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Mio nonno era fascista
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E-book188 pagine8 ore

Mio nonno era fascista

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Info su questo ebook

Il romanzo narra le vicende reali di Giorgio e di Giuliana, destinati a innamorarsi e a sposarsi.
Nel ventennio fascista però sono due ragazzini che crescono in ambienti familiari completamente diversi, senza sapere nulla l’uno dell’altra.
Giorgio, mamma casalinga, padre funzionario di banca membro di spicco del PNF, nonna che sa raccontare in modo meraviglioso le favole, sorella minore a tratti fastidiosa.
Giuliana, estrazione alto-borghese, padre ebreo che per amore ha rinnegato la sua religione.
Attraverso i loro occhi e le loro esperienze si dipanano gli eventi che segnarono l’Italia tra il 1934 e il 1952.
Stefano Welisch intreccia le vicende drammatiche e sorprendenti dei suoi protagonisti a quelle, non meno travagliate, di un periodo della nostra storia in cui luci e ombre si sono fuse in continuum spesso inestricabile.
LinguaItaliano
Data di uscita15 nov 2018
ISBN9788832923087
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    Anteprima del libro

    Mio nonno era fascista - Stefano Welish

    Giuliana

    Premessa

    Quando mio figlio ventenne mi ha chiesto di scrivere di com’era il mondo ai miei tempi, dicendomi che, da quel poco che gli avevo raccontato, gli sembrava così diverso da quello attuale, da essere di potenziale interesse anche per tutti i suoi coetanei, ho sorriso dentro di me.

    Per prima cosa, perché i ragazzi di oggi, con le dovute eccezioni, non leggono, o meglio non sono abituati a leggere, se non messaggi istantanei e post. E poi, il passato non credo sia loro di grande interesse, nel senso che è da loro di solito considerato alla stregua di un’immagine Snapchat, che svanisce dopo un poco, senza lasciare traccia.

    Così, un libro dedicato al mondo dagli anni Sessanta ai Novanta, come visto da me, credo potrebbe avere per loro un appeal pari a un saggio sulle dinastie sumeriche.

    Certo, le persone della mia generazione potrebbero in qualche maniera riconoscervisi, ma quale interesse potrebbero avere in una reminiscenza dal sapore di una scipita minestra riscaldata?

    Però non sono riuscito ad allontanare dalla mia mente l’idea di dar vita a qualche immagine del passato.

    Così ho deciso di provarci, partendo però da molto più lontano, dal mondo un po’ misterioso che ho potuto conoscere tramite i racconti dei miei genitori, con particolare attenzione a come hanno vissuto la tragica esperienza della guerra.

    Non ho mai conosciuto mio nonno paterno, scomparso durante le vendette dell’immediato dopoguerra, avendo avuto la sfortuna di fare una discreta carriera durante il regime fascista.

    Ne ho visto le fotografie nell’album di famiglia, un bel signore alto, dai capelli neri, con una pronunciata fossetta sul mento, il cosiddetto mento dell’eroe. Mio papà, che è stato comunque abbastanza avaro nei dettagli, me ne ha trasmesso, comprensibilmente, un’immagine idealizzata. Cercherò più avanti di darne una raffigurazione la più realistica possibile.

    Ho conosciuto invece mio nonno materno, discendente di un’importante famiglia ebrea, da cui è stato ripudiato per avere voluto sposare mia nonna (ed essersi pertanto convertito al cattolicesimo). L’amore…

    Non mi è facile conciliare il ricordo dell’anziano e rotondetto signore dagli occhiali spessi e duro d’orecchio, con le fotografie del giovane à la D’Annunzio alla guida di auto nuove fiammanti durante il primo dopoguerra.

    Nonostante le sue origini, il nonno ha trovato il modo per attraversare il ventennio fascista senza subirne conseguenze. La mia mamma è stata perfino più parca di papà, riguardo alle notizie sul suo genitore; chi più avanti vorrà essere con me, ne capirà il motivo.

