Nerofumo Verdeacido: ...finché morte non ci separi
Di Samovar
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E allora, in un sonnolento sabato agostano, un evento drammatico può gelare l’afa con i brividi della paura, spingendo alcuni a riconsiderare la propria vita e a dargli una svolta, osando, ricordando o semplicemente lasciandosi andare.
Nulla sarà più come prima.
Forse...
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Anteprima del libro
Nerofumo Verdeacido - Samovar
Morfeo.
Parte Prima
mattino
Ermenegildo guardò l’orologio digitale col quadrante illuminato che aveva al polso: erano le cinque e venti, quel tanto di oscurità prima dell’alba che gli sarebbe bastata per sgattaiolare fuori casa senza farsi troppo notare. Tutto era organizzato, anche oggi, sabato 23 agosto 2008. Era abituato così, anche nei giorni festivi. Tutta la sua vita doveva essere perfetta, senza imprevisti, senza scossoni.
Aveva il fine settimana interamente libero; ormai erano passati gli anni dei turni massacranti.
Scese piano i gradini della grande scala di legno, per attutire lo scricchiolio delle assi. Non voleva che lei si svegliasse. Sapeva come muoversi. Conosceva bene la sua scala per averla spolverata e pulita innumerevoli volte, con pazienza, con precisione. Con amore per lei, come tutto ciò che faceva e aveva sempre fatto. Lo rendeva felice sentire il vanto nella sua voce con gli ospiti, che apprezzavano il perfetto ordine della casa. Puliva tutto lui, ma nessuno doveva sapere; così lei avrebbe potuto dedicare più tempo al suo giro per negozi con le amiche.
Anche nel lavoro aveva pianificato la sua carriera per accrescere la sicurezza della moglie: era diventato prima operaio specializzato, poi responsabile di reparto e da ultimo anche referente sindacale. Ciò che succedeva nel suo reparto lui sembrava prevederlo, nulla sfuggiva al suo controllo, sapeva tutto degli uomini e dei macchinari che dipendevano da lui.
Uscì di casa mentre intorno l'oscurità stava per dissolversi. Una veloce colazione in cucina al pianterreno e poi in garage a tirar fuori l’auto, non quella buona. Quella serviva solo per uscire con la moglie.
Accese i fanali, unico segnale di vita a quell’ora in quella parte del quartiere Nullo Baldini, e partì lentamente, godendo nell’ascoltare il motore della Punto tirata a lucido.
Mi aspetta una giornata intensa, piena di impegni...
pensava con gusto.
Decise di attraversare la città, anche se per recarsi a Porto Corsini sarebbe stata più comoda la tangenziale.
Lui non amava le strade esterne, larghe, immerse nei campi, la cui lunga, continua linea piatta aveva sostituito la sagoma dolce delle colline dell’Appennino forlivese da cui proveniva. Amava ancor meno i cantieri, che poco alla volta, a isolati e sparuti ruderi abbandonati, sostituivano nuovi, grandi edifici colorati, che ampliavano i quartieri ridisegnando confini incerti e senza logica. Si scoprì a ripercorrere le strade che avevano accompagnato le tappe della sua vita, rivedendosi nei luoghi degli anni giovanili accanto alla sua adorata Olghina. Lei, così minuta, aggraziata, ma dalle forme e dalle proporzioni perfette, come una bambolina, con i dolci lineamenti del viso morbidi e regolari. Aveva sedici anni ed era sbocciata come un fiore. A lui, che allora ne aveva ventiquattro, la magrezza eccessiva rendeva più duri i tratti del volto. Gli zigomi risultavano marcati, la fronte, benché alta, sembrava leggermente più spiovente. All’improvviso spuntava un naso affilato e adunco, troppo sporgente sulle labbra sottili, perennemente atteggiate nella smorfia tipica di chi riflette e rimugina sempre su tutto.
Passò per la Circonvallazione San Gaetanino, dove avevano abitato per la prima volta insieme dopo il matrimonio. Lì, dentro le mura dell’interno 11 al terzo piano, erano conservati i ricordi più belli della sua vita e ancora adesso, quando passava, sentiva le stesse emozioni rinnovarsi.
Più avanti, percorrendo via Sant’Alberto, intravide il palazzone di edilizia popolare, dai muri perennemente scrostati, in cui in due stanze, bagno e cucina aveva coabitato con alcuni colleghi dello stabilimento Enichem. Nicola, Calogero e Antonino, detto Toto, si erano offerti subito di accoglierlo nel loro appartamento dove si era liberato il posto lasciato da Giovanni, che aveva finalmente ottenuto il trasferimento nello stabilimento di Gela, vicino alla sua famiglia.
Gildo, come lo chiamavano i colleghi, aveva ben poco in comune con loro e, all’inizio, si era anche ritrovato varie volte a pensare se non fosse il caso di trovare un altro alloggio. Ma alla fine non aveva fatto nulla per traslocare, lasciandosi pian piano contagiare dalla loro rumorosa allegria, dai problemi familiari condivisi, che lo aiutavano a scacciare il morso della solitudine e la tristezza per la lontananza delle persone a lui care.
