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L'aquila tra i giganti
L'aquila tra i giganti
L'aquila tra i giganti
E-book456 pagine6 ore

L'aquila tra i giganti

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Info su questo ebook

Jutland, oggi Danimarca, al tramonto del II secolo a.C. L’epica migrazione di un intero popolo, i Cimbri, osservata attraverso lo sguardo curioso e disincantato di un ufficiale romano, che si trova suo malgrado coinvolto nella loro affascinante avventura.
Due civiltà a confronto, distanti da un punto di vista geografico e sociale, che alla fine mostrano di avere più valori in comune di quanto si creda. 
Coraggio, valore, forza bruta, ma anche onore, amicizia, lealtà, passione e nobili sentimenti. Attraverso un’Europa ancora selvaggia, marce estenuanti si alternano a lunghe soste e a battaglie sanguinose e improvvise.
Il tutto animato da donne e uomini veri e credibili, così lontani, ma allo stesso tempo così vicini a noi, nella loro vivida umanità

Maggiori informazioni https://aporema-edizioni.webnode.it/products/laquila-tra-i-giganti/
LinguaItaliano
Data di uscita8 dic 2018
ISBN9788832144178
L'aquila tra i giganti

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    Anteprima del libro

    L'aquila tra i giganti - Luigi Mattioli

    PARTE

    I

    " La mia flotta navigò l'Oceano dalla foce del Reno verso le regioni orientali fino al territorio dei Cimbri, dove né per terra né per mare giunse alcun romano prima di allora." (Augusto, Res Gestae Divi Augusti)

    Confini meridionali dell’Himberland – 120 a.C.

    Un vero diluvio si stava abbattendo sul villaggio di Sysla. Da quelle parti le giornate di pioggia erano frequenti e, dopo il primo mese di maltempo pressoché ininterrotto, gli abitanti non erano affatto preoccupati. All’acqua in seguito si era unito un forte vento, che soffiava dai mari del nord e, ululando senza incontrare ostacoli naturali, sferzava le fragili case di legno e argilla.

    Al terzo mese, però, ogni cosa sembrava sul punto di cedere. Le alte betulle, piegate dalla forza degli elementi, sempre più spesso si schiantavano sul terreno; i sentieri sparivano, inghiottiti da fiumi di fango; le paludi, ormai sempre più vicine alle abitazioni, rigurgitavano detriti e carcasse di animali.

    All’interno delle lunghe case, già distanti tra loro e ora del tutto isolate, il bestiame sopravviveva a fatica. Buoi, pecore e cavalli erano abituati a trascorrere le notti condividendo il riparo con gli uomini; ora, tuttavia, la mancanza di spazi praticabili e la penuria di foraggio causavano una palpabile agitazione. Molti animali erano stati sacrificati con riti propiziatori, oppure abbattuti senza pietà, perché era impossibile tenerli a bada negli angusti spazi nei quali mangiavano e dormivano. E i loro padroni, quando non erano occupati a rinforzare le pareti e a far defluire il fango, si ubriacavano e litigavano tra loro.

    Così, quando una sera all’imbrunire un uomo apparve ai margini del bosco, avanzando a fatica in direzione del villaggio, nessuno lo notò. Premuto contro il dorso del suo cavallo, coperto da un mantello che scendeva fino ai talloni, sollevò la testa solo per osservare, finalmente, le prime case.

    Hiwa si era accasciata sulla panca. Allentando la striscia di cuoio che le stringeva la veste appena sotto il seno, osservava lo schiavo che liberava i canali di scolo proprio sotto le zampe delle pecore. Era una ragazza forte e le sue mani avevano lavorato nel fango come quelle di un uomo; ma ora era stanca, dolorante e piena di graffi.

    Passò un avambraccio sulla fronte, poi strizzò più volte i capelli sporchi chinando la testa in avanti, con grande divertimento dei fratelli.

    Suo padre Andag, invece, continuava a russare.

    Pur essendo un rik rispettato da tutti, Andag era sempre più spesso ubriaco. Quell’uomo robusto, saggio e autorevole era diventato l’ombra di se stesso, da quando aveva perso la moglie: cosa strana per un guerriero, abituato ai dolori della guerra e della morte, educato a considerare il campo di battaglia come la gloriosa anticamera per il mondo degli dei.

    Ora Andag, con la barba ancora umida di birra, dormiva con la testa reclinata sullo schienale della sedia di legno. Era una sedia scomoda, ma imponente e maestosa, come si addiceva a un vero capofamiglia, ed era anche l’unica sedia di tutta la casa, perché i familiari utilizzavano semplici panche addossate alle pareti, oppure si sedevano direttamente a terra.