    E ora cominciamo…

    1

    Giorgio

    Avevo appena finito di lavarmi nell’acquaio della cucina, quando dalle finestre aperte si udì squillante il suono della trombetta dello spazzino. La mamma, intenta a insaponare la mia sorellina, che stava strillando che le era entrato il sapone negli occhi, mi disse: Vai tu Giorgio a portare giù la spazzatura.

    Con lo sguardo controllò che io non facessi smorfie, poi tornò a occuparsi della figlioletta, che nel frattempo stava cercando di arrampicarsi fuori dalla tinozza. Avevo a mie spese ben imparato che non mi conveniva far trasparire quanto io odiassi quell’incombenza, non certo dignitosa per un ragazzino di sei anni come me, in procinto di diventare figlio della lupa e che dopo pochi mesi sarebbe andato a scuola.

    Cominciai quindi a sbuffare solo quando fui fuori dalla porta, portando giù per le scale il cestino con le poche immondizie che casa nostra aveva generato.

    Per strada, lo spazzino, fiero nella sua divisa, svuotava nel carretto quanto le massaie gli stavano via via portando. Quando fu il mio turno, mi riconobbe e mi salutò per nome: Ciao Giorgio, è questo il tuo nuovo compito? A lui sì che feci una smorfia, ribattendo: È cosa da donne, lo so, ma la mamma era occupata…

    L’altro sorrise e mi disse: Forse ti conviene rimanere giù, figliolo, ho sentito qua vicino suonare la trombetta del carretto del ghiaccio…

    L’uomo non era molto sveglio, cosa avrei fatto, messo il ghiaccio nel contenitore per le immondizie? Comunque lo ringraziai per il suggerimento e corsi su per le scale per riportare il cestino in cucina.

    Mamma, mamma, sta per arrivare il ghiacciarolo! gridai quasi senza fiato. Lei mi guardò sorpresa, mentre finiva di vestire mia sorella. E tu come lo sai? mi domandò. In quel momento si udì in lontananza la trombetta annunciare l’arrivo del carretto.

    Lei sollevò appena le sopracciglia, poi, controllata la ghiacciaia, tirò fuori il borsellino e dopo avere estratto un paio di centesimi, me li porse dicendo: Si vede che oggi è il tuo giorno per fare le commissioni… E poiché prima sei stato bravo, aggiunse con un sorriso, prendi anche il tuo bicchiere e fatti fare una granita.

    Io, dopo essermi messi i soldini in tasca e un grazie, mamma! aprii l’ultimo cassetto della credenza e presi lo straccio di juta che mi sarebbe servito per tenere in mano i pezzi di ghiaccio, poi corsi nuovamente fuori di casa, inseguito sia dalle sue parole: Bada a non far cadere niente! sia dalla sorellina, che voleva a tutti i costi scendere con me, ma che fu presa per la collottola proprio sull’uscio.

    Quella mattina di luglio era già molto calda ed ero felice di potermi far fare la granita, sempre che il carretto fosse dotato della grattarola (non tutti ce l’avevano).

    Mi misi diligentemente in coda e quando fu il mio turno, fui estasiato nel vedere quel magico strumento. Mentre l’uomo grattava un po’ di ghiaccio e me lo metteva nel bicchiere, mi resi conto che non mi sarebbe stato facile risalire i tre piani di scale con il sacco pieno e il bicchiere in mano.

    Fortunatamente la signora Anita, un donnone che abitava dirimpetto a noi, dopo avermi carezzato il capo (anche questo lo odiavo, ma sembra che gli adulti ci provino gusto) si offrì di aiutarmi a portare il fagotto di sopra, cosa che accettai con sollievo.

    Dopo la colazione non sapevo che fare, con la sorellina che continuava a importunarmi per giocare (con lei, una bambinetta di tre anni?) e così chiesi alla mia mamma se potevo andare dalla nonna.

