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Sotto il cielo di Yaoundé
Sotto il cielo di Yaoundé
Sotto il cielo di Yaoundé
E-book383 pagine6 ore

Sotto il cielo di Yaoundé

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Info su questo ebook

Al tramonto di un 2001 scosso dall'attacco alle torri gemelle, Nicola Basciano, distrutto per la perdita della famiglia in un incidente stradale, decide di abbandonare tutto ciò che gli ricorda la sua vecchia vita e di dedicarsi alla cooperazione allo sviluppo. Grazie a vecchi contatti giovanili, si trasferisce in Camerun per prendere la direzione di un progetto di sostegno all'educazione e alla salute materno-infantile, nelle due maggiori città del Paese. Un progetto che, oltre a problemi di gestione lasciatigli dal suo predecessore, gli propone, fin dal suo arrivo nella capitale Yaoundé, una difficilissima situazione: alcuni piccoli beneficiari dell’intervento spariscono senza lasciare traccia.
Ben presto Nic, come viene chiamato da tutti, si rende conto che non si tratta di una casualità, ma di un vero e proprio traffico di minori e che questo non riguarda solo il progetto, ma l’intero Paese. Un traffico di cui, inizialmente, tutti sembrano ignorare l’esistenza e su cui nessuno sembra essere interessato a indagare. Nic, ancora in precario stato emotivo per la perdita della moglie e del figlioletto, decide di non accettare questo stato di cose e, con Richard e Samuel, i suoi due collaboratori più fidati, inizia a indagare nella speranza di ritrovare, almeno, i “loro” bambini.
L’apparente immobilità delle istituzioni prende un altro aspetto quando i tre scoprono l’esistenza di una task force dell’Interpol e di una valida squadra della gendarmerie di Yaoundé, che stanno operando, in sordina, per debellare la piaga del traffico di vite umane. Ma la rete è intricata, i nodi da sciogliere sono sempre dietro l’angolo e le forze in campo, anche se unite, sempre troppo poche.
Nel suo peregrinare tra un quartiere e l’altro di Yaoundé e di Douala, Nic non solo avrà modo di scoprire un’Africa nascosta e lontana da quella stereotipata dell’immaginario collettivo occidentale, ma, soprattutto, incontrerà anche le persone che segneranno l’inizio della sua rinascita.
 
LinguaItaliano
EditorePanza
Data di uscita12 nov 2018
ISBN9788829538676
Sotto il cielo di Yaoundé

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    Anteprima del libro

    Sotto il cielo di Yaoundé - Federico Marta

    fratello

    Prologo

    Venerdì 28 dicembre 2001

    Il ronzio soffuso dei due motori dell'Airbus 330 contribuiva a rendere l'animo di Nic ancora più ovattato e impermeabile al mondo esterno e lo spingeva in un caldo torpore al confine con il sonno. Il volo Air France aveva lasciato l’aeroporto Charles de Gaulle di Parigi alle 10 e 35 di quel venerdì mattina e dopo un decollo piuttosto turbolento, dovuto ai forti venti che spiravano sull'Ile de France, procedeva, ora, tranquillamente. Gli schermi di navigazione, situati sotto alle cappelliere, segnalavano una velocità di 870 chilometri e un’altitudine di 10.200 metri. La posizione virtuale indicava che, dopo circa tre ore di viaggio, stavano volando poco a nord di Ouargala, sopra la porzione algerina del Sahara. Il tempo sereno e l’aria secca e tersa del grande deserto permettevano, guardando in basso, di vedere la sconfinata distesa di sabbia riarsa dal sole torrido. Rialzando gli occhi, invece, il cielo, di un blu profondo e intenso, dava un senso di tranquillità e di perfetta calma.

    Il volo non era pieno, anzi molti sedili erano vuoti. I passeggeri erano quelli che si possono trovare solitamente in una tratta che dall'Europa conduce verso un paese africano: missionari; imprenditori d’assalto, sia europei che africani; migranti di ritorno o parenti di quegli stessi migranti che erano stati a far visita ai propri congiunti; cooperanti o funzionari di organizzazioni internazionali; personale di qualche ambasciata che tornava al lavoro dopo le feste di Natale e qualche sporadico turista.