    Nonostante l’eccezionale maltempo, la casa teneva bene e non sembrava aver bisogno dell’intervento di Andag. Era un’abitazione bassa e lunga, costruita con legno, argilla e zolle di terra. Una sola porta, ricavata su un lato maggiore, si apriva su un unico spazio comune: nessuna divisione interna, e nessuna finestra. In fondo dormiva l’intera famiglia, su pelli e mucchi di paglia poggiati sul pavimento di assi, riscaldata da un fuoco sempre acceso. Un’apertura sul tetto serviva, a volte senza risultati apprezzabili, a far fuoriuscire il fumo. Al centro, vicino al falò, una tavola rettangolare veniva montata su quattro alti ceppi, e smontata quando non serviva. Sul lato corto, infine, stava il bestiame, con il muso rivolto verso la parete: preziosa fonte di cibo, di pelle, di latte e, specie in periodi come quello, di calore.

    In quel momento, in migliaia di case di tutto l’Himberland si stava vivendo la stessa scena: una dura sfida alle forze della natura, una silenziosa complicità nel lavoro, un’intimità quasi animale.

    La casa di Andag, a differenza di molte altre nello stesso villaggio, sembrava di roccia, ma Hiwa non era del tutto serena mentre il padre dormiva: il fratello maggiore, Bidawar, non era ancora rientrato. La cosa di per sé non era preoccupante, perché, soprattutto negli ultimi tempi, Bidawar amava uscire a cavallo con i coetanei alla ricerca di selvaggina e di improbabili avventure. Gli capitava spesso di percorrere miglia e miglia senza fermarsi, per poi trascorrere la notte in una foresta, magari cantando con gli amici intorno al fuoco. Era così che ogni ragazzo diventava uomo.

    Ma quella sera no, pensava Hiwa, non con quel finimondo. Forse era successo qualcosa, forse il fratello aveva bisogno di aiuto.

    Negli ultimi tempi accadeva spesso che branchi di lupi affamati attaccassero l’uomo, anche in prossimità dei centri abitati; una palude, ingrossata e resa irriconoscibile dalla pioggia, poteva inghiottire un intero gruppo di cavalieri in pochi secondi.

    Mille insidie si nascondevano là fuori, nel buio.

    Un colpo forte, un secondo, poi un terzo ancora.

    Qualcuno bussò alla porta, e Hiwa si precipitò a sfilare il paletto di legno, pronta ad abbracciare il fratello. Fu un movimento così svelto che nessun altro fece in tempo ad anticiparla; chi era sveglio girò appena la testa, mentre Andag portò una mano agli occhi ancora chiusi.

    Ma quell’uomo non era Bidawar.

    Avvolto nel lungo mantello che gli copriva anche la testa, fece un passo avanti e si richiuse la porta alle spalle. Hiwa con un grido arretrò verso il centro della casa.

    Lo sconosciuto allora si liberò del mantello, e avanzando ancora diede modo a tutti di osservare il proprio volto alla luce del fuoco. Due occhi chiari, penetranti; i capelli stranamente corti, di un rosso intenso, come la barba ispida che gli incorniciava il viso; un fisico imponente e minaccioso. Solo una sottile ruga al centro della fronte tradiva i suoi quarant’anni di età e, notò Hiwa, un certo senso di tristezza.

    «Che gli dei ci proteggano!» esordì, rompendo un silenzio carico di tensione. «Il cielo ci sta cadendo sulla testa!»

    Nessuno lo riconobbe.

    Poi Andag, che nel frattempo aveva finito di svegliarsi, strizzò gli occhi per vedere meglio ed ebbe un sussulto.

    «Non sei il benvenuto, Bera» disse mettendosi in piedi.

    «Non mi aspettavo di esserlo» ribatté l’uomo con calma.

    «E allora perché sei qui?»

    «Se ho bussato alla tua porta, è per un motivo più importante di quanto tu possa immaginare» fece Bera, gettando un’occhiata ai ceppi vicino alla parete, per rendere evidente l’intenzione di fermarsi ed essere ascoltato.

    Andag sospirò. «Siediti, allora.»

    Lo schiavo afferrò il più alto tra i ceppi, e lo sistemò di fronte al capofamiglia. Insieme ai presenti, poi, si ritirò nella zona più distante della casa senza far domande.

    Hiwa abbassò lo sguardo, sperando di poter restare; dopo qualche secondo, però, capì che il padre stava aspettando che se ne andasse e perciò raggiunse i fratelli, già distesi al buio tra le pelli. Dal suo angolino, comunque, avrebbe potuto ascoltare ogni parola.

    Nonostante fosse una visita inaspettata e sgradita, Andag non poté ignorare le più elementari regole di ospitalità. Accogliere e dissetare il viaggiatore: questi precetti erano sacri e antichi come i fiumi e le foreste, e nessuno avrebbe mai osato disattenderli.

    Il padrone di casa perciò fece un cenno allo schiavo, e questi si diresse verso la porta. Bera, che aveva capito le sue intenzioni, lo fermò con il braccio teso.

    «Grazie» disse, «ma il mio cavallo è abituato alla pioggia e al freddo. Farlo entrare servirebbe solo a innervosire le altre bestie.»

