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I vespri del tuo nome
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I vespri del tuo nome
E-book178 pagine2 ore

I vespri del tuo nome

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Info su questo ebook

Pia deve liberarsi dalle catene di un amore malato e disfarsi delle fantasie che le ottenebrano la mente, celando ai suoi occhi le vere tinte della realtà. La sua ingenuità la porta a innamorarsi di un imperscrutabile Amintore e la loro conoscenza è costellata di coincidenze, di segreti non detti o sussurrati al vento, di un inconsapevole rincorrersi per poi, forse, mai trovarsi davvero. È la storia di un dialogo che prova ad essere tale, pur essendo ancora un acerbo monologo. Pia si trova a rivivere un percorso all'indietro, con gli occhi meno bendati ma con il cuore più aperto. Dopo un excursus ampio e sorretto da una narrativa fresca, Pia comprende di aver commesso molti errori. Sente di aver imbrigliato Amintore in un ruolo ch'egli forse non aveva mai chiesto e che lei, con inconsapevole ardimento, aveva sognato di fargli calzare. Infine Pia, con grande stupore, si scopre più adulta nel provare una tenerezza incondizionata e senza pretese, che resta sempre legata al nome - o al sogno dell'ombra - di Amintore.
LinguaItaliano
Data di uscita18 ott 2018
ISBN9788829531868
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    Anteprima del libro

    I vespri del tuo nome - MIRIANA TERESA FAZI

    Prévert

    DIARIO DI PIA

    "Soggiorno a Siena, visita ad Amintore Colonna.

    Impressioni sulla città e sui marinai di stelle in Piazza del Campo.

    Non mi resta che l’incolore miseria dei sogni, per tingere questa storia d’incanto; giacché durante la mia permanenza in terra senese, l’illusione d’aver sfiorato la felicità si è pre- sto sgretolata nel silenzio sterile del disincanto.

    "In Piazza del Campo, fra occasi d’arancio e speranze vi- renti, mille persone, come pennelli, catturano scorci e spetti- nano istanti, odorosi di brame irrisolte e di campagne toscane. Scivolando sui compositi sguardi adulti di chi - per abi- tudine - sa già contemplare, il bagliore solare mi carezza le

    pupille ambrate.

    Sono la forestiera d’un’antica fiaba, che si snoda da secoli lungo la frizzante spensieratezza delle rue.

    Gli occhi dei passanti, levati in alto e minuti, si schiudono teneramente al varco turchino.

    Siena è profumata d’una brezza che non conosce il respiro del mare.

    Taccio e m’inebrio di vento, inseguendo le parole di chi solleva il volto ogni giorno, lungo l’ardito saliscendi di quel- le strade in pendenza.

    E i miei pensieri si perdono come petali d’un soffione al vento.

    Sono una nella moltitudine, spettatrice di nivei nembi, inabi-

    le marinaia di stelle, in preda al docile patimento infantile, che lo scolorarsi delle tinte pastello porta con sé al calar del Sole.

    Quando il giorno si spegne in un focolaio di baleni morti, l’innocenza dei più sensibili si ostina a trattenere gli ultimi rigurgiti di una luce sempre più fioca.

    La mia anima si specchia nel cristallo del cielo. Riflette bellezza e deve soffrirla, al punto da non distinguere l’impe- netrabile grigiore della caligine primaverile; dalla sua ver- gine e cerulea pungenza; che s’insinua nel cuore aperto – di chi come me non sa ancora guardare il cielo di Siena-.

    di chi come me è ancora troppo ingenuo, per essere un buon marinaio di stelle -.

    Gli occhi corrono lungo le file di bifore canute e nobili, commosse dinanzi al brusio di una strada che non si arrende al tempo.

    Così si porta Siena, saggia intrattenitrice di anime affama- te d’azzurro, di fretta, di sapori e sogni. C’è sempre spazio per chi leva lo sguardo in Piazza del Campo: ognuno potreb- be sentirsi al sicuro, stretto nel grembo di una conca circo- lare, che non abbandona al delirio di una vastità sconfinata. L’occhio non si getta alla volta dell’ignoto, dell’orizzonte tremulo e incerto.

    Il cuore, di riflesso, non si perde oltre la barriera del vi- sibile e si rallegra sotto i ridenti mattoncini arancioni, che tappezzano il giovane volto dei palazzi beffardi.