    Lo schermo da 9 pollici, posto sul retro del sedile blu antistante quello di Nic, trasmetteva un nuovo film con Reese Witherspoon in cui la protagonista, affermata stilista a New York, ritrova le proprie radici tornando nel profondo sud degli Stati Uniti; in Alabama. Nic, che aveva seguito le immagini in modo distratto, pensò a come stranamente quel film rappresentasse l’opposto del suo percorso: lui stava, sì, andando verso sud, ma per recidere le sue radici e per fuggire da una vita che tanto gli aveva dato e tanto gli aveva preso. Quella mattina presto, aveva lasciato Roma nel tentativo di dimenticare, di lasciarsi tutto alle spalle e, soprattutto, di allontanare quell'immenso dolore che portava dentro di sé ormai da quasi un anno; da quel maledetto sette marzo che si era preso per sempre sua moglie e suo figlio.

    Quando era stato informato dell’incidente, non era stato capace di reagire. Forse l’abitudine di sapere che loro erano là da qualche parte, in giro per la città, all'asilo, a casa o al lavoro, ma che comunque c’erano e che come tutti i giorni li avrebbe visti per il pranzo, lo aveva spinto a non cedere alla brutale realtà di quella telefonata, formale e un po’ impacciata, della polizia stradale; a non voler credere che potesse essere successo qualcosa. Giunto all'ospedale S. Eugenio, nei pressi del noto quartiere romano dell'Eur, aveva toccato con mano la sua disperazione. Aveva emesso un lungo gemito soffocato che aveva squarciato il silenzio della camera mortuaria e che gli aveva impedito di respirare per alcuni lunghissimi secondi. Si era sentito svuotato, con la testa che gli ronzava e tutto ciò che c’era sembrava girargli intorno senza una meta precisa. Il collega che lo aveva accompagnato cercava di sostenerlo e di distrarlo usando frasi di circostanza, ma sembrava che fosse dietro un vetro opaco, spesso due centimetri, imperforabile. Il suo cervello non reagiva a quella voce. Era solo con sé stesso, inghiottito in un immenso vortice nero. Già in quel momento aveva capito che il dolore non gli avrebbe più permesso di vivere la sua vecchia vita di tutti i giorni.

    « Poulet ou poisson, monsieur?». Una voce femminile l’aveva riscosso dai suoi pensieri. Alzò lo sguardo e vide l’hostess, nel suo completo blu con foulard bianco, che si era materializzata con il carrello portavivande e gli stava domandando quale menù preferisse per il pranzo.

    «Il pollo andrà benissimo! Grazie. Da bere gradirei due bicchieri d’acqua e se possibile una doppia porzione di pane» rispose Nic cordialmente.

    L’hostess gli sorrise e facendogli un cenno di assenso con la testa gli porse il vassoio e, come richiesto, l’acqua e il pane in doppia porzione. Nic sistemò tutto sul tavolino pieghevole e rivolse uno sguardo al suo vicino di posto, che fino ad allora era stato ai margini estremi dei suoi pensieri. Era un uomo di colore molto robusto, ma non grasso, sulla cinquantina, ben vestito e con degli strani occhialetti tondi fuori moda che ricordavano quelli con i quali veniva immortalato Antonio Gramsci nelle foto d’epoca.

    « A cosa serve scegliere se il sapore è sempre lo stesso?» disse Nic tra sé e sé, mentre apriva la vaschetta di alluminio che immediatamente sprigionò una nuvola di vapore.

    « È per via della salsa e del calore!», disse l’uomo seduto accanto a lui.

    «Scusi?», chiese Nic che in realtà non aveva nessuna voglia di iniziare una conversazione con uno sconosciuto. Anzi, non ne aveva voglia in assoluto, ormai da molto tempo.

    « Dico – riprese questo – che, secondo me, il sapore del cibo in aereo è sempre uguale per due motivi: il primo è che la salsa è la stessa per tutte le pietanze principali carne, pollo, pasta, riso; il secondo è che i carrelli portavivande mantengono il cibo a una temperatura troppo alta, per tanto tempo e quello continua a cuocersi. Così perde il suo sapore originale e acquisisce esclusivamente quello della salsa». L’omone condì le sue affermazioni con un largo sorriso e un «Bon appétit!», poi si tuffò sul suo antipasto.

    Nic rimase sorpreso, non tanto per la spiegazione, che gli risultava un po’ bizzarra, quanto dal fatto che il suo interlocutore si fosse espresso in un ottimo italiano. Così, mentre cominciava a mangiare il suo pollo, fu spinto a chiedergli: «Come mai parla così bene l’italiano? Vive in Italia?».