    Lei, che stava rassettando la casa, i lunghi capelli neri legati dietro con una fettuccia, sospirò: Certo, tesoro, ma bada di tornare in tempo per pranzo. Lo sai che tuo padre non tollera ritardi…

    Accidenti se lo sapevo bene! Il mio posteriore sentiva ancora gli sculaccioni ricevuti quando, avendo perso il conto del tempo, ero rimasto a giocare fuori di casa ben oltre il tempo stabilito e mio papà, che mi era venuto a cercare, preoccupatissimo, per dimostrare il suo sollievo per avermi ritrovato sano e salvo, mi aveva ricondotto a casa quasi non facendomi toccare terra…

    Mi resi conto che non ne sarebbe valsa la pena, era meglio aspettare il pomeriggio, quando anche la nonna sarebbe stata più libera e mi avrebbe letto il Corrierino dei Piccoli, che mi piaceva tanto (avevo già un pochino imparato a leggere, ma la voce della nonna era così dolce…). Sarebbe stato bello se avesse potuto portarmi al cinema, ma non ero sicuro se nella stagione calda ci fossero sempre gli spettacoli.

    In mancanza di meglio da fare, mi misi alla finestra, a guardare i movimenti giù nella strada, sperando di vedere qualcuno dei miei amichetti, con i quali sarei potuto andare a giocare.

    Non c’era molto che suscitasse il mio interesse, salvo il solito passaggio dei carretti dei venditori ambulanti, che si annunciavano con le grida della loro mercanzia, cui facevano eco i richiami di rimando di chi, affacciandosi alle finestre, dichiarava il proprio interesse. Per altro, sembrava un giorno un po’ più frequentato del solito, e le grida si susseguivano: È arrivato l’arrotino! o Stracciarolo! o Pesci, donne!, quest’ultimo, ovviamente, da parte dei pescivendoli che arrivavano con le larghe ceste contenenti il pescato fresco. E giù scendevano le massaie, che coglievano l’occasione per chiacchierare fra loro e scambiarsi i pettegolezzi della giornata.

    L’ambulante che suscitava di più il mio interesse – e che però non avevo fin lì visto passare – era quello della fruttivendola, la Besagnina, che aveva la sfortuna di essere cieca da un occhio e che per questo era da tutti chiamata la guercia. Quando lei arrivava, il suo grido di battaglia era: Le pere più belle sono quelle della guercia! che in dialetto genovese faceva, più o meno: I ciù belli pei sun quei da guerça!

    All’inizio non capivo perché la mia mamma arrossiva quando udiva queste parole, né perché i ragazzi più grandi di me sogghignavano. Poi mi sono fatto spiegare e ho cominciato a ridere anch’io. Perché pei vuol dire non solo pere, ma anche peli e guerça, vuol dire anche… la cosa che le donne hanno fra le gambe. Così l’espressione della Besagnina poteva anche essere intesa come I peli più belli sono quelli della f…

    Mi stavo comunque annoiando, quando ho finalmente visto uscire dal portone di fronte un paio dei miei coetanei, con cui ero uso giocare. Mamma, posso scendere giù? Lei venne alla finestra a controllare e mi diede una carezza di assenso, così corsi da basso con sollievo, perseguitato come sempre dal piagnisteo di mia sorella, che avrebbe voluto seguirmi.

    Al momento eravamo solo in tre, ma sapevo che presto si sarebbero aggiunti altri, con cui avremmo potuto giocare ai quattro cantoni o a guardie e ladri (io ovviamente preferivo essere una guardia, ma poiché nessuno voleva fare il ladro, alla fine tiravamo a sorte).

    Eravamo in pochi per fare qualcosa d’interessante, così ci siamo decisi a giocare a pampano, che Pietro si ostinava a chiamare campana, forse perché la sua famiglia era originaria di non so dove.

