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Il secondo figlio
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E-book231 pagine3 ore

Il secondo figlio

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Info su questo ebook

Una nuova melodia in testa, che aspetta solo di essere messa su carta, una bottiglia di vino rosso e una storia da raccontare: così, in un giorno d’estate, Diego si trova a ripercorrere alcuni ricordi d’infanzia. Su tutti la misteriosa morte di nonno Gervasio, ucciso nella sua casa per quella che all’epoca fu archiviata come una rapina. Un episodio che gli fu raccontato da ragazzo e che ora, sepolto da anni di silenzio, si riaffaccia prepotente alla memoria. Scorrono veloci le dita sulla tastiera – del computer e del pianoforte – mentre Diego, in un impeto creativo, sforna in parallelo note e parole, ripercorrendo le tappe della crescita personale e professionale del nonno nella Francia del primo dopoguerra. Sono diversi Diego e Gervasio, eppure è simile lo spirito che li anima: un’ambizione che, lontana dall’arrivismo a tutti i costi, è prima di tutto perseguimento di un sogno, costruzione di un progetto tassello dopo tassello. E come un puzzle, anche la loro storia prende forma pezzo dopo pezzo, animata da un linguaggio accattivante e incisivo, fino a svelare un epilogo inaspettato...
LinguaItaliano
Data di uscita7 giu 2017
ISBN9788856783544
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    Anteprima del libro

    Il secondo figlio - Lanfranco Schuhmann

    Albatros

    Nuove Voci

    Ebook

    © 2017 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma

    www.gruppoalbatrosilfilo.it

    ISBN 978-88-567-8354-4

    I edizione elettronica giugno 2017

    A George Simenon,

    anche lui, a suo tempo, chierichetto.

    E a Paolo Conte,

    perché anni fa

    ho rubato un posto in prima fila

    a un suo concerto.

    Preludio.

    Osservo le mie dita, ossute e pallide e dalla pelle ormai grinzosa, mentre scorrono sulla tastiera del pianoforte. Sto cercando di mettere insieme i brandelli sfilacciati di un nuovo pezzo che di sua spontanea volontà mi ha svegliato, questa mattina, senza chiedermene il permesso.

    Ho già ben chiara l’idea che si tratterà di un pezzo che nascendo musica classica diverrà jazz, questo è deciso, ma sono già trascorse ininterrottamente più di undici ore da quando ho cominciato a scarabocchiare e a correggere e ad annotare e a riscrivere e a cancellare un’infinità di note sul futuro spartito e sull’attuale bloc-notes poggiati di fronte a me. E finora non ho partorito nulla di concreto.

    Fa ancora un caldo feroce, pur essendo già tramontato il sole, le finestre spalancate sul paese in ferie sembrano grandi bocche in cerca di un po’ di aria fresca, invano. Sudo sui tasti.

    Le note che sto sparpagliando intorno a me si incollano le une alle altre, per poi cadere a terra esauste – quasi le vedo svenire, spiaccicate sul pavimento.

    Nella mia testa non ci sono soltanto queste note, nella mia testa stanno volando altri pensieri, altre idee, altri ricordi. La pausa caffè, a questo punto, mi spetta di diritto, ma sarà meglio che prima mangi qualcosa, col tuo permesso, sono digiuno da ieri sera. Spero di riuscire a venire a capo di questo vuoto compositivo, nel frattempo.

    Forse avrei dovuto trovarmi un passatempo un po’ meno impegnativo rispetto alla musica, che so, le parole crociate, magari, o il collezionismo... Ma ormai è tardi, la rete invisibile dei pescatori di musica mi ha catturato da parecchio tempo, e sicuramente con un suo perché, oltretutto, ma questo perché mi è tuttora oscuro, ho sempre evitato di chiedere a chicchessia, e soprattutto a me stesso, i perché della vita.

    Forse però, pensandoci bene, era semplicemente giusto che il pianoforte di mio nonno continuasse a suonare – e a vivere, di conseguenza.

    Mia moglie è via per qualche giorno. Come da tradizione che si ripete ogni anno in questo periodo, è andata a trovare sua sorella per poterle parlare di persona di tutte le cose di cui le parla quotidianamente al telefono. Di persona, effettivamente, le conversazioni sono tutta un’altra cosa. Credo sia un po’ come la differenza che c’è tra la musica ascoltata da un CD e la musica ascoltata dal vivo.

    E, come da tradizione, mi ha lasciato in frigorifero una serie di vaschette in PVC con coperchio ermetico che ha riempito di cibo pronto all’uso, cucinato da lei con le sue mani e col suo amore, basta soltanto riscaldarne il contenuto in forno o in padella, a seconda dei casi. E su ogni vaschetta c’è un’etichetta che indica il giorno a cui quel cibo è destinato. Oggi è domenica, polpette al sugo, sull’etichetta c’è scritto di aggiungerci un goccio d’acqua, e io eseguo.