    «No, non più» disse di rimando il suo interlocutore. «Ci ho vissuto quasi otto anni quando ero più giovane. Ho studiato odontoiatria a Firenze e quando mi sono laureato sono tornato a casa. Ora faccio il dentista da quasi venti anni». Mentre diceva ciò, si sollevò di lato, prese il portafogli dalla tasca dei calzoni e ne estrasse un biglietto da visita dove era riportato il suo nome ‘Léonard Atandana, Medico dentista’, e le sue coordinate: l’indirizzo, il numero di telefono fisso e il cellulare.

    Continuando a interloquire, il dentista raccontò di aver passato il Natale a Parigi da amici che non vedeva da tanto tempo e che adesso tornava a casa per il capodanno. «Proprio il contrario del detto che si usa da voi: ‘Natale con i tuoi, capodanno con chi vuoi!’» e cominciò a ridacchiare allegramente, mentre con il pane raccoglieva il sugo rimasto nella sua vaschetta. Poi a sua volta chiese a Nic dove stesse andando e perché stesse viaggiando durante il periodo natalizio.

    « Per motivi di lavoro. Da martedì prossimo devo prendere in carico la direzione di un progetto di cooperazione finanziato dal Fondo Europeo di Sviluppo». Poi sollecitato dal suo compagno di viaggio aggiunse: «Siamo incaricati di sostenere alcune ong locali e altri gruppi che operano nel campo dell’educazione dei bambini tra i quattro e i dieci anni e della salute per tutti nelle aree urbane e periurbane».

    « Allora potrebbe servirvi anche l’aiuto di un dentista. Potremmo tenerci in contatto» disse Monsieur Atandana più per conversare, che per convinzione.

    Finito di mangiare ed esauriti i convenevoli, i due tornarono a occuparsi ciascuno dei propri pensieri. Nic stese per quanto possibile il sedile, sprimacciò il cuscinetto fornito dalla compagnia aerea, infilò gli occhiali da sole in modo da avere meno luce possibile e provò ad addormentarsi. Nel frattempo gli schermi di navigazione segnalavano la loro posizione sopra l'estremo sud dell’Algeria, quasi al confine con il Niger.

    Il tentativo di dormire un po’, visto che si era svegliato molto presto quella mattina, naufragò ben presto in quanto si ripresentò la stessa hostess di prima con le bevande calde al seguito. «Caffè o tè? Oppure due di tutti e due?» chiese flirtando amichevolmente con Nic che, stranamente divertito, accettò una tazza di caffè senza latte.

    Una volta destatosi completamente, quando ormai mancavano meno di due ore all'atterraggio, decise di rileggere ancora una volta la documentazione relativa all'incarico che avrebbe assunto di lì a quattro giorni. Voleva comprendere bene tutta la struttura istituzionale che regolava quel progetto e che vedeva coinvolte, oltre alla CoSEIn, la ong per cui lavorava, il Fonds européen de développement, l’Unicef e vari altri soggetti, dal Ministero per gli affari sociali, ad alcune Mairies [1] e ben dodici tra ong e associazioni locali. Leggendo i documenti, si ripropose di chiamare al telefono, appena arrivato in albergo, il direttore nazionale del progetto per organizzare un incontro l’indomani mattina. Anche se era il sabato prima di capodanno, aveva bisogno di fare un primo briefing informale per cercare di capire bene la situazione del progetto dopo un anno e mezzo di attività; identificare i punti di debolezza e quelli di forza; sapere come mai si era così indietro; ma anche, e soprattutto, per entrare bene nelle questioni che avevano portato all'allontanamento del suo predecessore.

    D'altronde era successo tutto in fretta, molto in fretta. Aveva accettato quella proposta di lavoro senza neanche pensarci, senza approfondire troppo la vicenda, senza affrontare tutte le complicazioni che avrebbe potuto comportare. Avrebbe accettato qualunque offerta lo avesse portato lontano dall'Italia e, soprattutto, da Roma. Ed era successo tutto in meno di tre settimane.

    Era un piovoso lunedì mattina di inizio dicembre quando, entrando in un bar al centro di Roma, aveva incontrato Emanuela Legno, la direttrice della ong CoSEIn, per la quale aveva lavorato come giovane volontario nella seconda metà degli anni Ottanta. Emanuela era una persona di carattere, rude e diretta, ma in grado, anche solo con il suo sorriso e la sua schiettezza, di mettere a proprio agio e di far parlare chiunque come se fosse un vecchio amico. Gli aveva proposto di sedersi al tavolino, di prendere un caffè e, intanto, di fare due chiacchiere. Aveva saputo del suo lutto da un amico comune e sapeva che Nic non se la passava molto bene, che era un uomo solo, lontano dal mondo e che stentava a ricominciare.