    Andag, come sempre cupo e silenzioso, lo rimandò indietro con un altro cenno del capo; poi sollevò la piccola botte piena di birra e riempì il corno che l’ospite aveva prontamente sganciato dalla propria cintura. I due bevvero senza mai staccare gli occhi l’uno dall’altro, poi poggiarono i corni vuoti sul tavolo.

    «Si stanno muovendo, Andag» disse Bera con espressione grave, «si stanno muovendo tutti.»

    «Di chi stai parlando?» fece l’altro socchiudendo gli occhi.

    «I Cimbri! Migliaia di uomini, donne, bambini stanno abbandonando i villaggi in tutto il nord, e presto si muoveranno tutti insieme verso meridione. Tutti i Cimbri, Andag, tutti insieme!»

    Il padrone di casa restò in silenzio, così l’altro proseguì.

    «Le piogge sono quasi cessate, lassù; ma la situazione questa volta è disperata. Il mare ha invaso la costa per miglia e miglia, le paludi ricoprono buona parte dei campi. Non c’è più terra per tutti, e anche il bestiame è decimato.» L’uomo tradiva ora una certa emozione. «No, questa non è come le altre volte. Gli dei del cielo e del mare non hanno lasciato scampo: bisogna cercare nuove terre da coltivare, nuovi pascoli per nutrire gli animali. Il nostro popolo parte, Andag. Per sempre.»

    Andag raddrizzò il capo, e si irrigidì.

    «Il nostro popolo? Di quale popolo stai parlando? Bera, io ho una famiglia, un villaggio, una tribù. Conosco centinaia di uomini che abitano nelle case qui intorno, e oltre il bosco di Thastrisel, e anche sulle colline; con loro fatico ogni giorno per ricavare cibo da questa terra, con loro prendo le decisioni più importanti, con loro prego Donar perché ci difenda dai nemici. Ho una tribù, non un popolo. E tu dovresti saperlo bene.»

    Bera inghiottì amaro, perché l’uomo non gli aveva risparmiato l’allusione a un passato che li accomunava, allargando una dolorosa ferita tutt’altro che rimarginata. Serrando le mascelle, decise di continuare.

    «I Cimbri sono il nostro popolo, dal mare fino a questa casa, e oltre ancora. Se abbiamo combattuto qualche volta fra di noi, è perché non c’è abbastanza spazio per tutti; abbiamo lottato per strapparci a vicenda un pezzo di terra sempre più piccolo e sempre meno fertile. Ma ora andiamo dove il sole scalda tutto l’anno, Andag, e ci andiamo tutti insieme.» Non gli lasciò il tempo di replicare. «Abbiamo già un uomo che comanda la spedizione, un rik dei rik; si chiama Leugast e proviene da uno dei villaggi più settentrionali. La sua tribù è stata una delle prime a essere minacciata dalle acque in piena. Ha radunato i suoi e si è spostato verso gli altri villaggi; solo che questa volta non ha lanciato i suoi guerrieri a compiere razzie, ma ha convocato un thing. Non è stata la solita riunione, Andag: nessuno ricorda un’assemblea del popolo così grande!»

    «Ma tu non c’eri, naturalmente...» lo freddò Andag, con disprezzo.

    «Naturalmente.» L’uomo incassò il colpo, sospirando. «Ma il racconto di quella sera è passato veloce di bocca in bocca, in tutta la terra di Thastris. Leugast non ha fatto grandi discorsi: ha semplicemente proposto una migrazione.»

    Ci fu un momento in cui il temporale sembrò cessare, e il silenzio scese su quella casa sperduta nella brughiera.

    Anche i ragazzi, nascosti nel buio, compresero che quei discorsi avrebbero potuto cambiare la loro vita.

    «Che cosa significa una migrazione, Bera?» L’uomo tradiva nella voce un filo di disperazione, perché già immaginava la risposta. «Che cosa significa una migrazione

    «Te l’ho detto prima: tutti i Cimbri partono insieme, per non tornare più. Grande Donar! Non è una spedizione primaverile per far bottino, non è una scorribanda di giovani appena diventati guerrieri. Si muovono famiglie intere, con tutto il bestiame. Bruciano le case alle loro spalle e le donne che non appartengono a nessuno vengono sacrificate a Wodan. Non rimarrà nessuno, a eccezione di qualche gruppo di folli, che preferisce marcire in queste paludi, e di qualche vecchio, che non ha chiesto di essere ucciso come gli altri.»

    Andag scosse la testa.

    «Per quanto mi riguarda, quando cesserà il maltempo tutto tornerà come prima.»

    «Nulla tornerà come prima, non lo capisci?! Non crescerà più un filo d’erba, né per te né per le tue bestie. Fidati di me.»

    Bera si accorse subito d’aver pronunciato una parola da evitare.

    Andag si alzò di scatto e affrontò Bera a muso duro.

    «Vattene, ora, che Wodan ti maledica!»

