Langhe inquiete: Appunti per un romanzo.
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Ritorna Marco Giacosa con le sue emozioni, appunti per il romanzo di una vita!
Un gattino gettato in una vasca del latte, un autogol nella partita d’esordio, un improbabile coach sulla gradinata di un palazzo del basket, un parroco che odia Maurizio Costanzo, il re della Nutella Michele Ferrero che piange davanti ai dipendenti, una zia che ha la borsa da comunista, la cantante Madonna che inizia al sesso un ragazzino, una sconosciuta che si infila in un reparto di rianimazione, un terreno espropriato, un carabiniere in servizio allo stadio di Casale Monferrato il giorno di un temutissimo derby, un governo che cade in piena estate, un cane innamorato.
Nascere nelle Langhe a metà degli anni ’70, crescere lì negli ’80, dover fare i conti con l'idea che tutto (non) andrà bene sempre. Lutti privati che si intrecciano con il racconto di due generazioni, dal dopoguerra all’Italia del primo decennio di questo secolo.
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Anteprima del libro
Langhe inquiete - Marco Giacosa
Tavola dei Contenuti (TOC)
Capitolo I. Il bambino
Un gatto nella vasca del latte
Il giorno in cui mi toccò l’asilo
Il canto della civetta
Le visite di un giorno con la classe delle elementari
La fine del mondo
La mia vita calcistica
Viale Trastevere
I dolori di un giovane sfigato a Saint Jacques
Madonna
Tu stasera non esci dal palazzo
Era morto Aldo Viglione
Molta cura nel provarci
Capitolo 2. La madre
Una cosa molto brutta
Pavimenti
La pressione
Viaggio d’amore
Dal greco eu
17 giugno 2011
La borsa di mia madre, nel giorno della festa della mamma
Capitolo 3. Le Langhe
Langhe perse
La Ferrero
Il racconto dell’alluvione 1994
Date (una fenomenologia della campagna)
Il cane innamorato
Altri cenni sulla mia famiglia parlando delle automobili
Zia Zita
Zio Pierin
La borsa da comunista
Ijé da morde
Il mondo è per tutti
Langhe, malora, sposalizi
Capitolo 4. Il padre
Una persona perbene
A volte sì, succede
In non morte di mio padre
Voi
Alla ricerca di mia sorella
Mia sorella è figlia unica
Padre
Chi c’è
Condividi (preludio a una giornata di Langhe inquiete)
Langhe inquiete
Il dirigente che si mise a fare l’impiegato
L’operaio con la casa da industriale
Susanna, la parrucchiera che fa le pulizie
L’allevatore coltivatore
La bambina che parla l’italiano colto
Priocca, il gioiellino
La pretesa di essere ignorati
Autostrada Asti-Cuneo
Capitolo 5. Il nonno
Mio nonno aveva alcune cose
Quando non ci sarò più io, chi lo farà il vino?
La vita felice di mio nonno
Capitolo 6. La nostalgia
Approcci
Due di picche
Della Juve
Di’ che canti in chiesa
Nessuno si è fatto male
Che ne sarà di noi
L’aria quasi magica del Ponte Isabella
Borghetto Santo Spirito (atto ultimo)
Vasco: io c’ero
Un’estate italiana
28 novembre 1982
La palla del diavolo ha scritto Michel Platini sopra
Torino non era casa mia
Quintiliano
Un giorno con la Punto del 1995
Capitolo 7. Epilogo
Flying away, come sei bella…
Ringraziamenti
golem / narrazioni
©
2020
Miraggi Edizioni
via Mazzini
46
,
10123
Torino
www.miraggiedizioni.it
In copertina: Gioco alla pantalera sulla piazza di San Bovo di Castino (Cn), 1942; foto di famiglia dell’Autore.
Progetto grafico Miraggi
Finito di stampare a Borgoricco (PD) nel mese di novembre
2020
da Logo srl per conto di Miraggi Edizioni
su Carta da Edizioni Avorio – Book Cream 80 gr
Prima edizione digitale: novembre
2020
isbn
978-88-3386-160-9
Prima edizione cartacea: novembre
2020
isbn
978-88-3386-143-2
Alla memoria di mio padre Pietro Giacosa
[1942-2011]
Alla memoria di mio nonno Giovanni Battista Giordano
[1923-2012]
Alle Langhe, odi et amo
Capitolo I. Il bambino
Un gatto nella vasca del latte
Mio padre era veterinario. Capitava talvolta che a far visita al bestiame in giro per le campagne finissimo pure mia madre e io.