    Avevano ricordato i vecchi tempi quando assieme avevano girato tutta l’Africa occidentale, con quattro soldi in tasca e tanta fiducia di poter cambiare le cose, di poter fare qualcosa di veramente significativo per la crescita di quella porzione di continente nero. Erano stati in Senegal, in Burkina Faso pochi mesi dopo la rivoluzione di Sankara, nel nord del Niger e in altri paesi ancora. Erano i tempi pionieristici della cooperazione italiana in Africa e questo li aveva segnati con bellissimi ricordi e con un bagaglio di esperienze incredibili.

    Da come Nic parlava di quelle scorribande e da come gli brillavano i suoi begli occhi, verdi con sfumature marroni, Emanuela aveva capito al volo che quell'uomo distrutto poteva essere la persona che faceva per lei e che lei poteva essere la sua ancora di salvezza.

    « Perché non tagli il cordone ombelicale e ti trasferisci laggiù per tre o quattro anni? So che ti hanno licenziato per un’assenza ingiustificata troppo lunga; d'altronde un ispettore assicurativo non può andare al lavoro quando vuole. Lo so che non riesci più a stare qui, che tutto ti ricorda la vita con la tua famiglia e che fai fatica ad andare avanti». Poi, improvvisamente, Emanuela aveva lanciato la bomba: «Io potrei farti una proposta molto interessante. Ho bisogno urgente di un capo progetto espatriato, perché abbiamo dovuto cacciare su due piedi quello di prima per inefficacia e perché sospettavamo che emettesse fatture false o gonfiate». Aveva proseguito dando alcuni dettagli sul tipo di progetto, sul personale locale e anche sulla possibile retribuzione.

    « Io non lavoro più in questo campo da tanti anni, non so se sono all'altezza. Anche con il francese sono un po’ arrugginito. Avrei bisogno di un po’ di tempo per pensarci, ma potrebbe non essere una cattiva idea». Così aveva risposto Nic tentando di temporeggiare, per poter poi fuggire, nascosto nella penombra della sua stanza in affitto, anche da quella occasione per ricominciare a vivere.

    Emanuela però lo aveva messo alle corde: «Guarda, io ho l’Unione Europea alle costole perché vogliono un sostituto per l’inizio dell’anno prossimo e non so più dove sbattere la testa. Quindi pensaci, ma devo avere una risposta, tassativamente tra ventiquattr'ore. Dimmi di sì e vedrai che poi mi ringrazierai. Non sai quante volte ho visto l’odore dell’Africa fare miracoli sulle persone». Emanuela concluse la sua perorazione, lasciando che il suo sorriso sincero e bonario facesse effetto. Poi, dette un buffetto a Nic, si alzò, pagò il conto e uscì dal bar mettendo a tracolla la sua borsa di stoffa militare; forse la stessa di tanti anni prima.

    La mattina successiva Nic si era detto che non aveva nulla da perdere. Aveva telefonato a Emanuela e gli aveva risposto in modo secco e deciso: «Ci sto!».

    Le due settimane successive era entrato in vortice di cose da fare. Si sentiva dentro a un frullatore, girando da un posto all'altro per sistemare tutto ciò che era stato e per preparare quello che sarebbe venuto. Il visto di ingresso sul passaporto, il libretto sanitario con i vaccini per la febbre gialla e tutte le altre precauzioni sanitarie, l’incontro a Bruxelles con il desk officer responsabile del progetto, gli incontri alla CoSEIn, le serate passate con sua sorella per lasciarle tutte le disposizioni necessarie alla vendita della casa, dove comunque non viveva più da mesi, e della sua vecchia Renault Clio. Aveva saldato il proprietario della stanza dove viveva, pagato le utenze, chiuso conti correnti, segnalato il suo trasferimento e fatto richiesta per l’iscrizione all'anagrafe dei residenti all'estero. Erano state giornate infernali che gli avevano impedito di continuare ad avvilupparsi su se stesso e di rimanere impassibile e distante di fronte a qualsiasi avvenimento. Forse aveva preso la decisione giusta.