    «Che Wodan protegga te, Andag. Tu hai una famiglia.» Poi, gettando uno sguardo triste verso il fondo della casa, si avvicinò alla porta. «Tu hai una famiglia» ripeté, e uscì senza aspettare una replica.

    Fuori il vento ululava ancora, e uno spruzzo d’acqua riuscì a entrare prima che lo schiavo potesse serrare la porta dall’interno. Subito dopo, si sentì uno scricchiolio provenire dall’alto. La copertura posta appena sopra il livello del tetto, destinata a proteggere il buco dal quale fuoriusciva il fumo, si era mossa pericolosamente.

    Andag picchiò i pugni sul tavolo, e bestemmiò; lo schiavo, impressionato da quello scatto d’ira, si avventurò fuori per controllare la situazione dall’esterno.

    Ma l’uomo non era affatto preoccupato per la propria casa. Era stata quella visita inaspettata a tormentarlo, a fargli tremare i polsi dalla rabbia. Andag non era fatto per i duelli verbali, tanto meno con persone del genere di Bera; ogni parola, con lui, aveva un senso particolare, evocava un ricordo, causava un dolore.

    Avrebbe preferito risolvere tutto a colpi di spada, come ogni uomo rispettabile della sua stirpe; lo avrebbe fatto senza indugi, se non fosse stato per quell’intreccio di legami e oscuri segreti, che neanche la lama più affilata avrebbe mai potuto recidere.

    Si distese sopra un mucchio di pelli, in posizione fetale. Non si aspettava di prendere sonno; le parole di Bera gli risuonavano in testa senza concedergli pace.

    E il figlio Bidawar non era ancora rientrato.

    II

    " Il proconsole Gaio Sestio, dopo aver sconfitto il popolo dei Salluvi, fondò una colonia ad Aquae Sextiae, così chiamata dal suo nome e dall'abbondanza di acque che sgorgavano da fonti calde e fredde." (Livio, Periochae)

    Piana del Rodano – 122 a.C. (due anni prima)

    Publio Valerio Corvino entrò nella sua tenda, buttò la spada in un angolo e, senza neanche spogliarsi, si slacciò i calzari e prese a massaggiarsi i piedi: era stanco e sperava di non avere altre seccature prima di andare a dormire.

    In realtà la sua non era stanchezza fisica, ma un misto di insoddisfazione e nervosismo: non ne poteva più di quella campagna militare, la cui fine sembrava tutt’altro che vicina.

    L’obiettivo iniziale era stato quello di dare una bella lezione agli Arverni, dei quali mercanti e studiosi a Roma magnificavano la prosperità e la ricchezza. Avrebbe dovuto trattarsi di un boccone relativamente facile da masticare e tutti si erano arruolati con trepidazione, attratti da un bottino da favola.

    Il console Marco Fulvio Flacco, però, appena al di là delle Alpi, aveva dovuto fare i conti con altre tribù celtiche, che non avevano alcuna intenzione di ospitare migliaia di legionari nelle proprie terre. Non che la cosa preoccupasse più di tanto il comandante: si trattava di gente tosta, selvaggia, ma Roma era Roma e il suo esercito non temeva confronti.

    I Salluvi, nella valle della Durance, erano stati sbaragliati senza grosse perdite e la stessa sorte era toccata ai Voconzi, un po’ più a settentrione.

    Ora però il successore di Flacco, Caio Sestio Calvino, si trovava in una fase di stallo nello scontro con una tribù ancora diversa, di certo più temibile delle precedenti: gli Allobrogi.

    La piana del Rodano, insieme alle valli dei suoi affluenti, era ormai agitata come un formicaio, a causa della presenza romana. Nella valle dell’Isère si stava organizzando una fastidiosa resistenza, resa più agguerrita da una certa forma di solidarietà, che stava prendendo corpo tra le tribù locali. I Celti, avendo capito che era meglio evitare ogni scontro frontale con le legioni, temporeggiavano. Gli Arverni, dal canto loro, preferivano non farsi coinvolgere, almeno fino a quando la situazione non avesse preso una piega pericolosa.

    I Romani sarebbero dovuti scendere a patti con quella gente, prima o poi.

    O almeno così la pensava Publio Valerio Corvino, tastandosi la coscia destra come al solito dolorante.

    Lui però non aveva voce in capitolo: era un ufficiale di cavalleria, costretto ad attenersi alle decisioni dei tribuni e del console. Ed era proprio quest’ultimo a tenere in scarsa considerazione il ruolo della cavalleria, relegando il suo comandante in una posizione quasi insignificante. Il suo posto, beninteso, avrebbe fatto gola a molti: comandava uno squadrone di cavalieri, tutti affiatati e fedeli, e lo faceva in modo semplicemente perfetto. Ma quella carica, a quasi trent’anni di età, gli stava troppo stretta. Era pur sempre un Corvino, della gens Valeria, anche se per via adottiva.

