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Sicilia terra bruciata: Acireale, una nuova indagine per Costante e Serravalle
Sicilia terra bruciata: Acireale, una nuova indagine per Costante e Serravalle
Sicilia terra bruciata: Acireale, una nuova indagine per Costante e Serravalle
E-book307 pagine4 ore

Sicilia terra bruciata: Acireale, una nuova indagine per Costante e Serravalle

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Info su questo ebook

La sonnolente inerzia di Acireale è scossa da intimidazioni di stampo mafioso e da una serie inquietante di delitti. Un’anima nera si aggira tra i vicoli della cittadina barocca. Non era proprio questo lo scenario che il commissario Costante aveva sperato di ritrovare rientrando dalla sua forzata vacanza. Cosa alimenta questa spirale inarrestabile di violenza? E cosa c’entra in tutto questo il professor Serravalle?
Un’indagine che non concede tregua. Perché tutto diventa estremamente complicato quando intorno hai soltanto terra bruciata.
LinguaItaliano
Data di uscita30 set 2016
ISBN9788869431579
Sicilia terra bruciata: Acireale, una nuova indagine per Costante e Serravalle

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    Anteprima del libro

    Sicilia terra bruciata - Vincenzo Maimone

    Prologo

    Il ritmico ticchettio della pioggia sul vetro lo ridestò da un sonno innaturale e scomodo, soprattutto scomodo. Tentò di sollevare la testa, ma una fitta improvvisa e lancinante alla base del collo, acuta come una lama affilata, lo paralizzò, procurandogli un vorticoso capogiro. Abbassò nuovamente il capo nel tentativo di porre fine a quel malessere, ma senza ottenere alcun significativo miglioramento. Tutto, intorno a lui, continuava a roteare, disorientandolo e causandogli un senso di nausea che non era in grado di controllare. La testa gli doleva e il dolore era continuo e pulsante.

    A stento riuscì a trattenere un primo conato di vomito. Riprovò, ma stavolta con maggiore prudenza, a sollevare il capo, al solo scopo di determinare con una certa approssimazione lo spazio intorno a lui. La sua vista era annebbiata e la semioscurità che lo circondava non lo aiutava di certo a recuperare pienamente il controllo di sé. Ogni cosa, in quella stanza sembrava essere avvolta da una sorta di alone biancastro che gli impediva di mettere correttamente a fuoco oggetti, pareti, distanze. Anche i suoni sembravano essere ovattati.

    Un’altra fitta lo spinse a desistere da quel suo velleitario proposito.

    Un altro conato risalì all’improvviso dal suo stomaco. Questa volta non riuscì a trattenerlo e, in verità, sentiva di non poter fare nulla per resistergli. Istintivamente tentò di sporgersi in avanti, per evitare, almeno, di vomitarsi addosso. In un istante, si rese conto che la sua situazione era ben peggiore di quella che aveva, fino a quel momento, potuto costatare. Solo adesso si era accorto di essere completamente immobilizzato. Le sue braccia erano legate alla spalliera della sedia, ed anche le caviglie erano state bloccate. Nessun movimento gli era possibile.

    Una schiuma verdastra, densa e acida, fuoriuscì di getto dalla sua bocca, schizzandogli i pantaloni e le scarpe e lasciandogli in bocca un sapore acre e un forte bruciore che ardeva tutto l’esofago. Sputò ripetutamente, per liberarsi di un lungo e appiccicoso filamento di saliva che oscillava e che, a dispetto dei suoi inefficaci tentativi di reciderlo, finì impietosamente con inzaccherargli la camicia. Si concesse qualche istante di tregua.

    Il capogiro era cessato, come pure il dolore alla base del collo. Ruotò la testa a destra e a sinistra cercando di recuperare completamente i movimenti, quei pochi che era in grado di compiere. Anche la vista sembrava migliorare. I suoi occhi si erano ormai abituati alla penombra e il velo biancastro che contornava lo spazio intorno a lui si era quasi completamente dissolto. Alzò lo sguardo verso la piccola finestrella dalla quale penetrava un pallido raggio di luce grigiastra e che rappresentava l’unica fonte di illuminazione in quell’ambiente che, adesso, era in grado di osservare con maggiore attenzione.