    Quindi nessuno nasce orfano, nella città dei Tolomei. Eppure, com’è consuetudine in ogni borgo medievale, c’è

    sempre qualcuno che, rifuggendo la calca dei rioni, si abbe- vera alle ombre dei discreti vicoli segreti, schiusi d’ improv- viso ai margini delle strade più note.

    Lungo le porte scrostate delle osterie, il passato è lenito da un corposo calice di vino rosso, che ristagna nella gola e la rischiara dai peccati. La brina lascia il passo a vellutati pen- sieri avvolti da gocce di presente e pian piano si leva il Sole ad albeggiare sui colli. Pietà del mattino, bontà del principio.

    In quel momento sembra che a Siena ci sia sempre una speranza.

    Di essere ciò che non si è mai stati, di tornare a essere an- cora. Di rialzarsi come il Sole sulla Torre del Mangia, quan- do la volta azzurra spalanca la fiducia nel creato. E mentre la fede torna ad ardere viva, il Sole sorride malinconico giù dalle mura, lungo un continuo scendere certo, verso una lon- tananza che sa di casa, fin dove arriva lo sguardo.

    L’orizzonte si confonde con il commosso auspicio del non veder finire il giorno, oltre lo stato di grazia del tramonto. Eppure tutto continua ad arrossire, nel composto progredire della timida sera. Le accese gote che rosseggiano sull’ulti- mo chiarore invitano i passanti a sognare con più nitidezza

    -perché il tempo non è eterno, come la bellezza- e i desideri rischiano di sfumare oltre la risacca dell’orizzonte.

    Ferma sui miei piedi, ammiro coppie che si amano alle soglie del vespro e non si arrendono all’imminente saluto, che sgretola gli ultimi preziosi attimi al limitare delle mura. Tra costoro, c’è chi lascia scorrere indifferentemente le ruote del postale fuori dalla città, lungo il selciato noto e lemme.

    C’è chi non vuole versare neppure una lacrima per orgo-

    glio, chi fatica a trattenerla per delusione e abbandono.

    C’è chi si lancia in una corsa a perdifiato, per ingannare la mobile apatia del postale, rubando un ultimo, fulmineo sguardo al viso amato. Quello che si è riconosciuto tra i mil- le volti.

    Quanti studenti si scambiano un bacio d’ arrivederci o d’addio e, un istante dopo, soltanto due dei quattro piedi re- stano ancora a calpestare il tappeto di Siena, a calciare le pietre pronube della nostalgia.

    E guardando l’amore sparire in una progressiva evane- scenza impietosa, il bagliore ambrato che irrora le pupille s’allontana a occidente del nostro sguardo e va a spegnersi là dove si perdono le sagome e le certezze.

    Il cristallo del mezzodì turchino s’infrange in un tumulto di rubini fulvi e, saturo delle umane vicende, si riposa nel velluto della sera.

    Non bisogna mai sottovalutare la distanza, né la sua tena- cia nel sapersi far valere, patire, scontare. Poche ore macina- no chilometri e ogni metro è un macigno sui desideri. Ogni tralcio d’erba che ci separa da chi ci abita dentro, apre la vo- ragine della mancanza. Quindi, giovani, contate lenti i passi di tufo sul pavimento scuro di Banchi di Sotto. Lasciate che il piede si faccia placido e che la vita vi sospinga innanzi. Credete fino in fondo di essere vivi e di poter donare tutti voi stessi all’arsura della notte, che si fa prossima tra i tamburi del Palio e le danze ardenti degli universitari.

    Loro sono i marinai di stelle, quelli che sanno di saper guardare, tanto da non domandarselo neanche più: vivono al riflesso del bagliore astrale e non si danno cura di doverlo

    contemplare, giacché ne diventano intima parte.

    Beato colui che sale più in alto della Torre, tenendosi con l’altro per mano. Beato colui che si sente a casa tra le brac- cia dell’oscurità, perché nel buio delle stelle sa di non essere solo".

    10

    PRIMO CAPITOLO

    LA STAZIONE, ALTIERO NAVELLI E VENEZIA

    I binari della stazione di Trento s’impolveravano nel plumbeo cappotto di pioggia sottile e rada, fino a scomparire negli avanzi di rugiada, che bagnavano di gocciole il solito mattino grigio, immerso nella bruma.