    Poiché nessuno di noi aveva un gessetto, ci siamo messi a cercare una pietra appuntita, con cui tracciare per terra il diagramma su cui saremmo poi saltati. Non ci volle molto perché fossimo attorniati da una piccola folla di ragazzini, tutti che volevano partecipare, cosa che avrebbe però fatto diventare il passatempo una noia mortale. Era più semplice lasciare il gioco ai nuovi arrivati e così Pietro, Gianni e io, assieme a due ragazzine di cui non ricordo il nome – e che abbiamo accettato con noi solo perché non c’erano altri volontari – ci dirigemmo verso il campo dietro la strada, dove un paio di alberelli e due cumuli di pietre assemblati apposta, delineavano il campo da gioco per i quattro cantoni.

    Era tutto molto divertente, come il solito, se non fosse stato che a un certo punto la bambina più piccola, che alla fine rimaneva sempre in mezzo, non si fosse messa a piangere. Va beh, tanto per dimostrare che con le femmine non si può giocare, piangono sempre.

    Tornati indietro, dando calci ai sassi, ci siamo chiesti cosa avremmo potuto fare. Pietro allora ci volle far vedere la spada di legno che gli aveva fatto il padre, che lavorava in una bottega di falegnameria.

    Sapendo che gliel’avremmo invidiata, provammo a dirgli che potevamo giocare con le biglie, ma lui era già corso verso casa, incurante delle nostre parole. Gianni e io ci guardammo negli occhi, combattuti tra il desiderio di vedere quella meraviglia e la certezza di rimanere umiliati (chi mai aveva potuto avere una spada?).

    Pietro ritornò poco dopo, in mano un lungo fagotto e, con aria d’importanza, si diresse di nuovo verso il campo, dove noi lo seguimmo. Poi, dopo essersi guardato attorno, come ad assicurarsi che non ci fossero occhi indiscreti, si accoccolò all’ombra di uno degli alberelli e noi lo imitammo.

    Dopo aver posato l’oggetto sulle gambe incrociate, svolse lentamente la tela che lo proteggeva, assaporando la suspense, davanti ai nostri sguardi. Quando infine comparve alla luce, rimasi a bocca aperta.

    Era bellissima. La lama di legno, larga non più di un palmo, era lavorata alla perfezione, con i bordi così sottili da essere taglienti. L’impugnatura, protetta da un’elsa intarsiata con il bulino, era sagomata sull’impronta della mano di un bambino. Era una vera opera d’arte, ma… nessuno ci avrebbe mai potuto giocare. Infatti, Pietro, dopo averci consentito di tenerla in mano per qualche secondo, si affrettò a riavvolgerla nella tela, dicendoci che l’avrebbe potuta tirar fuori solo per occasioni speciali (e chissà poi quali). Gianni e io facemmo entrambi spallucce: molto meglio allora le nostre spade di legno, fatte con gli assi delle cassette della frutta, lisciate con la pialla per non prenderci le schegge nelle mani (cosa che poi succedeva lo stesso) e che potevamo brandire senza tema di rovinarle!

    E adesso che si fa? Beh, a giudicare dall’altezza del sole nel cielo, era quasi ora di pranzo e ci muovemmo pian piano tutti verso casa. In quel momento si sentì in lontananza una melodia. Ah, che meraviglia, stava arrivando il carretto con la pianola meccanica! Quanto tempo che non passava dalle nostre parti!

    Avevo sentito dire che alcuni avevano anche una scimmietta, addestrata a raccogliere per terra le monetine, ma io credo che fosse una storiella, per lo meno, non ne avevo mai vista una.

    Ed eccolo imboccare la nostra strada e poi fermarsi in mezzo alla via, il suonatore che, girando senza sosta la manovella, produceva, almeno alle mie orecchie, una dopo l’altra delle bellissime musiche.

    Sono rimasto lì, incantato, fino a che ho sentito la voce della mia mamma, che mi chiamava di sopra. Ancora qualche secondo, mi sono detto, mentre le monetine cominciavano a piovere giù dai balconi, lanciate dalla gente affacciata alle finestre. E mentre entravo dentro l’androne del condominio, camminando all’indietro per gustarmi ancora qualche briciola di spettacolo, vidi l’uomo levarsi

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