    Mentre rimuginava su quegli ultimi giorni, che lo stavano conducendo a cambiare orizzonte, Nic sentì come una stretta allo stomaco e un improvviso senso di vuoto, accompagnato da un fastidioso formicolio alle gambe. Istintivamente, con un riflesso incondizionato si aggrappò saldamente a entrambi i braccioli del sedile nel, comunque inutile, tentativo di tenersi e di non cadere nel vuoto. La sua paura di volare, che si manifestava soprattutto durante il decollo e l’atterraggio, non era mai venuta meno, pur avendo viaggiato in aereo moltissime volte, con varie compagnie e anche su aerei improbabili. Dopo qualche momento si rese conto che era iniziata la discesa verso la sua meta finale. Mise gli auricolari e, sperando in un atterraggio meno movimentato del decollo, sintonizzò il canale della musica classica. Cominciò gli esercizi di respirazione e di rilassamento, mentre la radio mandava il secondo movimento del concerto per violino e orchestra di Beethoven.

    Durante l’approccio alla pista di atterraggio, l’aereo virò varie volte, inclinandosi ora a destra, ora a sinistra, e permise a Nic di vedere dall'alto lo spettacolo della natura che scorreva sotto di lui. Due colori risaltavano su tutto; due colori che aveva già visto in precedenza e che gli anni di lontananza da quei posti non avevano sbiadito: il verde oliva degli grandi alberi della foresta pluviale e le ampie distese di terra di quel colore indefinibile e bellissimo che si avvicina molto al rosso mattone scuro e che caratterizzano la regione dell’Africa centro occidentale.

    L’aereo proseguì la sua corsa avvicinandosi sempre di più a terra, fino a che, all'improvviso, nell'oblò alla sua destra comparve la striscia di asfalto grigio con le luci di pista accese. Dolcemente e con un piccolo rimbalzo l’aereo toccò terra e i freni cominciarono a gridare la loro sofferenza.

    Mentre stavano rollando sulla pista per arrivare all'area di sosta, il pilota accese gli altoparlanti e fornì ai passeggeri le consuete informazioni: «È il comandante che vi parla. Sono le 17.45, siamo atterrati all'aeroporto Nsimalen di Yaoundé con dieci minuti di ritardo. Il tempo è sereno e la temperatura a terra è di 24 gradi centigradi. Tra pochi minuti arriveremo all'area di sosta. Vi preghiamo di non alzarvi prima dell’arresto totale dell’apparecchio. Grazie per aver volato Air France e ‘Benvenuti in Camerun!’».

    Nic camminava lentamente, intruppato con gli altri passeggeri, nel tubo di sbarco che lo avrebbe condotto in aeroporto. Quella situazione gli aveva sempre fatto venire in mente gli scampoli di un esercito in ritirata dopo una rotta disastrosa. Automi spaesati che camminavano stancamente sotto il carico di buste, di borsoni e di trolley di vari colori, con le loro rotelle cigolanti. I giacconi pesanti, necessari nel clima invernale della partenza, ma assolutamente inutili e ingombranti nel caldo arrivo a Yaoundé, portati in modo sciatto sotto braccio. Gente provata dall'immobilità e dalle tante ore di viaggio in aereo, che vedeva solo l’ora di trovare un passaggio verso una buona cena e una bella dormita.

    Giunti alla fine del tubo girarono a destra su un lungo corridoio che costeggiava l’aeroporto, la cui parete di vetro permetteva di vedere, con l’ultima luce del tramonto, una parte della pista e tutti gli aerei posteggiati, in attesa di librarsi nuovamente in aria. Tra questi, oltre a quelli transcontinentali di varie linee europee, spiccavano quelli della Cameroon Airlines, numerosi e di tutte le dimensioni, con la loro livrea gialla, verde e rossa e con il logo sulla coda in cui una grande lettera ‘C’, con una stella gialla a metà, circondava un uccello stilizzato, dalle sembianze meccaniche.

    Proprio in fondo era posteggiato un Boeing 747, il fiore all'occhiello dell’aviazione civile camerunese, che rappresentava la crescita e la speranza del Paese negli anni Ottanta e la volontà di avere un contatto più ravvicinato con il resto del continente africano, ma anche con l’Europa. Un Paese, il Camerun, che però ora cercava solo di uscire dal lungo periodo di crisi economica e sociale che aveva caratterizzato gli ultimi dieci anni. Un Paese che faceva della stabilità la sua forza, grazie al fatto di essere una delle poche nazioni africane a non aver mai vissuto, dagli anni Settanta in poi, momenti particolarmente cruenti di conflitto, colpi di stato, guerre civili o rivoluzioni. Un paese che aveva grandi potenzialità e grandi risorse, ma che doveva trovare il modo e le capacità di gestirle e di sfruttarle al meglio.