    Suo zio lo aveva fatto ammettere, più di dodici anni prima, al seguito di Scipione Emiliano, durante l’assedio di Numanzia, in Spagna. Allora era un diciottenne di belle speranze, alto più della media e ben più muscoloso dei suoi coetanei, con la mascella squadrata e lo sguardo fiero di un veterano. Aveva tutte le carte in regola per una carriera folgorante.

    Le cose tuttavia non erano andate per il verso giusto.

    Una rovinosa caduta da cavallo, di cui portava ancora un tangibile ricordo, e una serie di incomprensioni con i superiori avevano compromesso ben presto le sue aspirazioni.

    Anche i suoi influenti congiunti a Roma, indispettiti dai continui rapporti sul suo carattere irrequieto e del tutto refrattario alla disciplina, gli avevano fatto mancare il loro appoggio.

    Nonostante le eccellenti qualità di combattente, che negli anni successivi lo avevano reso un ufficiale apprezzato e richiesto, ora si trovava fuori dal giro. Molti suoi colleghi, più giovani e sicuramente meno dotati, erano partiti subito dalla carica di tribuno militare, il che significava dover rispondere soltanto al console, in attesa di scalare in fretta tutti i gradini della carriera.

    Lui, invece, pur essendo un rispettabile ufficiale superiore, continuava a esser trattato come un qualsiasi ragazzotto arricchito dell’ordine equestre.

    Mentre si tormentava la gamba con le mani e il cervello con i soliti rimorsi, Corvino vide aprirsi l’ingresso della tenda. Si fece avanti un uomo grosso quasi quanto lui, ma con due polpacci incredibilmente gonfi come otri di pelle.

    «Entra, polpaccione» fece l’ufficiale rimanendo seduto, per nulla a disagio a causa della visita inattesa.

    Era Scevio, un mulio, cioè un semplice palafreniere: era anche però il suo unico, vero amico in tutto l’accampamento. I legionari di guardia lo conoscevano bene e avevano l’ordine di farlo passare, sebbene quella confidenza tra soldati di rango così diverso destasse qualche perplessità, e anche qualche risatina ironica, tra i colleghi.

    «Non dirmi che non hai tempo per due chiacchiere, faccia di pietra!» esordì l’ospite nella penombra.

    Scevio si mise a sedere in terra. Era una tiepida serata primaverile e fuori non si sentiva altro che un sommesso vocio proveniente dalle sentinelle della tenda consolare.

    «Come stanno i tuoi cavalli, Scevio?»

    «I cavalli? Bene, grazie. Se non fosse per certi loro padroni imbecilli...»

    Corvino alzò il pugno fingendosi minaccioso. «Bada a come parli, stalliere!» Poi scoppiò a ridere insieme all’amico. «Hai proprio ragione, ragazzo. L’esercito è pieno di imbecilli; e più sali di grado, più ne trovi.»

    «Ahia» fece Scevio, «ci siamo!»

    L’ufficiale se la prendeva spesso con l’inettitudine di alcuni colleghi; ogni scusa era buona per parlarne.

    Scevio lo sapeva, e per questo lo aveva provocato: quella sera voleva godersi un po’ di insulti ben confezionati.

    «E questa volta siamo messi peggio del solito» riprese Corvino, facendo finta di non aver sentito. «Non hai idea di quante femminucce abbia visto diventare di colpo tribuni, senza nemmeno essere in grado di reggere in mano una spada. Per non parlare di certi cavalieri, che sbattono in faccia ai censori una montagna di sesterzi, restituiscono il cavallo pubblico ed entrano in Senato come se fosse sempre stato casa loro.»

    «Verrà anche il tuo momento, Corvino, vedrai.»

    «No, amico, il mio momento è già passato. La mia occasione era in Spagna, a Numanzia, e me la sono giocata.»

    Il tono dell’ufficiale si era fatto triste, più che arrabbiato. Scevio se ne accorse e sospirò, cercando di adeguarsi allo stato d’animo dell’amico.

    «Altri tempi, quelli di Numanzia, eh?»

    «Altri tempi davvero. E altra gente. Beh, anche allora l’esercito era pieno di cattivi soldati e pessimi ufficiali: alcuni di questi mi hanno rovinato la carriera... Però il comandante era l’Emiliano: Roma non ne avrà mai più come lui, stanne certo.»

    Si riferiva a Publio Cornelio Scipione Emiliano, che, dopo aver ottenuto il secondo consolato in barba alla legge, in soli quindici mesi aveva posto fine alla lunghissima resistenza dei Numantini.

    Corvino aveva già raccontato all’amico di come il generale avesse raddrizzato la spina dorsale di tanti legionari, che si erano abbandonati alla dissolutezza e all’abbraccio delle prostitute. Numanzia era stata assediata, affamata e infine rasa al suolo.

    Ancora una volta il giovane mulio si apprestava ad ascoltare quei ricordi appassionati, e ne era contento. Aveva imparato molte cose dall’ufficiale durante quella campagna: racconti militareschi, scenari politici, persino pettegolezzi. Corvino era un uomo brillante, valoroso e caparbio; era un privilegio averlo allo stesso tempo come superiore e come amico.