    La nebbia faticava a mostrare i primi tralci d’erba, ancora intrizziti nel loro umido risveglio e teneramente raccolti nel tacito principiare del giorno.

    L’ombra della partenza si addormentava nello sguardo an- noiato e assorto dei viaggiatori, infiltrandosi nell’iride asso- pita dei loro occhi appesantiti dal sonno.

    Io, cullata dalla calma del mattino, avvolgevo con vellu- tata eleganza la mia penna stilografica nel suo cappuccio an- cora vinto dalla veglia. Avevo appena appuntato delle righe sul mio taccuino, per cercare di non perdere l’immagine di Siena, che mi pareva così distante dal mio cuore infranto.

    La città del Palio era lontana dalla mia vista e io la stavo cercando in ogni passo che consumasse l’asfalto della sta- zione, quella mattina.

    Lungo i margini delle strade senza asfalto e senza nome, imperlate di fili elettrici e rotaie, l’attesa si aggrovigliava tra i tanti piedi lesti e leggeri, mossi dalla fretta.

    Tra cumuli farraginosi di bagagli e borse abbandonati sul pavimento, qualcuno ristagnava sulle proprie gambe, pregu- stando un viaggio ignoto, preludio d’incontri. La speranza pervadeva le stanze dell’anima e profondeva una sicurezza

    insolita nell’espressione dei volti.

    Alcuni viaggiatori subivano il fascino della sosta: si sentiva- no protagonisti della partenza, prima ancora che del viaggio.

    Tra costoro, chiunque fosse in anticipo, ingannava il tempo sbrigliando il gomitolo delle proprie fantasie, dei sentimenti malcelati agli occhi di una quotidianità troppo distratta.

    E i pensieri si alzavano in volo sui fili della stazione, fin- ché il sibilo assordante del treno non giungeva a richiamarli a terra; arricciandoli nel disordinato gomitolo dei pensieri, che finiva per ingarbugliarsi di nuovo.

    Ognuno si avviava verso una linea costellata di metri e sogni, tanto breve quanto intensa; una striscia d’asfalto e panchine.

    Era lì che si saliva sulla locomotiva, in quel posto anoni- mo che livellava le attese e le banalizzava nella loro appa- rente uguaglianza.

    Nessuno poteva partire prima del treno; era il treno a de- cidere per tutti.

    Arrivava severo e ostinato con il suo sbuffo bianco, ormai abituato a scandire un tempo comune per tutti i cento, due- cento passeggeri, dei quali alla fine della corsa non avrebbe neanche ricordato il nome.

    Non glielo avrebbe neanche mai chiesto, perché il treno non era stato creato per chiedere i nomi, né per ricordarsene alcuni.

    Quella locomotiva algida che avevo di fronte, benché cor- resse agile grazie alla ferraglia che la teneva in piedi, non esisteva affatto.

    Non esisteva perché non poteva ricordare il nome di alcun passeggero, alla fine della corsa.

    Se solo anch’io, come lei, avessi potuto dimenticare i nomi che la vita mi aveva cucito addosso!

    Oltre allo spettro dei volti che mi affollavano il passato e la memoria, di me non era rimasto più niente, dietro ai cigo- lanti rottami del mio corpo rigido. Sedevo sui bordi di me stessa, aspettando invano un treno che non sarebbe arrivato.

    Non avevo in programma di partire, quella mattina.

    Ero andata alla stazione solo per osservare l’andirivieni stan- co dei saluti e degli addii. Mi restava difficile, quel giorno più che mai, lasciar andare i passanti al loro destino. Tut-  ti i volti che mi passavano accanto erano un briciolo della mia storia e quasi mi pareva d’essermi affezionata alle loro espressioni, quand’erano sul punto di partire.

    Forse in fin dei conti ero solo affezionata al dolore delle partenze; giacché tutte le partenze mi ricordavano l’addio che avevo detto ad Amintore qualche mese prima, alla sta- zione di Siena.

    Intorno a me, invece, c’era la vita che andava di fretta. Un uomo correva a perdifiato lungo i gradini dei vari bi-

    nari, alla ricerca di un treno in procinto di partire.

    ……….

    << Signori, per favore, largo o perdo il treno! Hanno cambiato binario all’ultimo secondo, forza!

    E spostatele queste valigie maledette, per la miseria! Mica potete intasare le scale!

    Diamine, ma quanto ci vuole? Non

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