    Scesero al piano sottostante seguendo una spoglia scalinata, passarono il controllo dei libretti sanitari gialli da parte del personale medico e si avvicinarono al nastro per il ritiro dei bagagli. La sala era invasa dal vociare dei passeggeri in attesa, dalla forte luce biancastra dei neon e dai facchini, più o meno abusivi, che aspettavano di potersi guadagnare la loro mancia. Quando arrivarono i bagagli Nic prese la sua valigia rossa e aiutò, a fare altrettanto, una giovane signora europea, che portava un bimbetto poco più che neonato in un marsupio davanti al suo petto. Poi, le sistemò la valigia su un carrello, le fece un sorriso di saluto e si avviò al controllo passaporti, seguito dai ringraziamenti della giovane donna.

    « Monsieur Nicola Basciano, italien. Roberto Baggio!» disse la guardia al controllo passaporti, facendo ricorso al calcio, uno degli stereotipi internazionali sull'Italia. «Qual è il motivo della sua visita in Camerun?» chiese poi. «Lavoro. Seguirò un progetto di cooperazione finanziato dall'Unione Europea», rispose Nic, che iniziava a essere stanco dopo aver fatto una fila di quasi quaranta minuti. Il poliziotto lo guardò a lungo, confrontando quello che vedeva dal vivo con la foto un po’ datata del passaporto. Poi, soddisfatto, lo congedò con le semplici parole: «Bienvenu au Cameroun!».

    Nic riprese il passaporto e si avviò verso l’uscita che raggiunse non prima di aver disbrigato l’ultima formalità: il controllo bagagli. Gente che spingeva, voci che emettevano parole di lingue sconosciute, valige aperte con calzini, camice e prodotti per l’igiene che fuoriuscivano come se le cerniere dei loro contenitori non avessero retto la pressione e fossero esplose improvvisamente. Poi un segno con il gesso per segnalare il bagaglio controllato e via nella grande sala, dove parenti, amici, colleghi e tassisti attendevano i passeggeri in uscita. Nic vide subito il cartello con su scritto Hotel Mercure tenuto alto dallo chauffeur. Si presentò con un cenno di saluto e questi, verificato che con ci fossero altri ospiti da portare in albergo, fece strada a Nic fino al pulmino fermo nel parcheggio dell’aeroporto.

    La strada fu relativamente breve e molto poco illuminata fino a che non si ritrovarono nei quartieri periferici della zona meridionale della città. Qui, dopo essere stati immersi in una folta vegetazione con qualche rara costruzione per lo più piccola e malandata, si iniziarono a vedere i primi edifici che facevano pensare a un processo di urbanizzazione rapido e incontrollato. Vi si trovavano palazzi a più piani e, contestualmente, casotti in calce e mattoni o baracche in legno. Le strade principali erano bene asfaltate, ma da queste si dipartivano vicoletti in terra difficilmente percorribili in auto.

    Il traffico era abbastanza intenso e prevalentemente composto da taxi gialli, alcuni dei quali, dimostravano molti più anni di quelli che probabilmente avevano. Soprattutto in centro, essendo l’inizio del lungo weekend di capodanno, ci si muoveva molto lentamente e si procedeva a colpi di clacson. La gente per strada si godeva quelle ore di relax passeggiando lungo le strade, affollandosi presso chioschi e piccoli bar e inondando l’aria di ritmi musicali ad alto volume.

    Finalmente, il pulmino si infilò in uno spiazzo dominato dalla facciata dell’hotel. Nic, aiutato dall'autista, prese le valige e si diresse alla reception proprio di fronte alla porta d’entrata. Sulla parete sinistra campeggiava la splendida sezione di un baobab gigante di oltre due metri di diametro, mentre sulla destra lo spazio era riempito dai tavolini di un bar dalle luci soffuse.

    Una divisa rosso bordò lo accolse con l’ormai consueto: «Benvenuto a Yaoundé». Nic si registrò, prese le chiavi e si ritirò in camera, dove, dopo aver fatto una doccia, prese accordi con il vice direttore nazionale del progetto per l’indomani, consumò una cena fredda e si preparò per andare a dormire.

    Contrariamente a quanto accaduto negli ultimi mesi, Nic dormì profondamente, senza svegliarsi mai e senza mai incontrare i suoi fantasmi.

