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L'amore verrà
L'amore verrà
L'amore verrà
E-book264 pagine2 ore

L'amore verrà

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Info su questo ebook

Una ragazza di sedici anni dovrebbe solo pensare a studiare, ascoltare dischi e vivere le prime storie d'amore. Per Clara invece non è così: lei deve lavorare per aiutare la famiglia, ma non le pesa. In questo romanzo la vediamo crescere e sbocciare come donna alla ricerca di se stessa e dell'amore attraverso gli anni che seguono il boom economico italiano, contornata da personaggi come "La Bersagliera", zia Ginetta e il gatto Gianburrasca e da tre uomini che si contenderanno il suo cuore. Sono gli anni della contestazione studentesca, della legge sul divorzio, di Carosello e del Festival di Sanremo, degli spaghetti western, delle grandi storie d'amore come Dottor Zivago, dell'alluvione di Firenze e dello sbarco sulla Luna.
ROMANZO VINCITORE DI R COME ROMANCE 2020
LinguaItaliano
Data di uscita19 feb 2021
ISBN9788893471985
L'amore verrà

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    Anteprima del libro

    L'amore verrà - Rosalba Scaglioni

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    Rosalba Scaglioni

    L’AMORE VERRÀ

    Prima Edizione Ebook 2021 © R come Romance

    ISBN: 9788893471985

    Immagine di copertina su licenza Adobestock.com, elaborazione Edizioni del Loggione

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    www.storieromantiche.it

    Edizioni del Loggione srl

    Via Piave 60

    41121 Modena – Italy

    romance@loggione.it

    http://www.storieromantiche.it    e-mail: romance@loggione.it

    img2.jpg

    La trama di questo romanzo è frutto della fantasia dell’autore.

    Ogni coincidenza con fatti e persone reali, esistite o esistenti, è puramente casuale.

    Rosalba Scaglioni

    L’AMORE VERRÀ

    Romanzo

    Indice

    29 gennaio 1966

    25 febbraio 1966

    21/22 maggio 1966

    27 gennaio 1967

    17/18 aprile 1967

    10 giugno 1967

    8/9 agosto 1967

    3 febbraio 1968

    3 – 4 marzo 1968

    2 febbraio 1969

    20/21 luglio 1969

    Ringraziamenti

    Le canzoni e gli interpreti

    L’autrice

    Catalogo

    Il concorso

    Tre fiammiferi accesi

    Tre fiammiferi accesi uno per uno nella notte

    Il primo per vederti tutto il viso

    Il secondo per vederti gli occhi

    L’ultimo per vedere la tua bocca

    E tutto il buio per ricordarmi queste cose

    Mentre ti stringo fra le braccia.

    J. PREVERT

    29 gennaio 1966

    Mi chiamarono per un colloquio a casa del dottor Sommi il 29 gennaio 1966 grazie al suggerimento di zia Ginetta che andava già a servizio da parecchi anni in quella villa dai muri macchiati dall’umidità.

    La bambinaia precedente non si era fatta trovare al rientro dalle vacanze di Natale della famiglia.

    Non aveva lasciato alcun biglietto, era semplicemente scomparsa. Se non fossero rimasti un paio di suoi abiti e le divise nell’armadio nessuno si sarebbe accorto del suo passaggio. Si chiamava Elisabetta Esposito. Zia Ginetta mi aveva spiegato che era un cognome che davano in bass’Italia all’orfanotrofio: non aveva famiglia e forse era per quel motivo che era stato così facile sparire.

    Mi presentai col mio abito migliore, l’avevo cucito usando uno scampolo di stoffa trovato a buon mercato dal merciaio. L’idea mi era venuta ricalcando un cartamodello di Giulia Fontanesi Maramotti inserito in una rivista dimenticata sulla corriera che portava in città.

    I capelli erano ben acconciati e avevo messo un rossetto tenue. Prima di uscire di casa mi ero guardata allo specchio che rimandava l’immagine di una persona acqua e sapone, pulita e alla quale avrei affidato i miei figli, se solo li avessi avuti. Le mani erano forse un filo callose per via del lavoro nei campi, ma le avevo strofinate con lo spazzolino sporco di varechina e le unghie erano corte e bianche.

    Zia Ginetta si era raccomandata di bussare alla porta sul retro, quella verde e un po’ screpolata, non al portone principale.