    Mi mangio la mia razione di polpette al sugo temporaneamente appoggiato con una sola chiappa su una sedia in fòrmica davanti al telegiornale, vedo i vari pezzi di realtà esterna che si susseguono sullo schermo ma non riesco a cogliere il quadro nel suo insieme, sto continuando insistentemente a pensare al pezzo da comporre al piano, e al suo successivo arrangiamento per trasformarlo in qualcosa di decente.

    All’ultimo boccone ho deciso: cambio tastiera e composizione.

    Col telecomando uccido il giornalista che stava parlando di olimpiadi. L’ho sempre detto che lo sport fa male.

    Piatto posate e vaschetta in PVC in lavastoviglie, io e bicchiere alla scrivania. Ho cambiato tastiera, effettivamente, ora ho davanti a me quella del computer, e comincio a scrivere la storia che sto per raccontarti. La musica può aspettare, tanto so già che domani sarà di nuovo lei a svegliarmi.

    Avvertenze per il consumatore.

    C’è accanto a me, sulla scrivania, una boccia di vino rosso, della cui provenienza sono sicuro un po’ sì e un po’ no. Giù in cantina c’è un po’ di tutto, a dire il vero, vino comprato, vino ricevuto in regalo, vino ereditato. A volte imbottiglio da me del vino che mi faccio spedire in damigiane da un produttore francese amico di vecchia data. Non so nemmeno se questo sia vino italiano o francese, non c’è etichetta, ma a giudicare dal bouquet e da ciò che sto per scrivere opterei per la seconda ipotesi. Credo che questa boccia abbia a che fare con un’altra storia, una storia che si concluse tristemente in riva ad un fiume non lontano da qui.

    Ed è, questa, una storia che ho volutamente e consciamente rimosso dal mio hard disk, anche se qualche traccia l’ha lasciata. O perlomeno ne ho rimosso l’ultima parte, quella più dolorosa. Forse te ne parlerò, più avanti, non prometto niente, tutto dipenderà dal mio stato d’animo. E, forse, anche dal risultato del mio componimento al pianoforte, pianoforte che per ora attende fiducioso la mia ispirazione.

    Se ti parlo della boccia di rosso, è per avvertirti che se troverai su alcune pagine di questo libro delle macchie di vino, saprai che vengono sì dal bicchiere che sto bevendo in questo momento, ma al tempo stesso vengono anche da molto, molto lontano.

    Ah, un’ultima cosa: con la tastiera del pianoforte ho ormai una certa confidenza, sono anni e anni che suono e che compongo, ma con quella del computer non sono mai riuscito a usare più di due dita, più il pollice per lo spazio. Quindi ti chiedo scusa se scrivo molto, molto lentamente.

    Contiene solfiti.

    Uno.

    Mio nonno materno – Gervasio, si chiamava, sorriso perenne ed energia da vendere – morì di morte violenta e fu ritrovato senza più neanche un centesimo in tasca. Gli avevano frugato perfino nel portafoglio, quei bastardi che l’avevano assassinato. Morì in una tiepida serata di inizio autunno, nel giardino della sua casa dalle imposte del color del mare, dolcemente appoggiata su una collina di una delle varie regioni disegnate in giù a destra sulla cartina della Francia, in una zona abbastanza lontana dalla costa per non soffocare durante le torride estati del midì ma abbastanza vicina per poter godere da là il panorama di un mare azzurro costantemente ricoperto da un cielo altrettanto azzurro. E abbastanza isolata, anche, perché nessuno avesse potuto fornire, durante le indagini che seguirono alla sua morte, testimonianze su quanto fosse successo quella sera.

    I pini marittimi ombreggiavano ampie zone del giardino, gli oleandri definivano il confine della proprietà e profumavano, d’estate. I cespugli di ibisco esplodevano puntuali di giallo, a metà maggio. Avevano assistito al massacro di mio nonno, tutte queste piante, avrebbero potuto raccontarne ogni dettaglio, ma a nessuno venne in mente di interrogarle in proposito.