Un giorno eravamo a borgo Santa Rosalia, sulla collina di Alba, mentre mio padre era nella stalla io giocavo in cortile, guardato a vista da mia mamma.
Avevo tre anni.
Nel cortile c’era un gatto. Lo pungolavo, lo stuzzicavo, lo facevo andare matto. Eravamo da una famiglia che allevava alcune vacche, nel cortile c’era una piccola vasca, alta non più di mezzo metro, con del latte appena munto.
Mia madre si distrasse, bastò un attimo e io presi il gatto e lo gettai nella vasca con il latte.
Doveva essere un gattino, perché miagolò, si agitò, ma non riuscì a uscire. Mia madre se ne accorse, si avvicinò in fretta, lo tolse dalla vasca. Il gattino scappò via disperato, perdendosi tutto bagnato nel deposito degli attrezzi.
Mia madre mi guardò, io sogghignai soddisfatto con l’aria di un diavoletto.
Lei sorrise.
C’era da decidere cosa fare. Mia madre alzò gli occhi, nessuno aveva visto; guardò meglio, erano tutti nella stalla. Mi prese, mi portò dall’altra parte del cortile, lontano dal latte.
Mio padre uscì dalla stalla, noi ostentammo indifferenza. Continuavo a sorridere a bocca chiusa con la fierezza che vedevo sul viso di mio nonno quando faceva assaggiare il suo vino a qualcuno.
Da quel giorno, tutte le volte in cui verso il latte nel bicchiere guardo se c’è un pelucco piccolo, di quel gattino mezzo bianco mezzo nero.
Il giorno in cui mi toccò l’asilo
Siccome crescevo isolato, venne deciso che dovevo andare all’asilo. Comprarono un cestino, mi misero addosso un grembiule, nonno prese l’auto e mi portò all’asilo, a pochi chilometri da casa lungo una strada diritta.
Avevo quattro anni.
Il primo giorno diedero da mangiare pastina in brodo, carote e fegato. Io mangiavo tutto, tranne carote e fegato, quindi mangiai soltanto la pastina. Dopo pranzo dissero che dovevo dormire; non tutti però dopo pranzo dormivano: i grandi, quelli dell’ultimo anno, potevano giocare in cortile.
Alle cinque del pomeriggio nonno venne a prendermi.
L’indomani a pranzo diedero brodino con pasta piccola, carote, fegato e una mela; mangiai il brodo e la mela. Dopo pranzo dissero che dovevo dormire, ma in tutta la mia vita non avevo mai dormito il pomeriggio, quindi feci come il giorno prima, stavo sveglio con gli occhi chiusi e ascoltavo le voci dei grandi che giocavano a palla in cortile.
Il terzo giorno lasciai nel piatto le carote e il fegato. Questa volta rimasi a occhi aperti coricato su un fianco a guardare la luce che filtrava dalle tapparelle, contavo i granelli di polvere appesi all’aria.
Alle cinque del pomeriggio dissi a mio nonno: «Dobbiamo parlare». Dissi che io stavo bene in campagna da lui, giocavo con le galline, studiavo i nidi delle formiche, andavo a cercare il muschio, avevo il cane, perdevo il pallone nell’erba alta, il pericolo, dicevo, era semmai mia madre, che mi avrebbe sgridato se non avessi cambiato maglietta quando sudavo, o se avessi sporcato vestiti nuovi cadendo sulla cacca delle galline.
Io non avevo bisogno degli altri bambini.
Così all’asilo andai soltanto tre giorni. In quei tre giorni mi feci la fidanzata, Adorno Maria Grazia, una bambina che vedevo giocare, una volta mi ero perfino avvicinato a lei e alle sue amiche. Era dell’ultimo anno. Mio nonno diceva che era la figlia del vivaista del paese, una buona famiglia. Come prima fidanzata andava bene.
Il canto della civetta
Quando mia nonna morì, mio cugino mi comperò una macchinina.
Ero seduto al mio posto, nel soggiorno della cascina dei nonni, a una specie di tavolo per bambini che, rigirato, si trasformava in una piccola lavagna su cui scrivere con i gessetti; un tavolo mobile, messo lì, nel soggiorno, il giorno in cui mia nonna, di là, nella camera da letto, moriva.
Andai nel granaio, mi inginocchiai: «Gesù, ti prego, fa’ che nonna non muoia».
Ma pensavo: fa’ che resusciti, perché io l’avevo capito che nonna era morta, anche se nessuno me l’aveva detto.
Mi era stato chiaro quando poco prima avevo sentito mamma dire al telefono a zio Mario: «Vieni, la vedi per l’ultima volta».