Il loro fatalismo però no, quello non lo accettò mai.
I momenti più belli di quella convivenza, comunque, li aveva passati al tavolo della cucina, soprattutto la sera, dopo aver consumato quelle cene che, con i profumi, rinsaldavano i ricordi e facevano sentire più sopportabile la lontananza dalla loro terra.
Tutti e tre provenivano da luoghi lambiti dal mare e così, anche a Ravenna, era questo che appena potevano correvano a cercare. Del resto il mare era così vicino che spesso lo preferivano al dopolavoro.
A Ermenegildo non interessava quel paesaggio, ma ben presto cominciò ad amarne i sapori. Erano stati i colleghi più anziani del dopolavoro che lo avevano dapprima incuriosito con le loro storie marinare e poi convinto, tanto che alla fine si era ritrovato parte attiva nelle loro dispute e nella ricerca dell’esaltazione perfetta dei sapori del mare, anzi, di quel mare.
E così era nato e’ racoz, il gruppo della zuppa di pesce. Qui ognuno portava la sua esperienza ed era pronto ad accogliere quella degli altri; ed erano in parecchi in uno stabilimento che era stato polo di attrazione per tanti lavoratori del Paese.
Come diceva Aurelio:
«Con le migliaia di chilometri di costa che abbiamo in Italia, ci sono tante di quelle ricette per la zuppa di pesce, non solo quante sono le regioni, ma addirittura le marinerie! E anche se cambia nome, come brodetto in Romagna e Marche o cacciucco in Toscana, o buridda in Liguria, la sostanza è sempre la stessa, perché l’hanno inventato i pescatori, che direttamente sulle barche, sui gozzi o trabaccoli in Romagna, cucinavano il pesce minuto, di scarso pregio ma ricco di sapore, che si trovava dalle loro parti. E’ logico, è una tradizione che le qualità di pesce utilizzate siano diverse nelle varianti locali della ricetta».
E così dicendo citava le differenze delle ricette che avevano più successo nelle loro gare gastronomiche.
Mentre era immerso in questi pensieri, si accorse che si era già lasciato alle spalle i palazzoni del Villaggio Anic.
Quella mattina Gildo si recò a comprare il pesce, come sempre, dal suo amico Checco, che riusciva in qualche maniera a procurargli esattamente ciò che gli occorreva per le sue zuppe. Avrebbe trovato Checco nelle vicinanze del canale di Porto Corsini, con le sue cassette di pesce e la faccia un po’ losca da vecchio lupo di mare. Si ricordò ogni ingrediente della sua formula, fatta di poche, semplici regole e di alcuni accorgimenti frutto dell’esperienza, propria o altrui; le cinque o sei diverse qualità di pesce e, in particolare, quella che non doveva mancare mai, lo scorfano. Checco, taciturno e con gesti esperti, incartava il pesce, mentre Ermenegildo era, se possibile, ancor più silenzioso e concentrato. Controllava tutto, persino il confezionamento doveva andargli bene. Non era certo un cliente facile.
Tornando all’auto, Ermenegildo chiuse le buste nel baule, affinché non si diffondesse nell’abitacolo quell’odore che, nonostante tutto detestava: temeva infastidisse la sua Olghina e il suo profumo di Hermès.
Già, Hermès, come lei lo chiamava dolcemente sottovoce quando voleva ottenere qualcosa di più.
Corrono felici sulla spiaggia. Il sole riverbera sulla sabbia bianca mentre il caldo avvolge in un’unica morsa tutto l’orizzonte, le rade tende da sole sparse sulla spiaggia e i capanni, sulla linea delle dune.
Corre Carla, corre e ride. Anselmo trafelato la insegue. La felicità in certi momenti la puoi afferrare. Poi un tuffo nell’acqua limpida, l’esplosione di gocce d’acqua come cristalli e il refrigerio si accompagna al tocco della pelle morbida di Carla, al velluto delle sue labbra.
«Ti ho presa! Mi spetta un premio».
«Ma quale premio! Tu il premio c'è l’hai tutti i giorni».
«Non barare, mi spetta subito un bacio... tanto per cominciare...»
«Beh, quando hai ragione...»
«Mi è venuta fame! Andiamo a mangiare qualcosa all’ombra, che tutto questo sole comincia a darmi alla testa».
«Eh, me ne sono accorta!»
Ridono. Tenendosi per mano escono dall’acqua e si avviano sulla spiaggia arroventata, biancheggiante al sole. L’ombra che la tenda proietta sulla sabbia, appare a tutti e due come un angolo di paradiso, una fresca oasi in quel delirio estivo.
Il cibo è una potente medicina che rigenera le forze. Il corpo si rilassa e anche la mente. Sdraiati sopra il telo, all’ombra, la testa di Anselmo sulle