    «Hai più visto qualcuno dei tuoi commilitoni, dopo di allora?»

    «Qualcuno, sì. Quel Gaio Mario, ad esempio. Sentiremo ancora parlare di lui, Scevio. Avresti dovuto vederlo all’opera: sembrava nato per la guerra! Sono sicuro che da piccolo si esercitasse già all’arte del comando, invece di giocare con le noci. Se solo lo avessi visto, capiresti cosa intendo.»

    Un refolo d’aria più fredda entrò nella tenda, e Scevio fu colto da un brivido. Scosso dal tono serio dell’amico, gli disse in modo solenne:

    «Anche tu sei nato per il comando: i tuoi cavalieri si getterebbero nel fuoco per te.»

    Corvino sembrò risvegliarsi, e si alzò di scatto.

    «Ora vai, polpaccione, o diranno tutti che sei la mia concubina.»

    Il giovane sorrise e uscì in silenzio.

    Corvino si accorse di avere ancora l’uniforme addosso; ma la sua giornata era tutt’altro che finita. Poco dopo infatti l’ingresso della tenda si aprì di nuovo e, nonostante il buio, l’uomo riconobbe subito una figura bassa e tozza: c’erano seccature in vista, stavolta.

    Era Marco Minucio Blando, tribuno militare, un tirapiedi del console. Si trattava del personaggio più sgradevole di tutto l’accampamento, per via di quel modo di fare altezzoso e sprezzante, che Corvino proprio non riusciva a digerire.

    L’odio tra i due era noto a tutti.

    I legionari, potendo scegliere, avrebbero sicuramente preso a calci nel sedere il tribuno; Blando se ne rendeva conto e per vendetta, in più di un’occasione, aveva inoltrato ai superiori rapporti non proprio lusinghieri sul comportamento dell’ufficiale.

    Come al solito non si degnò di salutare.

    «Chi ti credi di essere, Corvino? Davvero pensi che io non senta le battute dei tuoi cavalieri?»

    L’ufficiale di cavalleria cercò di mantenere un certo contegno, prendendo un largo respiro.

    «Non so a cosa ti riferisci, tribuno...»

    Blando barcollò un poco, spostando il peso da un piede all’altro.

    Per tutti gli dei, è ubriaco! pensò Corvino. Ecco da chi siamo comandati, da un sacco di letame, che non si sa neanche trattenere davanti a una coppa di Falerno.

    «Per tua conoscenza, tu sei a capo soltanto di un’ala di cavalleria, non dell’intero esercito. Non pretenderai di farti acclamare imperator sul campo, vero?» lo provocò il superiore.

    «E come potrei?» Corvino cercava le parole più adatte per evitare di insultarlo apertamente. «Le nostre legioni sono già piene di comandanti valorosi che attendono di celebrare un meritato trionfo.» Forse sarebbe stato meglio dargli subito dell’idiota.

    Blando barcollò di nuovo, e pizzicando con due dita una guancia dell’interlocutore, gli sbuffò in faccia il suo alito fetido.

    «Il tuo console non apprezzerà la tua ennesima battuta, soldato. Dovresti imparare la disciplina, prima di pretendere di insegnarla ai tuoi sottoposti.»

    Corvino arretrò con prudenza.

    «Vattene ora, ne parleremo domani. Sei ubriaco.»

    Ma il tribuno non era ancora soddisfatto:

    «Forse non hai capito, gigante senza cervello!» La sua voce si stava alterando in modo pericoloso, e somigliava al lamento capriccioso di un bambino. «Tu mi devi portare rispetto, hai capito, ri-spet-to! Ficcatelo bene in questa tua testolina vuota.» E prese a picchiettargli la fronte con un dito.

    Era la seconda volta che Corvino si sentiva toccare da quelle mai unte. La sua capacità di sopportazione era ormai al limite, ma non fece altro che sottrarsi al contatto.

    Il tribuno però ripeté il gesto, e Corvino dovette allontanarlo con una manata.

    Marco Minucio Blando non aspettava altro.

    «Apri bene le orecchie, soldato. Da domani assumerò personalmente il comando della tua squadra.»

    «Non puoi farlo.»

    Corvino sentiva le tempie pulsare.

    «Sì che posso. Lo faccio per il bene dell’esercito, ovviamente, visto che ci sono seri rischi di insubordinazione. Il tuo console è già d’accordo, quindi non vale la pena di andare a piagnucolare da lui. Ma non ti preoccupare: potrai sempre comandare i tuoi cavalli, dentro il recinto, di notte. Così avrai più occasioni per stare insieme al tuo amato mulio ...»

    La faccia del tribuno non ebbe il tempo di passare dal ghigno all’espressione di dolore. Il pugno rabbioso di Corvino era arrivato tra naso e denti.

    Neanche l’ufficiale l’aveva visto partire: il suo braccio era scattato senza che il cervello potesse trattenerlo.