    Ero partita da casa per tempo per non correre il rischio di perdere la corriera: il risultato fu di giungere alla villa un’ora prima del previsto. Avevo preso la corsa che portava gli studenti delle superiori in città. Qualcuno lo conoscevo dai tempi delle medie. Alcune ragazze erano state mie compagne in collegio quando avevo provato a frequentare le magistrali. Sembrava un altro secolo, ma era passato meno di un anno.

    Al passo da pachiderma della corriera sgangherata che sfiatava fumo nero e puzzolente avevo impiegato circa venti minuti a fare i dieci km che separavano casa nostra da quella magione che pareva una rosa ormai sfiorita.

    Bussai alla porta verde e mi venne ad aprire zia Ginetta.

    «Santalò bambina mia, sei in anticipo! La signora non è ancora uscita dalla sua stanza. Ti sei lavata per bene i denti? Hai mangiato una mentina? Mi raccomando, rispondi solo sì e no, non ti dilungare e ripeti spesso che adori lavorare con i bambini, anche se questi non sono bambini ma vere e proprie tigri in gabbia. La signora è ipocondriaca e non vuole mai che facciano niente povere stelle.» Era strano sentire parlare zietta in italiano perché in famiglia eravamo tutti abituati a parlare solo in dialetto. Quando passavano i discorsi importanti alla radio, quelli del presidente del consiglio Moro o di Papa Paolo VI, dovevo tradurre al babbo le parolone difficili

    «Cara zietta, se devo rispondere solo sì e no mica posso dire che adoro lavorare coi bambini, non ti pare?» ne approfittai per prendere in giro quello scherzo di donna, minuta e tutta nervi. Era la sorella di mamma che al contrario era alta e ben piantata.

    Zia Ginetta mi colpì con lo strofinaccio che le pendeva dal grembiule.

    Mi fece entrare e accomodare in un salottino nel quale era stato acceso il caminetto.

    C’erano una poltrona, una sedia a dondolo, un antico canapè e un lucidissimo pianoforte a coda.

    Mi disse di sedermi alla poltrona, cosa che feci subito: era autoritaria zietta. Mi si piazzò davanti, si succhiò un pollice e lo passò sulle mie labbra levandomi il rossetto. Poi armeggiò in un cassettino della console e ne tirò fuori un nastro.

    «Legati i capelli, la signora non vuole in giro altre belle ragazze...»

    Mi domandai naturalmente a chi si riferisse, ma non feci in tempo a dirlo ad alta voce perché era già sparita chiudendosi la porta alle spalle.

    Nemmeno il tempo di guardarmi intorno che feci un salto alto così sulla poltrona.

    Un bimbetto paffuto e con uno sbafo di cioccolato sulla guancia spuntò fuori da sotto il pianoforte tirando per la coda un gatto dal pelo lungo.

    «Chi sei?» mi chiese guardandomi col moccio al naso.

    «Mi chiamo Clara.»

    Presi il mio candido fazzolettino dalla tasca dell’abito e lo asciugai. Girai il fazzoletto dalla parte pulita e dissi al bambino di tirar fuori la lingua. Lui serrò le labbra.

    «Toh guarda… un bambino senza lingua. Forse gliel’ha mangiata il gatto» dissi mentre facevo finta di guardarmi in giro per cercare. «Eh no, proprio non la vedo. Povero bimbo… E pensare che la lingua è indispensabile per mangiare il gelato. Come farà? Mai più gelato?»

    La lingua del bimbo uscì di scatto dalla bocca, come avevo visto fare al cassetto del registratore di cassa americano del bar centrale.

    Vi inzuppai prontamente il lembo del fazzoletto per togliere lo sbafo di cioccolato.

    «Adesso sembri proprio un bell’ometto, prima eri solo un moccioso.»

    Il bimbo mi guardò malissimo poi tirò su il gatto per la coda e me lo mostrò.

    «Lui è Gian Burrasca e io sono Martino.»

    Guardai prima lui e poi il gatto rassegnato.

    «Avrei giurato davvero il contrario...»

    «Ho sempre pensato che li avessero scambiati nella culla...»

    Sia io che Martino ci voltammo a guardare il proprietario della voce.

    Fresco di rasoio, camicia, giacca, cravatta, pantaloni con la piega come insegnavano le suore della colonia, era appena entrato l’uomo più bello che avessi mai visto di persona. Mi imposi di smettere di fissarlo a bocca aperta. Somigliava a quell’attore dei fotoromanzi, quello con la mascella squadrata che aveva fatto la parte di un garibaldino ne Il Gattopardo. Lo avevo visto al cinematografo parrocchiale. Come si chiamava… ah sì, Mario Girotti. Però aveva l’eleganza e il portamento di Marcello Mastroianni.

