponeva era rimasto uguale a se stesso, imperturbabile alle tempeste ormonali della pubertà. Di riflesso anche il suo carattere subiva questa difficile convivenza di tendenze: alternava l’atteggiamento da despota a crisi isteriche da donna in menopausa. Ogni mattina usciva di casa alla stessa ora fermandosi al bar Della basua (della strega, nel dialetto locale), nella parte nuova del paese, per la colazione. Abitava in una villetta di recente costruzione sulla strada per Loreto, frazione di Triora. Gli era stata assegnata gratuitamente dal comune una volta nominato direttore del Centro Studi.

    III

    La mattina del 10 agosto il corazzato studioso varcò implacabile la soglia del bar scaricando sui presenti il suo cattivo umore condensato in una smorfia contrita. Nessuno lo aveva mai visto sorridere.

    – Buongiorno, dottore – lo salutò Zanin, il proprietario.

    Come gli altri concittadini non lo aveva mai digerito, ma era comunque un suo cliente e soprattutto uno che a Triora dettava legge.

    Ariberti lo guardò sprezzante.

    – Crede davvero che lo sia? – contraccambiò, alludendo a un gruppo di ragazzi giunti per Strigora. I tre rasta nostrani, seduti ai tavolini della bettola, trangugiavano Bud e fantasticavano sulle streghe del passato. Il loro interesse era tutto per le leggendarie orge notturne che, nella tradizione, si svolgevano alla Cabotina, fuori dalle mura del paese.

    Ariberti li guardò disgustato, come usurpatori di un passato di cui lui era il solo ed esclusivo depositario.

    – Almeno oggi si lavorerà un po’ di più – mormorò Zanin indifferente. Gli preparò il solito cappuccino bollente. Suo passatempo preferito era lamentarsi del lavoro che non c’era.

    Con Strigora tutti incrementavano i loro guadagni.

    Era la legge del soldo a fare da padrone, mettendo a tacere il buon gusto per un pugno di euro. In questo modo l’economia locale sopravviveva.

    Se a rimpinguare le casse del paese era una folla di fanatici, ciò era il minore dei mali.

    Ariberti guardò Zanin con i suo occhi di ghiaccio. Lo gelò come una granita. Quel poveraccio, così pietosamente aggrappato ai suoi biechi interessi, non meritava risposta.

    Il solo scopo dell’archivista era quello di consolidare ulteriormente la sua posizione al Centro Studi.

    Anche lui avrebbe preferito un pubblico migliore, ma non aveva scelta. Lo spettacolo di lì a poco inscenato non avrebbe deluso le aspettative dei turisti arrivati da ogni parte d’Italia.

    Mancavano due giorni al fatidico giorno, ma i preparativi erano in alto mare. Non poteva permettersi un flop, tanto più che il consiglio comunale gli aveva dato un compenso extra di ventimila euro.

    La schiuma del latte calda gli bagnò le labbra regalandogli due baffi bianchi. Bevve con avidità senza curarsi dei presenti che a quell’ora si trovavano nel locale: Aristide Borelli, segretario comunale, il vigile Sandro Accame e Maria Gastaldo, organizzatrice di pesche benefiche in parrocchia. Ariberti li aveva catalogati fin dal primo giorno del suo incarico esattamente come reperti da museo. Forse da morti avrebbero guadagnato in simpatia. La Gastaldo era una ripugnante beghina dalla parlata petulante. Gli altri due dei sempliciotti abbagliati da un’illusione di potere. Il vigile gigioneggiava quotidianamente menando la paletta a destra e a manca, appioppando multe e chiudendo un occhio dove voleva. Il Borelli scaldava la sedia in Comune con i suoi mefitici peti rendendo grama la vita a chi gli stava intorno. Soffriva infatti di meteorismo e delle sue note conseguenze, prima fra tutte la solitudine.

    Sia lui che il vigile vivevano di bustarelle, sperimentando in piccolo il gran piacere della pubblica corruzione. Nessuno dei presenti si stupì dell’innata allergia ai rapporti umani dell’archivista, accentuata per l’occasione.