    Cominciò a urlare, ma la sua voce sembrava rimbalzare su pareti di gomma. Si agitava forsennatamente sulla sedia, ma ad ogni sobbalzo i legamenti ai polsi e alle caviglie laceravano la sua pelle.

    «AIUTO! AIUTO!», provò a gridare ancora una volta prima di desistere cedendo allo sconforto.

    Come cazzo sei finito qui, Serravalle? E, soprattutto, dove cazzo sei?, si trovò a domandarsi, all’unisono con il suo demone socratico.

    I suoi pensieri erano ancora confusi.

    Sul vetro della finestra, intanto, le gocce di pioggia si inseguivano, disegnando imprevedibili traiettorie, prima di dilatarsi lungo i bordi.

    Capitolo primo

    Come ogni mattina Orlando Roncisvalle aveva deciso di fottersene dell’età e dei consigli prudenziali del suo medico curante. Aveva indossato la sua tuta in acetato verde e nera e le scarpe da jogging e dopo una breve fase di preriscaldamento e qualche esercizio di stretching aveva cominciato la sua consueta corsetta mattutina. Erano ormai tre anni che, con puntualità svizzera, Orlando Roncisvalle si concedeva un’ora di allenamento, qualunque fosse la temperatura esterna, con la pioggia o con il sole. Dalle 6.30 alle 7.30 zompettava sulle sue ossute gambe lungo il tracciato che aveva eletto quale pista da corsa. Un anello abbastanza ampio delimitato dalla via Giovanni Verga, da un piccolo tratto del corso Italia, una delle principali arterie della città, e dalla via Felice Paradiso, la cui pendenza creava non poche difficoltà all’anziano sportivo.

    Il fisico segaligno dell’uomo sembrava, tuttavia, rispondere bene alle sollecitazioni alle quali era sottoposto e a dimostrazione di ciò il Roncisvalle era solito ostentare ad amici e parenti i suoi periodici esami clinici che mostravano un perfetto equilibrio dei valori fondamentali.

    La strada era ancora deserta. Solo ogni tanto qualche furgoncino sfrecciava senza far troppo caso alla segnaletica o al semaforo che regolava l’incrocio tra via Giovanni Verga e il corso Italia. Roncisvalle, infastidito da quelle indisciplinate incursioni, rivolgeva loro uno sguardo che racchiudeva in sé un severo rimprovero e una rassegnata commiserazione. Padroneggiava perfettamente quell’espressione. Aveva acquisito una certa esperienza nell’arco della sua trentennale attività lavorativa in qualità di preside, prima dell’istituto tecnico industriale e poi, sino al giorno del pensionamento, del liceo scientifico. Il paladino lo chiamavano gli impiegati e i docenti dell’istituto, prendendo spunto, senza fare uno sforzo eccessivo di fantasia, dal suo nome e dal cognome che, in una mirabile sintesi, rimandavano alle gesta del prode guerriero carolingio, e che, nel caso del preside Roncisvalle, sottolineavano la rigorosità deontologica che caratterizzava la sua strategia gestionale.

    Il paladino di questa minchia era solito puntualizzare qualche anonimo e spregiudicato delatore, mettendo in dubbio l’assoluta trasparenza della sua condotta. Nonostante tutto, qualcuno era arrivato persino a rimpiangerlo dopo il suo congedo e dopo aver vagliato la natura e lo spessore delle figure dirigenziali che lo avevano rimpiazzato. Il nuovo che avanza si era presentato con la tipica arroganza e la supponenza che consegue dalla mediocrità quando essa viene investita di una qualche autorità.

    La città era ancora assopita e questa era un’altra delle cose che Roncisvalle apprezzava particolarmente. Quel silenzio, quella innaturale tranquillità lo aiutavano a fare ordine nei suoi pensieri, ad organizzare, mentalmente, il resto della giornata. I passi ritmati e il respiro più o meno regolare, definivano i punti salienti dell’agenda giornaliera. La lista della spesa, cosa avrebbe mangiato, come e dove avrebbe trascorso il pomeriggio. Da quando era andato in pensione, si era ripromesso di non cadere nel vortice dell’inattività che avrebbe finito con il dilatare il tempo, rendendo interminabili le sue ore e trascinandolo nel gorgo della noia e della ripetitività.