    Capitolo Primo

    Sabato 29 dicembre 2001

    Da parecchie ore non sentiva più nessun rumore; il buio nella stanza era pesante e umido, una fioca lama di luce spuntava da sotto la porta, ma veniva inghiottita immediatamente dall'oscurità. Gli avevano portato del pane e un uovo sodo, gli avevano lasciato una brocca con dell’acqua e degli stracci su cui sedersi e dormire. Aveva una catena legata alla caviglia sinistra con un lucchetto e poteva fare solo piccoli spostamenti. Da due giorni circa si trovava rinchiuso in quella stanzetta, senza nemmeno sapere come c’era arrivato. Ricordava solo che il giovedì pomeriggio si era allontanato dal Centro di accoglienza dopo aver litigato con i suoi compagni che lo prendevano in giro per aver sbagliato un calcio di rigore. Dopo aver camminato a lungo si era seduto per sfogare la sua rabbia in un pianto nascosto. Lui era un duro e non aveva paura di nulla, solo non amava essere preso in giro, soprattutto davanti alle ragazze. Un uomo si era fermato e aveva cercato di consolarlo. Gli aveva offerto un’aranciata e delle paste in una boulangerie poco distante. Era stato molto gentile, con la sua parlata strana e con quei buffi capelli biondo cenere. Nessuno, nei suoi otto anni di vita, era mai stato così gentile con lui, nessuno gli aveva mai offerto nulla, tanto meno un giro in automobile e una visita allo zoo. Poi erano saliti in macchina e da allora non ricordava più nulla di quanto fosse accaduto. Sapeva solo che si era ritrovato lì, al buio, legato al muro, su un pavimento in terra battuta e che aveva molta fame. Era forte, aveva dei bei muscoli per la sua età, correva veloce come il vento e ne aveva combinate di tutti i colori. Nulla lo aveva mai fermato, ma questa volta era diverso; questa volta aveva paura.

    * * *

    La tazza di caffè bollente, corredata da un piccolo wafer al cioccolato e due cubetti di zucchero mal raffinato, sprigionava volute di vapore che, spingendosi verso l’alto, ricordavano dei frattali in continuo movimento. Sul vassoio, accanto alla tazza, una bottiglietta di acqua minerale Tangui appena aperta e un bicchiere. Nic osservava quella scena statica aspettando che l’intruglio bollente che chiamavano caffè si freddasse e, soprattutto, che arrivassero le dieci, ora dell’appuntamento con Richard, il direttore nazionale del progetto.

    Quella mattina Nic, come da abitudine, consolidata nelle sue precedenti missioni, si era alzato molto presto, aveva preso una colazione leggera ed era uscito per fare quattro passi fumando la sua prima sigaretta. In questo modo sapeva che si sarebbe svegliato del tutto, ma soprattutto che avrebbe potuto respirare l’atmosfera di questo paese a lui sconosciuto. Così aveva potuto vedere la vita urbana di Yaoundé che prendeva forma sotto i suoi occhi: un gruppo di giovanotti che correva per strada, allenandosi per un futuro da calciatori, sporadici taxi gialli che zigzagavano per evitare le buche più profonde, un camion con il cassone aperto vicino al quale due uomini raccoglievano enormi cumuli di immondezza, i primi ambulanti che spingevano i loro carretti con generi alimentari da vendere a quei pochi che avrebbero lavorato il sabato mattina.

    Dall'hotel si era spinto lungo la Avenue Ahidjo, una strada in leggera salita, fino ad arrivare al Marché central, ancora inanimato. Appoggiato a un banchetto esterno aveva osservato quell'incedere incerto e lento delle cose. Poi era tornato indietro lungo il Boulevard 20 maggio, famoso per la data che celebra la riunificazione del Paese e per l’enorme edificio che ospitava l’Hotel Hilton. Prima di rientrare aveva acquistato un quaderno, per registrare tutti gli avvenimenti e le riunioni di lavoro, in uno dei negozietti che si trovavano sotto al portico, proprio di fronte all'albergo. Era un tipico quaderno africano con una quadrettatura diversa da quelle che si trovavano in Italia. I singoli riquadri erano in realtà dei rettangoli bassi e lunghi e le righe laterali erano di colore violetto sbiadito.

    Nel bar dell’hotel, ricavato nell'ala destra della hall, c’era solo un altro cliente. Seduto su uno sgabello era in conversazione con il barista, che con il suo metro e sessanta scarso e la sua divisa verde scuro spuntava a mala pena da dietro il bancone. La quiete venne interrotta da due persone che entrando si diressero alla reception. Nic comprese che erano lì per lui quando vide la receptionist indicare nella sua direzione. I due si diressero in fila indiana verso il suo tavolino. Uno era alto forse un metro e ottantacinque, tendente al paffuto dall'aria distratta, ma bonaria. L’altro era quindici centimetri più basso, magro, ma muscoloso ed elettrico, quasi in tensione. A Nic fecero subito pensare a una sorta di versione camerunese di Stanlio e Ollio.