    Ariberti terminò in silenzio la colazione. Lasciò una moneta sul bancone e uscì.

    IV

    La giornata era afosa. Una spessa foschia scivolava giù dal cimitero che sovrastava il paese, conferendogli un’aurea spettrale. Non a caso lo sperone di roccia su cui sorgeva il camposanto si chiamava Monte delle Forche.

    Un tempo vi si impiccava la gente, oggi la seppellivano soltanto.

    L’archivista andava di fretta per natura. Macinava strada come un Panzer tedesco in Polonia. Non conosceva ostacoli.

    Un nugolo di commenti al fulmicotone si levò non appena uscì dal bar.

    – Mi chiedo chi si creda di essere?! Ieri sera l’ho incontrato alle Spianate. Eravamo io e la negra. L’abbiamo salutato, ma lui ha fatto finta di non vederci! – gracchiò la Gastaldo più acida di un acido.

    – Non invidio la Lucilla che lo deve sopportare tutto il giorno – fece il segretario comunale, ravanandosi la patta e dispensando scoregge per tutti.

    Le sue parole si riferivano alla giovane collaboratrice dell’archivista. I presenti colsero l’ironia, malcelata da una crassa risata finale.

    – Voi uomini siete tutti uguali – sbottò la Gastaldo indignata.

    Recitò istericamente un’Ave Maria nel tentativo di allontanare i cattivi pensieri che reprimeva in sé.

    Il vigile e il segretario si scambiarono sguardi eloquenti. Provavano un’invidia tutta maschile per quei pettegolezzi che allietavano la vita dei trioresi da settimane.

    Un anonimo informatore aveva detto di aver sentito dei gemiti provenire dalla casa dell’archivista. Il voyeur di turno aveva assicurato di aver visto Lucilla nuda, incatenata al letto, e frustata dall’Ariberti.

    La Gastaldo non riusciva a togliersi di testa l’immagine della ragazza schiava di Ariberti. La sua stizza nasceva dal fatto di non poter competere con la giovane assistente. Non le restava così che l’astio e la solitaria compagnia delle verdure. Ogni settimana comprava borse di cetrioli al mercato di Sanremo. Sosteneva di usarli per fantomatiche maschere di bellezza. Nessuno però ne aveva mai visto i risultati.

    V

    Dal bar Della basua la distanza a Palazzo Stella, sede del Centro Studi Internazionale sulla Stregoneria, era breve. Ariberti avanzava solitario. Le bancarelle degli ambulanti affollavano la strada con ogni genere di mercanzie: elefanti di legno del Senegal, dvd contraffatti e cianfrusaglie di ogni tipo spacciate per antichità. A margine di questa fiera del tarocco, sopravvivevano due fruttivendoli che mettevano in mostra corone d’aglio di Vessalico, sacchi di fagioli Rundin di Badalucco e l’acre stoccafisso ligure che puzzava di piscio. Tempo qualche anno e i due venditori sarebbero stati solo un ricordo. Da autentico cultore delle tradizioni locali Ariberti, se avesse potuto, li avrebbe fatti impagliare per collocarli nella sezione Arti e Mestieri del museo locale. I loro visi aguzzi, erosi dalla fatica come scogliere battute dal mare e dai venti, sarebbero stati perfetti per raccontare ai posteri la storia del luogo. Già li immaginava imbalsamati nell’atto di offrire i loro prodotti: le mani tese e adunche, protratte in un ultimo eterno gesto di offerta. Ariberti si compiacque del suo senso del macabro che no­nostante la giornata gli metteva il buon umore.

    Forse con una scrittura privata, e un compenso di pochi spiccioli, poteva davvero cavare a quei due disgraziati la promessa di cedergli i cadaveri per scopi didattici. I rintocchi delle campane della chiesa di N.S. della Collegiata gli parvero una solenne marcia intonata per il suo arrivo nella parte più antica del borgo.