    Il cielo era leggermente coperto e l’aria frizzante a dispetto della consuetudine che dava per iniziata la primavera già da qualche giorno. Roncisvalle non sembrava badare particolarmente a questo aspetto, quanto piuttosto lo infastidiva e rattristava allo stesso tempo il paesaggio desolato di corso Italia. I marciapiedi sconnessi in prossimità di quelle che erano state fino a qualche mese prima delle aiuole rappresentavano, senza concedere alcuna assoluzione, un paesaggio degradato e privo di cura. Il lungo viale alberato popolato di ficus era stato distrutto ancorché dalla tromba d’aria che si era abbattuta sulla città all’inizio dell’inverno, dalle susseguenti decisioni dell’amministrazione e dalla mano lesta e furtiva di alcuni privati che, in nome dell’emergenza e della paura di un ulteriore ciclone, avevano pensato bene di abbattere tutte le piante, anche quelle che avevano resistito all’impatto e allo scontro con madre Natura. Al centro di quei rettangoli di terra, in alcuni casi, erano ancora presenti pezzi di tronco sradicati e abbandonati. Roncisvalle scosse la testa, biascicò qualche improperio rivolto all’amministrazione e alla ineducazione cittadina, quindi iniziò a programmare i suoi appuntamenti giornalieri. Nello spiazzale dell’area COM un cane inseguiva allegramente un frisbee rosso lanciatogli, non sempre con stile impeccabile, dal padrone.

    Dopo la consueta doccia, il caffè e la sua sigaretta mattutina, fumata con malcelato orgoglio, Roncisvalle si sarebbe concesso una passeggiata in centro, avrebbe acquistato il pane: rigorosamente nel panificio in prossimità di piazza Duomo. Una ciambella di pane di semola, non troppo cotto e con una spolverata di semi di sesamo che aggiungevano una sfumatura di sapore che non dispiaceva al palato. La piccola bottega rappresentava una meta obbligata per il preside Roncisvalle. Di quel luogo amava la semplicità delle scaffalature in legno, il penetrante odore di affumicato e di pane appena sfornato che era possibile cogliere già sulla soglia e che, soprattutto nelle mattinate fredde, era di conforto. Un’altra cosa che attirava da sempre la curiosità del paladino Orlando era la tradizionale abitudine del panettiere di spazzolare via i residui di cenere e di farina dalle forme di pane: un gesto automatico da artista, un’ultima rifinitura prima di consegnare l’opera al committente.

    Probabilmente avrebbe fatto una capatina anche ‘nta chiazza, curiosando tra i banconi della pescheria cercando di farsi solleticare il palato per il pranzo.

    Nel pomeriggio si sarebbe recato al circolo universitario, il luogo di ritrovo di molti suoi amici. Una volta lì si sarebbe fatto coinvolgere, nelle snervanti partite a briscola in quattro, dal dottor Scopelliti, dal ragioniere Randazzo e dal professor Cambria. Scopelliti e Cambria facevano coppia fissa al tavolo da gioco e dunque a lui sarebbe toccato, come al solito, il ragionier Randazzo, con il quale era praticamente impossibile riuscire a vincere anche solo metà partita. Il ragioniere, infatti, oltre ad essere fisiologicamente negato per il gioco della briscola, era privo di memoria e commetteva errori sulle regole di base. Inoltre, ed era questo un particolare per nulla secondario, era affetto da una tale varietà di tic facciali e di movimenti incontrollati che vanificavano ogni possibilità di ricorrere ai tradizionali segnali con cui i compagni di gioco sono soliti concertare la loro strategia di attacco o di difesa del punteggio. Il debito di gioco contratto con l’inossidabile coppia Scopelliti-Cambria era arrivato alla ragguardevole cifra di 30 euro. Roncisvalle avrebbe volentieri addebitato l’intera cifra al ragionier Randazzo, ma, in fondo, considerava quel costo perfettamente adeguato alla spensieratezza e all’allegria che le ore passate a insultarsi e a sorseggiare qualche bicchiere di vino rosso gli garantivano.