Poi era arrivato mio cugino Claudio, che aveva vent’anni e la patente, mi aveva preso ed eravamo finiti da un tabaccaio che vendeva anche giornali e giocattoli.
Bianca, strisce rosse, da rally: feci girare la mia nuova macchinina sul pavimento della cucina di mia zia Zita, dove cenai, da dove chiamai mia madre: «Io sto bene, mamma, ma dimmi: come sta nonna?».
«Meglio», disse lei.
La balla che traumatizza. L’innocente balla che rimane nel tempo, supera i decenni, viene ricordata.
Meglio.
Non è vero. Perché, madre, mi dicesti quella balla? Perché non dirmi la verità?
Non conosco il momento in cui mi dissero che nonna era morta. O forse non lo dissero mai, forse è stata una di quelle cose che si suppone non ci sia bisogno di dire.
Invece dissero: «La civetta l’aveva previsto».
Due o tre giorni prima che mia nonna morisse, una civetta era venuta a cantare sul balcone del soggiorno della cascina dei nonni. Io non me ne ero accorto, avevo solo sette anni e nessuno mi aveva insegnato a riconoscere il canto della civetta.
«La civetta porta sfortuna».
Non era un insegnamento, un condizionamento educativo volontario, non volevano fornirmi alcuno strumento utile. Così dicevano: «La civetta porta sfortuna», e basta.
Quando capitava di venire a conoscenza della morte di un anziano o anche di quella improvvisa di un giovane conoscente, spesso più di uno era pronto a dire che la civetta la sera prima era entrata in cortile, che la civetta due giorni prima aveva cantato tutta la notte, che la civetta non lasciava dormire nessuno, in quella borgata, da almeno una settimana.
Decisi che mai avrei voluto conoscere il canto della civetta.
Ma poi prevalse la curiosità: crescendo mi ero informato, la credenza era ancestrale, ricordo della civiltà contadina povera che non aveva luce, che accendeva il lume, la sera o la notte, soltanto in condizioni non ordinarie, come per la veglia di un moribondo, o di un morto, e la civetta altro non faceva, non fa, che avvicinarsi a un punto luminoso.
Così quando un ragazzo che giocava a pallone con me un giorno di molti anni dopo disse che aveva dormito poco perché la civetta aveva cantato, urlato tutta la notte, gli chiesi che suono avesse il canto della civetta e lui lo riprodusse, nello spogliatoio, in mutande, con un calzettone giallo in mano: «Gni-iiic, gni-iiic».
A vent’anni capitai in una silenziosa valle di montagna, sentii urla stridule, acute, e fui lì lì per chiedere a mio padre se quello fosse il verso aspro di una civetta – ma non lo feci.
Mi convinsi che fosse la marmotta.
Quando mia madre si ammalò, sentii più volte un trillo acuto, progressivo e spiazzante, accompagnare le notti insonni di casa nostra, un gruppo di case nel cemento a quattrocento metri dai campi, in paese.
Tuttavia mia madre era già malata.
Facevo attenzione ai rumori notturni senza preoccuparmi di eventuali legami di causa ed effetto, non avevo avvertito, prima della diagnosi, se una civetta si fosse avvicinata per segnalare la disgrazia imminente, e pure ero continuamente a caccia di civette. Prima, molto prima della diagnosi, facevo sempre attenzione. Quei suoni notturni a volte c’erano a volte no. A volte per tre sere consecutive, a volte una notte sì e quella dopo no, per due settimane, a volte silenzio per mesi, a volte canti per giorni. Una distribuzione casuale che mi faceva impazzire: cercavo notizie, sui manifesti a lutto, di persone morte nel borgo – qual è la portata della previsione della civetta, geografica e temporale? Un canto vale 24 ore? Di più? Che ampiezza ha, un chilometro? Meno? Prestavo attenzione alle voci del bar, se qualcuno avesse avuto diagnosi infauste, se qualcuno avesse un parente messo male, per trovare legami, connessioni.
Non ebbi mai prova statistica dell’irrazionalità che censivo.
Invidiavo chi vive in città. In città non c’è la civetta, un bambino non si può spaventare.
Le visite di un giorno con la classe delle elementari
Alla Società San Paolo, che produceva le riviste cattoliche «Jesus», «Missioni», «Famiglia Cristiana», ma soprattutto «Il Giornalino», il giornale più letto dai bambini. O forse era «Topolino» il giornale più letto dai bambini, ma tutti amavamo «Il giornalino», e vederne pile e pile nel cellophane, pronte alla consegna, da aprire e sfogliare, fu bellissimo.
Alla Centrale Idroelettrica di Verduno. Uno immagina una cosa gigantesca sull’acqua e invece è una costruzione poco più grande di una bella villa che dà su un fiumiciattolo poco più grande di un torrente.