    Capitolo secondo

    Mio carissimo Cecchino, senza tanti preamboli ti dirò che domani sera 2 giugno 1874 alle ore 10 parto per Parigi. Ho fatto questa brillante risoluzione e la metto in atto con la massima velocità perché non avvenga un pentimento che mi faccia piantar le radici a Firenze. Non so quanto mi tratterrò nella grande città perché parto senza idee preconcette per cui abbandono l’avvenire in mano della mia dea protettrice – La Combinazione.

    Da una lettera di Federico Zandomeneghi

    all’amico pittore Francesco Gioli

    I

    Sanremo, ore 9.30, Special Investigation Service.

    La desolazione del deserto dei tartari di Buzzati era nulla in confronto a quella del mio ufficio, a cominciare dallo scarno arredamento suggerito da una cronica penuria di money: tavolo Ikea (il più scadente), sedia finta pelle, recuperata da un’asta fallimentare di un alberghetto a ore di Diano Marina, pianta ornamentale di plastica, portafotografie con annessi ritagli di Glamour. Spacciavo patinate sventole per mie recenti conquiste. La sola ragione che mi inchiodava in quell’eremo di solitudine all’alba dei primi giorni di agosto era la mia ostinazione unita a un cliente che mi aveva contattato due giorni prima. Aveva letto la pubblicità dell’agenzia in quelle vetrine lerce che addobbano i sottopassi pedonali, adibiti a pisciatoi notturni, da me stesso collaudati in gioventù. La particolarità nasceva dal fatto che il cliente avesse letto quella pubblicità a Milano. Nemmeno mi ricordavo di aver pagato tre anni prima per comparire in una location di tale prestigio. Mancavano pochi minuti all’appuntamento. Mi sforzai di dare un tono all’ambiente riordinando le poche carte presenti sulla scrivania: le bollette della luce e del telefono, la lettera dell’avvocato della mia ex moglie e uno sconto di 20 euro da spendere nel sexy shop sotto casa. Feci sparire quei residuati di vita personale, non per amore dell’ordine, ma per salvare le apparenze. A volte è l’abito a fare il monaco e non viceversa.

    Misi da parte il buono acquisti, certo che l’avrei usato. Ero un grande estimatore del cinema hard in genere ed ero sempre aggiornato sulle novità.

    Il nome del cliente mi era famigliare, anche se non riuscivo a collegarlo a nulla: Pierleone Fossati. Avvocato. Avrei potuto chiedere ai miei abituali informatori in divisa, ma la fortuna mi era avversa: Gianluca Albanese, ispettore di polizia a Sanremo, era in ferie in Puglia. Il richiamo del paese natio era troppo forte per non tornarvi ogni anno. Senza di lui difficilmente avrei estorto informazioni in commissariato dove ero visto come la concorrenza, o peggio come un disgraziato. Forse lo ero. Due anni prima aveva risolto il caso della figlia di un imprenditore di Imperia rapita a scopo di estorsione. Una brutta storia maturata nel mondo dei produttori d’olio d’oliva taggiasca e della ‘ndrangheta calabrese trapiantata al Nord. Ne ero uscito vincente, liberando la ragazza e recuperando il malloppo sganciato dal padre. Come ricompensa mi ero visto recapitare a casa, da parte dell’industriale, due casse di extravergine e del buon paté d’olive per bruschette. Quello però era un passato archiviato, che mi aveva regalato una certa notorietà.

    Detective-gallerista libera la figlia del re dell’olio titolavano i giornali, osannando l’eroe del momento e omaggiandolo di interviste. In quel periodo ricevetti le offerte di lavoro più disparate: un ruolo nel film Il commissario Trombatutte, un porno casalingo di un regista emergente, un posto di guardiano su una piattaforma petrolifera nel Golfo Persico e infine il modello per un noto stilista italiano. La natura mi aveva dotato di un buon fisico sul quale avevo apportato sostanziali modifiche attraverso disumani allenamenti a base di pesi e arti marziali. Una volta solleticato il mio virile narcisismo, avevo accettato

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