    Sentivo le guance in fiamme e il cuore in gola come all’esame di terza media.

    «Sono Franco Sommi, immagino sia venuta al colloquio per il posto vacante di bambinaia. Di queste cose ahimè se ne occupa mia moglie che arriverà fra poco.»

    Da sopra la console di fianco al camino prese la borsa tozza di pelle tipica dei medici condotti e salutò con un sorriso che gli arrivò agli occhi.

    Martino mollò la coda del gatto e si avvinghiò allo stinco del padre.

    «Babbo rimani a casa, giochiamo alle biglie. Ti lascio tenere Adorni, Gimondi e Anquetil, io prendo Bitossi, Motta e Zilioli.»

    «Non posso Martino, mi stanno aspettando in ambulatorio.»

    «Almeno una canzone» implorò il figlio.

    Il padre fu costretto a cedere. Mise per terra il borsone e si accomodò al pianoforte.

    Uscirono note delicate che riconobbi all’istante. Era Il mondo di Jimmy Fontana, quella del disco per l’estate dell’anno prima.

    Martino si sedette ai piedi del padre con Gian Burrasca tra le gambe. Dalla porta entrarono altre due ragazzine identiche tra loro, poco più grandi di Martino. A un certo punto i bambini iniziarono a canticchiare.

    «Gira il mondo gira nello spazio senza fine...»

    Quando il dottor Sommi arrivò al ritornello stavamo ormai cantando tutti, anche zia Ginetta che sbirciava da dietro la porta.

    «Il mondo non si è fermato mai un momento, la notte insegue sempre il giorno, ed il giorno verrà.»

    Poi un folata al profumo di gardenia chiuse il coperchio del pianoforte. Se il dottore non fosse stato lesto a togliere le mani ci avrebbe lasciato un paio di falangi.

    La proprietaria del profumo era una donna alta, elegante e dalla messa in piega perfetta.

    Doveva essere la mamma dei bambini, la signora, la moglie di quello splendido uomo.

    «Sai benissimo che ho l’emicrania. Questo dannato pianoforte è Lucifero che prende a cornate il mio cervello.»

    Il dottore le chiese scusa, si chinò a baciarla sulla tempia e riprese in mano la sua valigetta.

    Salutò tutti cordialmente e scomparve il sole dalla stanza. Forse solo io mi accorsi che le nocche della sua mano erano bianche dall’eccessiva pressione sulle maniglie.

    «Tu sei Clara?» mi chiese a bruciapelo la signora.

    «Sì» risposi incerta, colpita dalla freddezza di quella donna.

    «Non ne sei sicura signorina?» sembrava Gino Cervi quando impersonava il commissario Maigret.

    «Sono sicura. Sicurissima» mi ripresi subito.

    «Hai sedici anni giusto?» era più un’affermazione che una domanda.

    «Li farò fra poco. Sono nata il cinque luglio del 1950, il giorno in cui hanno ucciso Salvatore Giuliano» risposi tanto per discorrere.

    «Be’ sembra che tu conosca la storia. Hai fatto la terza media?»

    «Ho fatto la terza media e un anno di magistrali, poi ho dovuto smettere.»

    La signora inarcò un sopracciglio, uno solo, come Marlene Dietrich. Io non ne ero mai stata capace.

    «Ti hanno bocciata?»

    Era una faccenda che mi faceva ancora male, ma non l’avrei di certo raccontata a quella Cariatide.

    «No signora. Motivi familiari» risposi con un gran sorriso falso.

    «Referenze?»

    Le porsi un foglio scritto di pugno dall’avvocato da cui andavo a servizio due volte la settimana.

    Sembrò soddisfatta.

    «Vedo che sai cucinare e fare le pulizie. Nel caso in cui Ginetta non stia bene saresti disposta a sostituirla?»

    «Non avrei problemi se questo non mi impedisse di svolgere il lavoro di bambinaia.»

    La signora mi squadrò dalla testa ai piedi.

    «I bambini, se debitamente inquadrati, sanno stare al loro posto per un paio d’ore, anche di più.»

    Si avvicinò a me come per annusarmi.

