Aknesi: La Favola dei Cattivi
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Anteprima del libro
Aknesi - Elbasan Mehmeti
amazzonica
Un aknese
Si vedeva il fumo dei moltissimi focolari delle capanne elevarsi in cielo. Quell’enorme agglomerato di capanne intorno ad un’imponente capanna ovale era il mio villaggio.
Mi trovavo sull’albero più alto della foresta vicina: arrampicarmi fin proprio alla sommità era una sorta di piccola soddisfazione personale. Mi chiamavo Nanco, ero un ragazzo robusto di 16 anni… avevo gli occhi color marrone chiaro, i lineamenti del volto aguzzi, i capelli lunghi fino alle spalle e legati da un sottile laccio rosso... sulla fronte portavo una specie di bandana, pure rossa, così come ai polsi e alle caviglie; sui fianchi portavo un legaccio che sosteneva una striscia di tessuto a proteggere i genitali, sempre color rosso.
La foresta intera sapeva che il colore rosso addosso ad una persona significava che quella persona faceva parte della comunità degli aknesi: il rosso era un riconoscimento, un vanto di cui gli aknesi andavano fieri, in quanto comunità che pensava a battaglie e guerre fin dagli albori delle sue antichissime origini. Il nostro villaggio contava più di trentamila anime, tutti discendenti da un’unica numerosa famiglia nomade che pascolava di gioia
nella sconfinata foresta secoli fa. Dei frutti che la nostra antica famiglia raccoglieva si cibavano anche gli altri popoli. Per generazioni si continuò a vivere pacificamente finché in queste terre giunsero i borbundi. Erano una popolazione malvagia: non accettavano assolutamente la condivisione, volevano tutto per sé. Addirittura non si limitarono a cibarsi di tutti i frutti che raccoglievamo, ma anche rapivano i nostri bambini e strumentalizzavano le nostre donne. Usavano i prigionieri come schiavi, se non addirittura come cibo, comportandosi da cannibali: crudeli e vigliacchi, uomini che ritengono che sia più semplice allevare donne e bambini in delle gabbie piuttosto che avventurarsi nella foresta e cacciare.
Ci fecero subire soprusi in qualsiasi modo possibile! Andò avanti così, con loro a maltrattarci e noi a subire, finché un ragazzino, in totale balia della rabbia, iniziò a comportarsi in modo diverso. Quel ragazzino, sfuggito alla cattura dei burbundi, si allenava tutto il giorno e tutti i giorni. Uno shamano lo vide mentre, esausto, continuava a fare trazioni appeso ad un ramo. All’epoca nessun aknese si allenava o pensava a combattere, come dicevo eravamo una popolazione pacifica che viveva di frutti della terra. Ciò che faceva quel ragazzo era diverso, inusuale, così lo shamano gli chiese: Perché ti alleni con così tanta costanza e dedizione?
Il ragazzo non rispose e continuò i suoi esercizi. Aveva un’espressione cattiva e minacciosa che proiettava tutte le sue sofferenze e lo shamano le colse: Hai visto molta violenza, accetta, è perché c’è violenza anche nei nostri cuori, perdona
.
Il ragazzo abbassò gli occhi per poter veder meglio chi gli stava parlando, poi mollò la presa dal ramo e cadde in piedi di fronte allo shamano. Lo guardò e gli rispose con voce ferma: Mai più
.
Più che una risposta fu una promessa, un cambio di attitudine. Nessuno finora aveva mai contraddetto uno shamano. Lo shamano era la figura religiosa della nostra popolazione, il nostro punto di riferimento. Quel giorno però non insistette sul concetto di pazienza e perdono né si arrabbiò per l’affronto: si era messo da parte, aveva lasciato libero sfogo alla rabbia di quel ragazzo. Da quel giorno abbiamo iniziato a combattere e questo ci rende giustizia quotidianamente in questo mondo, in questa foresta! Per questo festeggiamo periodicamente quell’evento, con cerimonie e riti in concomitanza con l’arrivo delle piogge.
Non abbiamo del tutto abbandonato il passato: gli Shamani esistono ancora, custodiscono e insegnano i nostri saperi storici, le nozioni di erboristeria, i metodi di cura, tutto ciò che riguarda le costruzione di edifici e molto altro; furono loro a decidere di costruire la Grande Capanna e dove costruirla. Da quando quel ragazzo pronunciò il suo rancore e si ripromise che mai più avremmo visto umiliazioni, nessuno ci aveva effettivamente mai più umiliati. In brevissimo tempo siamo diventati noi quelli che umiliavano gli altri... siamo usciti da ogni conflitto vittoriosi, ma il prezzo da pagare per esser tali, vittoriosi, fu la libertà. Non abbiamo più potuto scegliere chi essere o diventare: nasciamo guerrieri, viviamo da guerrieri e muoriamo guerrieri.
Quindi ero nato in una comunità guerriera e gloriosa, figlio di un comandante di nome Zayta. Mio padre era un uomo giovane, molto alto e robusto. Attualmente era impegnato in un conflitto contro il villaggio di Vipa, a sei giorni di distanza del nostro, a nord, dopo il fiume Hire. In quel campo di battaglia le due fazioni nemiche continuavano a commettere vere e proprie atrocità reciproche, chi tornava raccontava di massacri, torture e violenze inaudite, pure i nostri guerrieri più temerari sembravano scossi da quello che avevano visto, vissuto o dovuto