    Quello più grosso, vestito con un bellissimo boubou tradizionale lilla, gli andò incontro con un largo sorriso e, tendendogli la mano, chiese: «Monsieur Nicola?». Alla risposta positiva di Nic, prosegui: «Salve sono Richard N'Dugsa Mbede e lui è Samuel Nganang, il contabile del progetto. Ho pensato che le facesse piacere cominciare a conoscere qualcuno del personale. E poi io e lui siamo i più anziani: quelli che lavorano con la vostra Ong fin dall'inizio delle attività e che conoscono tutti i retroscena e le particolarità del progetto».

    « Posso offrirvi qualche cosa?», chiese Nic, invitandoli a sedere con lui. Entrambi presero un succo d’arancia e un croissant e cominciarono a conversare, prendendo spunto dalle immagini del notiziario che passavano sul televisore del bar appeso al muro. C’era, infatti, un servizio sulle ultime vicende di politica internazionale legate ai bombardamenti americani e all'invasione dell’Afghanistan. La eco e lo sgomento che avevano seguito l’11 settembre, con le immagini delle torri gemelle del World Trade Center che venivano giù inesorabilmente dopo essere state centrate in pieno da due aerei di linea, erano ancora molto forti in tutto il mondo. Poi, dal 7 ottobre, quando erano cominciati i raid aerei dell’operazione ‘Enduring Freedom’, la situazione era ulteriormente degenerata. L’intervento americano aveva suscitato discussioni e polemiche per essere stato lanciato senza un effettivo consenso delle Nazioni Unite e senza il coinvolgimento della NATO.

    « Ma adesso veniamo a noi. Che mi raccontate del progetto. Ci sono cose che devo assolutamente sapere prima di cominciare il mio incarico?» chiese a un certo punto Nic per avviare la riunione.

    « Il progetto è cominciato a giugno del 1998 e, sostanzialmente, si occupa di finanziare, sostenere e monitorare micro-progetti di intervento in ambito sanitario ed educativo, nelle città di Yaoundé e Douala», cominciò a raccontare Richard, come se presentasse il progetto a una conferenza.

    «I micro-progetti devono essere promossi e realizzati da organizzazioni della società civile, quindi associazioni e ong locali, e devono lavorare in partenariato con altri soggetti che apportino altre risorse di tipo economico, professionale, strutturali, ecc.». Mentre parlava tamburellava il dito indice su un pacchetto di sigarette bianche e verdi alla menta, ma non pareva volesse tirarne fuori una e, tanto meno, accenderla.

    « In questi mesi di progetto c’è stato un periodo di preparazione e di avvio, un periodo in cui è stato pubblicizzato un bando di partecipazione che ha portato alla selezione di una prima tornata di dieci iniziative. I successivi sei mesi sono stati dedicati alla partenza e al consolidamento delle attività. Complessivamente, con i soldi dell’Unione Europea, ora finanziamo iniziative per quasi cento milioni di Franchi Cfa».

    Nic dovette fare un po’ di calcoli per arrivare a convertire quel totale in trecento milioni di lire italiane e, soprattutto con l'imminentissimo arrivo della nuova moneta unica europea, in centocinquantamila Euro.

    « Per ora abbiamo sei progetti di alfabetizzazione e di sostegno all'infanzia e quattro dispensari sanitari di prima assistenza medica – intervenne per la prima volta Samuel – e lavoriamo in sette quartieri periferici, quattro a Yaoundé e tre a Douala. Due iniziative sono in forte ritardo, ma le altre otto sono tutte ben avviate. In particolare, c’è un asilo, ‘Les canetons’ – ‘gli anatroccoli’ –, aperto dalla mattina alla sera, che ospita quaranta bambini in età prescolare, i cui genitori lavorano e non hanno amici e parenti cui lasciare i piccoli. Per questi sono previste attività ludiche, ma anche una prima alfabetizzazione in modo che imparino a leggere, scrivere e fare di conto. Poi, abbiamo un dispensario ‘Santé pour tous a Mballa II’ che fornisce cure di primo soccorso, cicli di vaccinazione e medicinali ai ragazzi del quartiere e alle loro madri. Proprio nelle scorse settimane hanno fatto anche un check up gratuito a tutti i bambini coinvolti negli altri progetti di Yaoundé».

    Via via scorsero tutte le iniziative finanziate e la riunione sulla situazione

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