    Venne ritrovato, mio nonno, stando a quanto mi fu riferito a tempo debito – e cioè quando fui abbastanza grande da non rischiare di compromettere la mia già fragile crescita adolescenziale – un paio di giorni dopo l’accaduto, e se venne ritrovato fu per merito del giardiniere, che era andato a riscuotere la sua paga, puntuale, a fine mese. Il giardiniere –Hubert, si chiamava, chioma bianca su un volto scurito dal sole – corse ad avvisare la Gendarmerie, e i gendarmi corsero dal nonno, o da quel che del nonno rimaneva, guidati dal giardiniere. Venne ritrovato, dicevo, e in quel momento il suo cranio dimostrava con inopinabile evidenza anatomica che il nostro cervello è insindacabilmente diviso in due parti: la parte sinistra e la parte destra. O quella superiore e quella inferiore, come in questo caso, dato che il nonno era riverso su un fianco. In mezzo a quelle due parti, luccicante dove non imbrattata di sangue rappreso, stava ancora conficcata la lama di una scimitarra. Prima di allora, quella scimitarra era per anni rimasta appesa a una parete del vano scala che dava accesso al salotto del piano superiore, dove mio nonno, nascosta dietro a un falso Cezanne, aveva fatto installare una cassaforte a muro, cassaforte che evidentemente non aveva fatto il suo dovere, perché era stata trovata aperta e vuota, aperta e vuota come un forno in attesa di un impasto da trasformare in soufflé.

    A me fu venduta, per parecchio tempo, la versione che il nonno era morto d’infarto. Ci sto tuttora credendo, a dispetto della crudele realtà.

    Inutile aggiungere che il giardiniere Hubert non incassò mai il suo ultimo stipendio, e che non ebbe il coraggio di chiederlo a nessuno della nostra famiglia. Gli fu concesso, dopo la fine delle indagini e l’archiviazione del caso, e col permesso congiunto di noi eredi, di tenere per sé la scimitarra, dopo che i tecnici di laboratorio la ebbero esaminata da cima a fondo, in cerca di impronte digitali e di quant’altro potesse essere utile a incastrare quei due balordi bastardi ladri assassini che vivevano poco distante, che tutti sapevano essere gli autori del delitto, ma la cui colpevolezza nessuno riuscì mai a dimostrare. Balordi sì, ma scaltri. Marito e moglie, tra l’altro. Erano arrivati lì poco tempo prima, lei con gli occhi a mandorla e lui con un sorriso di sfida.

    Il giardiniere Hubert era molto affezionato a mio nonno, e mio nonno ricambiava questo affetto con lunghe partite a piquet con lui, sotto il portico col bel tempo e davanti al caminetto nel resto dell’anno. Sempre con un buon bicchiere di Côtes du Rhône a portata di mano, comunque. Si dispiaceva molto, mio nonno, di non poter scambiare qualche parola con Hubert, Hubert muto dalla nascita, che quando era il suo turno di annunciare il suo svantaggio a piquet si esprimeva a gesti. Ma per il resto, i due si parlavano con gli occhi, al di sopra del profilo delle carte, e questo era sufficiente.

    La scimitarra – si diceva – era un ricordo di viaggio che mio nonno si era portato dall’Asia, nessuno dei miei parenti sa esattamente da dove. E nessuno seppe mai come avesse fatto a portarsela fino in Francia, forse all’epoca i controlli doganali non erano così severi come oggi. È anche vero che quella faccenda del viaggio non è mai stata molto chiara, e tutt’oggi continua a rimanere tale. Alcuni sospettano addirittura che il nonno non lo fece mai, quel viaggio.

    Il perché di quel supposto viaggio in Asia di mio nonno mi fu svelato, assieme al resto della sua storia, da mio zio Antoine il giorno della mia cresima e in quelli successivi, molto prima che mi venisse raccontato come realmente nonno Gervasio morì. Fu proprio allora che cominciai a comprendere molte cose riguardo alla grandezza di quel personaggio, e cominciai anche a capire quanto mio nonno fosse stato importante per lo sviluppo di gran parte dell’economia in vaste aree della Francia, tra le due guerre e anche dopo, per lungo tempo, e perché ancora oggi se ne continui a parlare in famiglia con una vena di orgoglio e di riconoscenza nei suoi confronti.

    Non ricordo molto di quella festa di cresima, non ricordo quasi nulla del pranzo che ne seguì al ristorante, non ricordo i baci dei parenti e degli amici, non ricordo i regali che ricevetti – sicuramente in quantità –, forse una stilografica la conservo ancora, credo che sia finita incrostata di inchiostro in fondo a qualche cassetto, l’orologio no, quello so per certo di averlo perso su una spiaggia durante la festa per il mio diciottesimo compleanno, dopo il terzo o quarto Negroni; non ricordo l’atto stesso della cresima, non ricordo i brindisi gli auguri la musica i balli gli invitati, ma quanto mi fu raccontato da zio Antoine nei giorni successivi mi è rimasto impresso come se me lo avesse raccontato ieri, tanto era affascinante quella storia.