    Roncisvalle accelerò un po’ la sua andatura, senza forzare eccessivamente, ma preparandosi ad affrontare la ripida salita di via Felice Paradiso.

    Il paladino di Aci considerò la possibilità di un programma alternativo, più interessante, forse, ma certamente più piccante.

    Era da un po’ di tempo che rifletteva su questa recondita possibilità. Esattamente da quando, tra un tic e una chiamata di carico a cazzo, tra una presa con il cavallo e una presa per il culo da parte del duo Scopelliti-Cambria, il ragioniere Randazzo gli aveva parlato della vedova Pulvirenti. Dopo quell’accenno, la partita aveva perso di interesse nella mente del preside e i due compagni di gioco avevano raggiunto un’intesa perfetta nel tirare carte a casaccio e nel consegnare carovane di punti e carichi fuori via ai loro avversari. Randazzo non aveva trascurato alcun particolare nel descrivere le doti amatorie della vedova e, alla fine del racconto, aveva consigliato al preside di non lasciarsi scappare questa occasione.

    «Ogni lassata è pessa! Ricodittilo, Orlando!», aveva concluso il ragioniere.

    Il monito non aveva lasciato indifferente il paladino e il racconto aveva stimolato la sua curiosità, e non soltanto quella.

    D’altra parte la sua Durlindana era ancora affilata e avrebbe saputo farsi onore in qualche altra tenzone amorosa.

    Il cuore di Roncisvalle batteva forsennatamente, eccitato dai pensieri sconci che l’immagine della vedova avevano scatenato nella mente e dalla pendenza della salita che rendevano l’andatura e la respirazione più difficoltosa.

    Roncisvalle cercò di riequilibrare il suo battito ricorrendo ad una rigida censura e rimandando al dopo doccia la programmazione pomeridiana. Era quasi giunto alla sommità della salita. La strada si allargava in prossimità dell’incrocio, divisa al centro da un’aiuola oblunga nella quale dominavano arbusti incolti e sterpaglia. Roncisvalle arrancò e senza prestare attenzione, inseguendo mentalmente la vedova Pulvirenti sotto la doccia, decise di attraversare tagliando diagonalmente la strada.

    Il furgone sfrecciava lungo il breve rettilineo. Il pedale del freno era l’ultima delle preoccupazioni del conducente, impegnato a controllare la bolla di accompagnamento della prima consegna giornaliera. Ogni tanto, per pura consuetudine, alzava lo sguardo per verificare la direzione del veicolo. La scrittura minuta e fitta della fattura rendevano difficoltosa la messa a fuoco durante questa rapida operazione di ricalibratura della traiettoria. Il conducente sollevò la testa ancora una volta e una chiazza verde e nera oscurò parte del parabrezza alla sua destra.

    «Oh, cazzo!», esclamò dando istintivamente una rapida sterzata verso sinistra nel tentativo di evitare l’impatto con qualunque cosa fosse quella che gli si era parata davanti. Era quasi certo di aver scongiurato lo scontro, quando un rumore sordo lo costrinse a voltarsi verso il finestrino alla sua destra.

    Qualcosa era rimasto impigliato allo specchietto retrovisore, o meglio a ciò che di esso restava, dal momento che lo specchietto era stato divelto, già da qualche tempo, durante un’altra azzardata manovra. Gli occhi del conducente incrociarono quelli di Roncisvalle solo per alcuni decimi di secondo. In entrambi era presente la medesima espressione di sgomento e paura. Il conducente sterzò violentemente ancora una volta. La tuta in acetato cedette a quella rapida sollecitazione e il corpo di Roncisvalle rotolò sull’asfalto fino ad interrompere la sua corsa sullo spigolo del marciapiede dell’aiuola spartitraffico. Un rivolo di sangue scendeva dalla testa del paladino. Il senno di Orlando era sparso sul selciato. L’ultima immagine che Roncisvalle vide era confusa e oscurata dal fumo nero e denso del furgone che si allontanava a tutta velocità. Un’immagine irreale, un ricordo irrilevante, marginale: un due di coppe giocato dal ragionier Randazzo sulla sua presa di carico.

    Che giocatore di merda!, fu l’ultimo suo pensiero.