    Il corpo di Blando si sollevò addirittura da terra, poi ricadde con un tonfo. Un attimo dopo, la sua testa era in un lago di sangue.

    Corvino restò come paralizzato. Forse era stata una pietra nascosta nel terreno a uccidere il tribuno, o forse direttamente il suo pugno. Comunque, non aveva importanza.

    Morto, morto, morto.

    Corvino sentì un rivolo di sudore scorrergli lungo la schiena. Per quanto non provasse alcun rimorso per la sorte di quell’essere, comprendeva di averla combinata grossa: di fronte al cadavere di un tribuno, ucciso in assenza di testimoni, a nulla sarebbero valsi i tentativi di giustificarsi, di simulare un’aggressione, o di raccontare le cose così come erano andate. L’avrebbe pagata cara. L’unica soluzione era fuggire, e farlo in fretta, prima che qualcuno si accorgesse della scomparsa di Blando.

    L’ufficiale raccolse alcuni oggetti nella tenda e uscì all’aria aperta.

    Approfittando dell’oscurità, Corvino si mosse verso una delle porte principali dell’accampamento, che era distante non più di duecentocinquanta piedi. Arrivato nei pressi delle tende occupate dalla fanteria alleata, però, riuscì a scorgere i legionari di guardia e si irrigidì: erano uomini di Blando, non lo avrebbero lasciato passare senza fargli domande. La semplice parola d’ordine del giorno non sarebbe bastata.

    Si voltò indietro, con lentezza, per non attirare l’attenzione. C’era già qualcuno davanti alla sua tenda, e sembrava intenzionato ad aspettarlo. Il cuore iniziò a pulsargli con violenza: forse avevano già scoperto tutto. Imponendosi di restare calmo, l’ufficiale decise comunque di rientrare; se qualcuno aveva trovato il cadavere di Blando, non sarebbe servito a nulla nascondersi.

    In caso contrario, sarebbe stato necessario studiare un piano per la fuga.

    III

    " Conoscono un solo genere di spettacolo, uguale per ogni tipo di riunione: giovani nudi danzano per divertimento tra spade e framee minacciose." (Tacito, Germania)

    Confini meridionali dell’Himberland – 120 a.C.

    Quasi tutti gli uomini di Sysla si svegliarono nello stesso momento. Non era stato un rumore, ma l’esatto contrario: dall’esterno non proveniva più alcun suono, una strana luce filtrava attraverso le fessure nelle pareti. Il sibilo del vento, il costante tamburellare della pioggia sui tetti, lo scricchiolio delle travi di legno sotto il peso dell’acqua: nulla di tutto questo si sentiva più. Anche gli odori erano diversi, più piacevoli e frizzanti.

    I bambini furono i primi a scoprire il villaggio inondato dal sole e iniziarono a giocare in quella che era diventata ormai un’unica, enorme, pozzanghera.

    Uomini e donne furono subito contagiati dal buonumore dei figli e si lasciarono andare a qualche spontaneo gesto di esultanza.

    «A caccia, a caccia!» urlava un giovane sui quindici anni, tuffandosi in un fosso dove l’acqua melmosa raggiungeva le ginocchia. Altri ragazzi, completamente nudi, lo imitarono di slancio sotto gli occhi divertiti degli adulti, mentre qualche fanciulla si fermava ad ammirare quei corpi agili e muscolosi. Dalle capanne, nel frattempo, iniziava a uscire il bestiame, sospinto da mani esperte alla ricerca di spazi più ampi e magari asciutti.

    Un bambino saltò a cavalcioni sopra un bovino smunto e intirizzito, lasciandosi poi cadere dall’altra parte nel fango; ne seguì una caotica battaglia di spruzzi e spintoni tra ragazzi di età diverse. Le bestie, invece di formare greggi ordinate, si dispersero all’interno del villaggio, impantanandosi dove l’acqua e i detriti formavano vere e proprie paludi.

    Due uomini, che avevano approfittato della baldoria per ubriacarsi già di primo mattino, iniziarono a cantare e a darsi spallate con forza sempre maggiore, finché uno dei due, gigantesco come ogni cimbro, crollò sul corpo di una pecora che per sventura si trovava a passare da quelle parti. Ci fu una risata generale, accompagnata da un rumoroso fuggifuggi degli animali, alcuni dei quali stavano già oltrepassando il basso e malconcio recinto posto attorno al villaggio.

    Questi erano i Cimbri: un popolo di contadini, allevatori e, in certe zone, anche di pescatori; gente dalle usanze semplici, abituata a tener duro nei frequenti momenti di difficoltà e a lasciarsi andare nei giorni di festa. Gente allegra, vivace, spesso rissosa.

    Vivevano in piccole e numerose tribù, separate tra loro da boschi e paludi. I legami all’interno delle comunità erano assai forti, ma fitta era anche la rete di rapporti tra i diversi villaggi, cosicché si poteva tranquillamente parlare di un unico, grande popolo. Il Chersoneso Cimbrico, come lo avrebbe battezzato qualche straniero, era il loro territorio: nient’altro che una lunga e sottile penisola, protesa nei freddi mari del nord.