    Nonno Gervasio, mi raccontò zio Antoine – lo chiamavo zio perché lo sentivo affettivamente molto vicino a me ed era simpatico, avrei tanto voluto avere uno zio come lui, ma in realtà non era della famiglia, era soltanto un vicino di casa che conosceva vita morte e miracoli della mia famiglia –, era emigrato in Francia con i suoi, non ancora quattordicenne, cinque o sei anni prima della Grande Guerra. Suo padre – Guglielmo, si chiamava, smilzo e dall’aria triste, stando a quanto si diceva – a suo tempo era stato esonerato dal servizio di leva perché soffriva di non so quale malattia al fegato, sicché, ovviamente, quando gli eventi bellici iniziarono a far tremare l’Europa non ricevette nessuna richiesta da parte del Cadorna affinché tornasse in patria per prestare i suoi servigi al Regio Esercito Italiano.

    Si stabilì quindi, il Guglielmo, assieme alla moglie – Vanda, si chiamava, detta La rossa – e al figlio Gervasio, in un piccolo paese non distante da dove la Loira inizia il suo viaggio. Aveva scelto quel posto dietro suggerimento di amici che già si erano trasferiti là da qualche tempo e vi avevano trovato lavoro. E anche lui lo trovò, il lavoro, come aiuto contabile presso una filanda, e dopo qualche mese anche il figlio Gervasio entrò nella stessa fabbrica, e ci entrò dalla porta più bassa: addetto alla pulizia dei macchinari tra un turno e l’altro, e nel tempo rimanente responsabile della pulizia dei locali di servizio (così venivano chiamati i cessi dal Signor Direttore).

    Imparò il francese a furia di ordini e di rimproveri, il Gervasio.

    Dopo qualche anno, però, gran parte delle maestranze di sesso maschile venne chiamata alle armi, e gran parte delle maestranze di sesso femminile, sensibile alla propaganda governativa, lasciò la fabbrica per poter indossare le candide ed eleganti divise da crocerossina.

    In fretta e furia, allora, il Signor Direttore, assieme ai membri della Proprietà e a quelli del Consiglio di Amministrazione, decise di raccattare quanta più manovalanza possibile in zona, pescando a piene mani tra minorenni e pluriminorenni, pur di poter mantenere il necessario ritmo produttivo dello stabilimento e dar da mangiare ai macchinari. Fu quella l’occasione che permise a mio nonno Gervasio di voltare pagina: in qualità di quasi veterano dell’azienda – Aiguille et du Fil, si chiamava – fu promosso a operaio, e cominciò a prendere confidenza con quelle migliaia e migliaia di fili che prendevano vita sui filatoi e colore nei giganteschi calderoni fumanti.

    Mentre zio Antoine raccontava, mi immaginavo mio nonno che nello stabilimento passava da un filatoio all’altro, che controllava la qualità e la consistenza dei filati, che li smistava a seconda della loro destinazione finale seguendo le indicazioni del capo reparto. E me lo immaginavo con quell’aria entusiasta e con quel sorriso perennemente infantile che avevo visto in una sua foto sbiadita qualche tempo prima, e che ancora oggi posso vedere perché è poggiata su quello che era il suo pianoforte, foto dai toni seppia in cornice d’argento.

    Passò solamente un altro anno, e il capo reparto a cui mio nonno rispondeva se ne andò in pensione. Fu chiamato proprio nonno Gervasio a prendere il suo posto, i superiori l’avevano tenuto d’occhio, avevano intuito le sue capacità, e al tempo stesso lui sapeva come fare per dare del filo da torcere agli altri pretendenti a quella posizione, nulla di più facile per lui, che di quella filanda cominciava a conoscere i segreti. Probabilmente era il capo reparto più giovane di tutta la storia dell’era industriale, ma evidentemente il Gervasio aveva delle buone carte...

    Quella promozione fu soltanto il primo gradino di un’escalation vertiginosa per la sua carriera. Giorno dopo giorno, anno dopo anno, il nonno seppe guadagnarsi la stima dei pezzi grossi dell’azienda. Lavorava sodo e dimostrava di meritarsela, quella stima. Via via gli vennero affidati incarichi di sempre maggiore responsabilità: divenne direttore di stabilimento, poi gli fu assegnata la supervisione di altri due stabilimenti che l’azienda possedeva poco distante, al di là del fiume, e se la storia si fosse svolta ai giorni nostri avrebbe ottenuto l’auto, la carta di credito e il cellulare aziendali. Invece, essendo quelli altri tempi, si dovette limitare a ottenere progressivi aumenti di stipendio. Aumenti sostanziosi, a onor del vero, che gli permisero di mettere da parte un bel gruzzoletto.

    Ma nonno Gervasio, evidentemente, aveva altre mire, la posizione che aveva raggiunto in così breve

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