    «Ho bisogno di una persona che vada a prendere le gemelline Ornella e Giovanna a scuola alle dodici e trenta in punto e le faccia mangiare, sono molto schizzinose quelle due, e poi vanno seguite per i compiti, brigose che non ti dico. Martino esce alle quattro dall’asilo ma fortunatamente l’anno prossimo inizierà le elementari. Carlo invece fa il liceo classico e lo va a prendere mio marito oppure si arrangia da solo. Io mi occupo del piccolo Giulio durante la giornata, ma sarà tuo compito fargli il bagnetto, prepararlo per la cena e poi metterlo a letto. Il lavoro va dal lunedì al sabato, da mezzogiorno alle ventuno. Il sabato dalle dieci alle diciassette. Se uno dei bambini è malato ti sarà chiesto di venire anche la mattina. Sono in stato interessante e non posso permettermi di buscare qualche accidente...»

    Le guardai d’istinto il ventre piatto, anzi quasi incavato tanta era la magrezza di quella donna.

    Forse comprese la mia perplessità perché si affrettò a precisare: «Mancano ancora quattro mesi al lieto evento.»

    Aveva pronunciato la parola lieto come se non ne fosse per niente certa.

    Mi limitai ad abbozzare un sorriso in risposta.

    «La paga sarà di 10.000 lire la settimana. In caso di straordinari vedremo di volta in volta come affrontarli. Saresti disposta anche ad accompagnarci qualche domenica per le gite fuori porta e stare con noi alla casa al mare da luglio fino all’inizio del nuovo anno scolastico?»

    Sembrava mi stesse implorando, una nota fragile nella voce.

    La guardai negli occhi per un lungo momento per cercare anche un solo briciolo di amore materno.

    Non ne trovai. Decisi che quei bambini avevano bisogno di me.

    «Accetto» dissi senza esitare.

    Intanto pensai che in due mesi avrei avuto i soldi per ricomprare il televisore, 60.000 lire, pagare il canone, 12.000 lire, e mettere da parte qualcosa.

    «Quando puoi iniziare il periodo di prova?»

    «Le posso fare solo una domanda signora? Perché se n’è andata la precedente bambinaia?»

    Mi guardò sconcertata e, petto in fuori e mento sprezzante, rispose alla mia impertinenza:

    «Non credo siano affari tuoi, ma se proprio lo vuoi sapere si è innamorata di un capellone che le ha fatto il lavaggio del cervello meglio delle spie del Cheghebé.»

    Mi parve il momento adatto per alzare bandiera bianca invocando una tregua.

    «Direi che posso iniziare anche adesso se vuole, signora.»

    E così dicendo, consapevole e convinta, cambiai completamente il corso della mia vita.

    Zia Ginetta mi fece fare il giro della casa.

    «Santalò Clara, sei davvero a posto adesso. Altro che pulizie due volte la settimana in un posto da andarci in bicicletta. Qui le corriere passano ogni mezz’ora. Quando torni a casa ricorda di accendere un cero alla Madonna di Lourdes del Crocicchio, per ringraziarla. E recita almeno dieci corone di rosario.»

    La casa era un susseguirsi di stanze arredate in stile classico che si affacciavano su un corridoio luminoso e che si aprivano sul giardino sul retro, tenuto benissimo: si vedeva che qualcuno lo amava, nonostante non fosse la stagione migliore per apprezzarlo. Ciò che attirava più l’occhio era una casupola in ferro battuto bianco, forse una serra.

    Al piano superiore, recentemente restaurato, c’erano otto camere da letto e due bagni. Ci avrei messo almeno un mese per imparare come funzionava.

    Si capiva benissimo quali fossero le stanze formali e quali quelle usate tutti i giorni.

    L’unica in cui non entrai perché chiusa a chiave era lo studio del dottore.

    «Sai zietta, la signora non mi ha nemmeno detto come si chiama.»

    «Forse perché si vergogna» rispose la zia sorridendo sotto i baffi, baffi che aveva davvero sopra il labbro e sotto il mento.

    «Non può essere peggio di quello della perpetua di don Sisto: Adeodata» le rammentai io.

    «Si chiama Maria Egiziaca. Chissà dove l’hanno trovato un nome così» disse zietta portando lo sguardo al cielo.

    «Sicuramente nell’almanacco dei Santi. Lo sai che è praticamente obbligatorio sennò il prete non ti battezza.»

    «Comunque tu rivolgiti a lei sempre con signora e non avrai problemi. Il dottor Franco la chiama Gigì, alla francese.»

    Zia Ginetta mi condusse nello spogliatoio di servizio dove c’erano alcune divise. Ne provai un paio e decisi di indossare quella con la gonna più lunga perché era più comoda

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