    Lungo le coste la pesca era la maggior risorsa, anche se il mare chiedeva sempre e comunque un grande tributo di vite umane. All’interno invece, con un duro lavoro e con i sacrifici a Nerthus, si cercava di strappare alla terra il necessario sostentamento.

    I Cimbri crescevano insieme ai loro animali, che fornivano loro tutto ciò che serviva. Praticavano anche la caccia, ma da essa non si aspettavano certo di far dipendere la propria sopravvivenza. Era quasi un esercizio, amato dai più giovani e tramandato dagli adulti; nessuno però avrebbe mai scambiato una sola, ma sicura, manciata di avena con la promessa di un’abbondante selvaggina.

    Avere un buon fabbro nel villaggio era poi assai più importante che schierare un’intera squadra di cacciatori, perché significava poter costruire migliori ripari dal freddo e soprattutto carri abbastanza robusti da garantire frequenti viaggi, per scambiare cibo e altri beni con le diverse comunità.

    Il villaggio di Sysla era senza pesce da settimane, perché nessuno in tutto l’Himberland era in grado di effettuare spedizioni commerciali. In condizioni normali era già pericoloso muoversi con i carri, su sentieri appena segnati che spesso si perdevano tra le paludi; ora era diventato rischioso anche cavalcare, o andare semplicemente a piedi.

    Per questo i primi raggi di sole avevano scatenato l’indole allegra e indisciplinata dei Cimbri. Al di là di tutto, era proprio la possibilità di riprendere i contatti con gli altri villaggi a infondere nei loro animi un’incontrollabile voglia di far festa.

    Come in ogni altro insediamento, tuttavia, a Sysla c’era un uomo che si stagliava su tutti, per carisma, autorità e saggezza. Quest’uomo non era affatto disposto a esultare.

    Andag era ancora il capo indiscusso, sebbene dentro di lui qualcosa si fosse spento da tempo. In una struttura sociale piatta come quella dei Cimbri, priva di figure di comando riconosciute in modo formale, almeno in tempo di pace, solo uomini come lui riuscivano a farsi rispettare con un’unica parola o spesso con una semplice occhiata.

    Il capo apparve sull’uscio della sua grande casa e lì si fermò qualche istante, per dar modo ai suoi occhi di abituarsi alla luce e per consentire alle membra di risvegliarsi dopo un sonno iniziato da poco e già bruscamente interrotto. Non era stata una nottata facile per Andag, inquieto per le notizie portate da Bera e per l'inspiegabile assenza del figlio maggiore.

    Quando a poco a poco si rese conto di ciò che stava accadendo e gli schiamazzi dei compaesani gli giunsero ben distinti alle orecchie, si irrigidì e mosse a lunghe falcate verso il punto dove gli abitanti del villaggio in festa erano più numerosi.

    Qualcuno, accorgendosi della sua comparsa, ammutolì all’improvviso e richiamò l’attenzione dei compagni più distratti. Suo figlio Niuw, ancora in preda all’entusiasmo, corse invece proprio in direzione del padre. Il suo vero nome era Niuwila, ma tutti lo chiamavano più semplicemente Niuw; non aveva ancora compiuto i quindici anni, eppure si sentiva il campione della famiglia. Alto e magro, con il fisico ancora acerbo e sproporzionato come tutti gli adolescenti, agitò le lunghe braccia in segno di gioia.

    «Finalmente, padre! È un gran giorno!» Arrivato al cospetto dell’uomo, ansimò leggermente per la corsa e per l’eccitazione. «Dichiara l’inizio della caccia, e mandami per primo. Non ti deluderò, vedrai!»

    Andag non cambiò neanche passo. Con una manata spinse il figlio direttamente a faccia in giù nel fango, e proseguì verso la folla di persone che nel frattempo stava accorrendo per la curiosità.

    Un altro cimbro, questo invece di enorme stazza, con i capelli lunghi e stopposi che gli ricadevano ben al di sotto delle spalle, lo salutò senza uscire dal gruppo:

    «Benvenuto, Andag! Allegro come al solito, non è vero?» e continuò con una risata, che pochi tra i suoi amici accompagnarono con scarsa convinzione.

    Andag, dando quasi l’impressione di non aver sentito, continuò con la stessa falcata fino ad arrivare a pochi piedi dal gruppetto di Cimbri che si trovavano lungo la sua direzione, e li guardò negli occhi. Poi scartò su un lato, e a testa bassa si mosse lungo la fila di persone che, disposte a semicerchio, stavano assistendo alla scena. Giunto all’altezza del gigante che lo aveva provocato, non sollevò neanche lo sguardo; lo prese per il collo e, passando una gamba dietro la sua schiena, con uno sgambetto gli fece perdere l’equilibrio. Come se si trattasse di un fuscello, afferrò le

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