Alla Ferrero. Alla Ferrero per i dipendenti c’era questa regola: «Qui dentro mangiate tutta la cioccolata che volete, bevete tutti gli Estathé che volete, mangiate tutti i Rocher che vedete, ma se portate fuori anche solo una barretta Kinder, vi licenziamo». Per gli esterni in visita era più o meno lo stesso, con la denuncia al posto del licenziamento. Fu come ci dicessero: «Benvenuti in paradiso». Mangiammo più cioccolata quel giorno di quanta ne avessimo mangiata nella nostra vita.
Al Castello di Grinzane Cavour. Mi sembrava di essere a casa, non tanto perché ero quello che ci abitava più vicino, quanto perché mio padre si travestiva da conte Cavour e girava il Piemonte, nelle settimane di Carnevale, su un carro che riproduceva il castello. Camillo Benso visse lì dal 1832 al 1849, prima di andare a Torino a fare l’Italia. Con una barba finta e un po’ di trucco, mio padre era identico. Quando la guida ci parlava, io pensavo che quello di cui parlava era un po’ mio papà, e mi sentivo importante.
Al Parco La Mandria di Torino. Era bellissimo, anche se non ricordo perché. Arrivai a sera e dissi: «Bellissimo», per cui se oggi qualcuno mi chiede com’è La Mandria, io dico «bellissimo», ma non ricordo perché.
Al Museo dell’Automobile di Torino. Scendere con il pullman in corso Unità d’Italia mi gettò nella dimensione della città; a me i vialoni grandi e le strade piene di automobili davano piacere; passare da qualche-metro a moltissimi-metri come unità di misura della distanza mi rese felice. Dentro, vidi una Ferrari da gara, che mi piacque molto ma soprattutto era lì. Le cose che vedi alla televisione sono lontane, poi un giorno sono lì.
A una fattoria nella zona di pianura, tra Savigliano e Fossano. La maggior parte di noi aveva un nonno in campagna, la visita alla fattoria non rappresentava la scoperta di niente di nuovo. Ma qualcuno era nativo di città, non aveva riferimenti agricoli, e io mi divertivo a fare quello che la sapeva lunga, raccontavo le galline, le uova, il latte, le mucche. Dicevo che mio padre girava le colline a curare le bestie e ogni tanto mi portava con lui. Alcuni pensavano che fossero i supermercati a produrre le uova, io indicavo il culo della gallina, mi avvicinavo alle galline e dicevo «Guarda, da lì esce l’uovo», e indicavo il culo, e le mie compagne dicevano «Che schifo! Non mangerò più uova». Io ridevo, e più loro dicevano «Che schifo!» più io indicavo il culo e facevo vedere anche la cacca delle galline, «Guarda la squita! La squita!», in dialetto.
Quel giorno sfiorai, scendendo dal pullman, il gomito della mia fidanzata, e per me fu come farci l’amore. Fu imbarazzante al punto tale che non le rivolsi più parola per tutta la gita, la evitai fino al giorno dopo.
La fine del mondo
Nell’autunno del 1983, dallo studio del programma Superflash, Mike Bongiorno domanda: «Secondo quanto pubblicato sul giornale […], quando avverrà la fine del mondo?».
Un concorrente preme il pulsante e dice: «12 marzo 1984».
Mike decreta: «Risposta esatta!».
Applausi in studio.
In una casa della zona di Alba, un bambino di nove anni è agghiacciato. Pochi mesi e il mondo finirà.
Quella sera non faccio nulla. Provo una sensazione nuova, non ho gli strumenti per chiamarla angoscia. Nelle settimane successive sono preso da improvvise tachicardie in dormiveglia, penso al nulla e il pensiero del nulla mi squassa, sono costretto a rimettermi in piedi. Penso alla forza di gravità, che la terra sia piatta e che esista un sotto e un sopra. Penso la terra come il fondale di un oceano profondo; cosa c’è sotto il fondale di un oceano profondo?
Passo quel capodanno sapendo che sarebbe stato l’ultimo.
Penso alla morte di mia madre. Mia madre che si dissolve nel nulla, penso al nulla. Tachicardia. Mamma non può morire. Prendo un braccio di mio nonno, lo strattono, mio nonno è carne che devo toccare, mentre guida e io penso a mia madre, il nulla.
«Marco, che c’è.»
«Niente.»
Arriva marzo e il mondo finisce. Sono in quarta elementare. La maestra non si accorge di niente.
La sera prima del giorno in cui il mondo finisce, io mi chiedo perché tutto attorno