    Capitolo secondo

    Il commissario Costante si fermò davanti al portone del commissariato. Le gambe gli tremavano. Deglutì e sentì che la cicatrice alla gola tirava la pelle del collo. Era un fastidio a cui non riusciva ad abituarsi. Si passò una mano lungo tutta la linea della ferita. Il colletto della camicia era aperto e la traccia più o meno regolare della sutura era in bella mostra. Aveva smesso di indossare cravatte a causa del fastidio che lo sfregamento del colletto con la cicatrice gli provocava. Un fastidio che lo costringeva, peraltro, a ripensare alla dinamica del suo ferimento. All’istante in cui aveva percepito che la vita lo stava abbandonando. Quel ricordo lo rabbuiava e gli impediva di pensare.

    La convalescenza era stata lunga. La forte emorragia lo aveva indebolito, fiaccandolo nel corpo e nella mente. Per tutto il tempo Carla era stata accanto a lui, ne percepiva la presenza anche quando il suo corpo non era cosciente e l’unica cosa che attestava la sua esistenza era il regolare sibilo dei macchinari che ne monitoravano le condizioni cliniche. Ed era stata lei a spingerlo, direttamente e indirettamente, a non mollare.

    Ora era lì, davanti al commissariato, di nuovo.

    Coraggio, Giacomo!, disse tra sé e sé, facendosi forza.

    Salì le scale con un’andatura nella quale si alternavano emozioni contrastanti: paura, curiosità, entusiasmo, disaffezione. Un miscuglio indistinto che Costante cercava di controllare e dal quale non intendeva lasciarsi sopraffare.

    Carla gli aveva suggerito di ritardare di qualche settimana il suo rientro in ufficio. Costante aveva preso in considerazione la proposta, ma alla fine aveva preferito riprendere o quanto meno provare a recuperare qualcosa di simile ad una vita normale. La verità era che quell’esperienza lo aveva costretto a fare i conti con se stesso. A stabilire in qualche misura un elenco, anche solo approssimativo, di priorità. Ma soprattutto lo aveva posto di fronte alle sue paure e alla sua fragilità. E a questo il commissario non riusciva a rassegnarsi. Rientrare a lavoro lo avrebbe di certo aiutato a irrobustire nuovamente quel guscio che, fino al momento in cui la sua vita era stata squarciata dalla lama affilata dell’aguzzino, lo aveva protetto, ma, forse, lo aveva portato a sopravvalutare la sua capacità di resistenza. Ed era questo che Costante voleva riuscire a capire.

    Quanto sei forte realmente?. Era stato questo l’interrogativo che lo aveva accompagnato per tutto il tempo in cui era stato costretto a letto, a casa, ad un riposo forzato che non riusciva ad accettare. Adesso che era di nuovo in piedi e che il fisico sembrava rispondere alle sue sollecitazioni, non intendeva rimanere con le mani in mano per un solo giorno in più.

    «Fai come credi», era stata la non troppo convinta risposta di Carla.

    Anche per lei erano stati mesi difficili. Sentiva di aver dato fondo a tutte le sue energie. L’amore per quell’uomo l’aveva sostenuta, permettendole di rincuorarlo nei momenti più cupi, ma allo stesso tempo l’aveva svuotata. Il freddo sibilo della sala di rianimazione risuonava ancora nelle sue orecchie e turbava i suoi sogni, facendola svegliare in preda ad un senso di angoscia che si attenuava solo alle prime luci dell’alba.

    Cosa avrebbe fatto se…?, la domanda rimaneva sospesa. Carla era pienamente consapevole di non poter dare una risposta a quell’interrogativo. E la cosa la turbava. Lei, abituata a decidere per sé e per gli altri, a dirigere e programmare, si rendeva conto che non avrebbe potuto determinare il suo futuro, non avrebbe saputo immaginare la sua vita senza Giacomo al suo fianco.

    Timidamente, e senza lasciarsi andare a facili entusiasmi, avevano ricominciato a progettare una vacanza. Per scaramanzia, o soltanto per paura di rimanere ancora una volta delusi, non avevano fissato una data precisa. Un poco alla volta si sarebbero riappropriati della loro vita. Per il momento, seppure a malincuore, Carla aveva accettato la decisione di Giacomo di riprendere il suo incarico.

    L’agente Lombardo rivolse uno sguardo allibito non appena il commissario varcò la soglia dell’ufficio.

    «Che cosa c’è, Lombardo? Sembra quasi che tu abbia visto un fantasma», disse Costante caricando con una certa dose di sarcasmo le sue parole.

    Lombardo abbassò lo sguardo balbettando qualcosa al colmo dell’imbarazzo.

    «No, no, commissario, è solo che non ci aspettavamo di vederla ritornare…».

    «Così presto?», concluse il commissario, rincarando la dose.

    «…oggi», chiarì Lombardo cercando di recuperare terreno.

    «Bentornato, commissario!», disse l’agente, dando libero sfogo ad un sincero entusiasmo.

    «Grazie, Lombardo. E scusa per prima. Volevo soltanto prenderti un po’ in giro. Anch’io sono sorpreso quanto te di essere qui, oggi», precisò il commissario.

    L’agente La Rosa fece capolino dal suo ufficio. Un sorriso si aprì sul suo volto.

    «Commissario. Bentornato!», disse andandogli incontro e picchiettando sugli stipiti delle porte degli altri uffici per attirare l’attenzione dei colleghi.

    In un attimo, il corridoio del commissariato assomigliava ad un autobus nell’ora di punta. Gli agenti salutarono il commissario, scambiandosi occhiate amichevoli. La cosa rincuorò Costante. Quell’accoglienza era un balsamo per il suo spirito fiaccato dalla lunga degenza.

    «Grazie a tutti! Ma adesso tornate pure a lavoro», disse il commissario.

    «Allora! Non avete sentito cosa vi ha detto il commissario?», intervenne La Rosa. «Forza! Tutti a lavoro!».

    «Venga commissario, l’accompagno nel suo ufficio. Lo troverà esattamente come lo ha lasciato». La frase venne fuori smozzicata. Il tono della voce di La Rosa era andato calando sul finale, frenato dal timore di aver commesso una gaffe. Lo sguardo di Costante, infatti, si era leggermente incupito.

    «Grazie, La Rosa, ma conosco la strada», rispose freddamente Costante.

    «Lo so, commissario. Mi scusi. Intendevo solo…», cercò di giustificarsi l’agente.

    «Non è nulla! Oggi è una giornata un po’ strana. Il mio umore non è propriamente stabile», replicò il commissario tendendo la mano verso la maniglia e aprendo la porta. L’odore di chiuso invase le sue narici. Sulla scrivania, in effetti, tutto era rimasto esattamente come lo aveva lasciato. Costante si affrettò a modificare quell’immagine, che rischiava di intrappolarlo nel tempo. In un tempo che voleva cancellare definitivamente dalla sua memoria.

    «La lascio solo», disse La Rosa congedandosi.

    «No, no, resta pure», riprese il commissario.

    «Che novità ci sono? Ho notato un po’ di trambusto», aggiunse.

    La Rosa si avvicinò alla scrivania.

    «Questa notte hanno fatto esplodere una bomba carta sotto casa del sindaco»

    «Si è fatto male qualcuno?», chiese Costante.

    «Ha danneggiato la macchina della moglie», disse La Rosa.

    «Questo è il secondo avvertimento nel giro di un paio di settimane», precisò l’agente.

    Il commissario alzò gli occhi al cielo e sbuffò. Nella sua testa, risuonava la laconica risposta di Carla alla sua decisione di rientrare in servizio.

    «Tutto qui?», domandò ancora.

    «No! Hanno fatto trovare una testa di capretto con una pallottola piantata in fronte attaccata al cancello del deputato regionale Mastroeni».

    «Minchia! Una testa di capretto? Di questi tempi?», commentò Costante.

    «In effetti, la testa di capretto non si usa dagli anni ottanta», aggiunse La Rosa.

    «E si vede che qui ad Acireale abbiamo mafiosi vintage», commentò il commissario, cercando di compensare il fastidio e l’indignazione con una nota sarcastica.

    «Tutto ciò è assurdo», commentò a mezza voce. Quello che mandava su tutte le furie il commissario era vedere appassire la città, deperire irrimediabilmente, a causa di una perniciosa indolenza e di una diffusa disaffezione nei

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