Gens Vaga: Quando Cimbri e Teutoni fecero tremare Roma
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Cimbri e Teutoni, forse a causa di una serie di catastrofi naturali e comunque spinti dal desiderio di raggiungere una nuova “terra promessa”, partono dallo Jutland intorno al 120 avanti Cristo.
Discendono il corso dell’Elba, sono respinti dai Celti Boi, e nell’anno 113 vengono a contatto con i Romani, nell’attuale Austria. È l’inizio di una scorribanda che sconvolgerà l’Europa intera, fino a minacciare la potenza capitolina.
Non possiamo sapere cosa sarebbe successo se non fosse intervenuto Gaio Mario, homo novus, a prendere in mano le redini dell’esercito romano.
Resta il fatto che la guerra cimbrica è uno dei conflitti più pericolosi, e inspiegabilmente meno trattati, di tutta la storia di Roma.
Le parole dei grandi storici, da Plutarco a Mommsen, da Livio a Valgiglio, conferiscono a questa vicenda una connotazione epica, romantica, indimenticabile.
È una storia che non si può ridurre a quel breve cenno che compare sui libri di scuola, perché grandi sono i suoi protagonisti.
Parva nunc civitas, sed gloria ingens, ci ricorda Tacito. Un popolo ora insignificante, ma ricco di gloria.
Maggiori informazioni https://aporema-edizioni.webnode.it/products/gensa-vaga-di-luigi-mattioli/
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Anteprima del libro
Gens Vaga - Luigi Mattioli
madre
1
Nel momento decisivo, i Liguri
L'epopea dei Cimbri e dei Teutoni, collocata nell'arco temporale di un ventennio (dal 120 al 101 a.C.), si presta in modo eccellente a quel gioco letterario, che molti fanno assurgere a vero e proprio genere, chiamato ucronía .
Cosa sarebbe successo se la Germania nazista avesse vinto la seconda guerra mondiale? E se Leonida non avesse respinto i Persiani alle Termopili? Se Garibaldi fosse affondato al largo delle coste siciliane?
Immaginare una storia mai esistita, un mondo senza tempo
, può essere un'avventura affascinante, vissuta con i piedi nella Storia e la testa nella pura Fantasia.
In pochi forse si sono interrogati su quelle che sarebbero state le sorti di Roma nel caso in cui i Cimbri e i Teutoni, popoli di stirpe germanica, avessero vinto anche le ultime resistenze, invadendo la penisola italica ormai indifesa. Eppure, mai come in quella circostanza Roma Caput Mundi rischiò di sparire dai libri di storia, proprio nel pieno della sua crescita politica, civile e militare.
Vero è che i Romani avevano già subito l'umiliazione della sconfitta sul suolo patrio. La clades gallica del IV secolo a.C. si perde nelle nebbie del tempo, documentata da Livio, Plutarco e Diodoro Siculo, e impressa a fondo nella memoria collettiva grazie alle figure di Brenno, Marco Manlio e Camillo.
Sì, i Galli arrivarono fino al cuore pulsante dell'Urbe, il Campidoglio: erano pronti a far valere il diritto del più forte, ma il salvifico intervento di Camillo rovinò la festa, lasciando ai posteri un episodio pregno di retorica, di eroismo, di nobili valori.
I Galli di Brenno [¹] e i Romani di Marco Manlio avevano trovato un accordo sul riscatto: mille libbre d'oro, secondo la tradizione. Non era previsto che gli invasori provassero a barare sulla pesa e le proteste dei Romani provocarono la prepotente reazione di Brenno: " Vae victis ", guai ai vinti, disse questo gettando la spada sulla bilancia.
L'irruzione improvvisa di Camillo (" non auro sed ferro recuperanda est patria " [²] ), a seguito della quale i Galli vennero sconfitti e si ritirarono per sempre, è messa in discussione dagli storici moderni [³] , i quali vedono in questo episodio un romantico tentativo di preservare l'onore di Roma e il mito della sua invincibilità. In realtà i Galli non avevano alcuna intenzione di occupare Roma in modo stabile, anche perché nel frattempo i loro territori erano minacciati dai Veneti.
Insomma, i Galli a Roma erano scesi senza portarsi le valigie, quasi per caso. Come narra Diodoro, erano stati gli ambasciatori romani a ficcare il naso a Chiusi, dove i Galli erano allegramente venuti alle mani con gli Etruschi, attirando così l'attenzione dei barbari nei confronti dell'urbe. Il sacco di Roma avvenne dunque a opera di un popolo che, avendo invaso da poco la pianura padana, nel Lazio alla fine si era accontentato di un congruo bottino.
Altro periodo cruciale per le sorti della terra italica fu la seconda guerra punica, alla fine del III secolo avanti Cristo (la prima si era combattuta lontano da Roma, perlopiù in mare, e comunque tra Africa e Sicilia).
Annibale Barca, il predestinato, mise a ferro e fuoco mezza Europa, umiliando i generali romani in ogni battaglia, l'ultima e più sanguinosa delle quali terminò con la celeberrima disfatta di Canne nell'anno 216 a.C.
Fino a quel momento i Cartaginesi avevano dimostrato di poter eliminare in modo definitivo la potenza di Roma. Disse Annibale a Scipione nel drammatico colloquio prima della battaglia di Zama: " totiens prope in manibus victoriam habui " [⁴] , tante volte ebbi quasi in pugno la vittoria.
Non è questa la sede idonea ad analizzare la complessità di quella che fu definita, con un po' di enfasi, la vera prima guerra mondiale dell'antichità. Per quello che qui interessa, possiamo osservare che la sequenza di batoste subite dai Romani nella penisola italica fu tale da far tremare di paura il Senato.
Per tornare al concetto di ucronìa , diciamo pure che forse senza i famosi ozi di Capua [⁵] tutta l'area mediterranea avrebbe conosciuto un lunghissimo periodo di dominazione punica, facendo eclissare per sempre l'ancora acerba repubblica romana.
Veniamo all'invasione germanica, dunque.
Perché i Cimbri e i Teutoni, che più volte sconfissero Roma un secolo dopo Zama, e appena prima della nascita di Giulio Cesare, sono riusciti a ottenere sui nostri libri di storia solo poche righe?
A prima vista, il confronto con la seconda guerra punica è davvero improponibile. Quest'ultima fu uno scontro alla pari tra superpotenze, narrata con dovizia di particolari dai maggiori storici latini. Coinvolse una moltitudine di popoli ed eserciti, sconvolse i traffici e le economie, segnò il vero punto di svolta per l'inesorabile crescita del futuro impero.
Non si può affermare la stessa cosa per la guerra germanica, che tuttavia fu per altro verso ancor più spaventosa. Il motivo è molto semplice, anche se frutto di una visione del tutto personale: Cimbri e Teutoni cercavano la terra promessa. Non pensavano a una supremazia politica, né erano interessati a miniere, industrie e commerci di sorta: volevano solo una terra abbastanza grande per accoglierli tutti in modo stabile, possibilmente non allagata dalle maree o soffocata dalla nebbia. Fecero armi e bagagli, soprattutto bagagli, per lasciarsi alle spalle un luogo che non avrebbero mai più rivisto.
Cosa può esserci di più minaccioso di un popolo, o un insieme di popoli, che si muove in massa spinto dalla speranza di un futuro migliore? Erano una massa di migranti, stipati su carri trainati da buoi anziché sui barconi; però più numerosi, compatti, e soprattutto armati.
È vero, non arrivarono ad portas come i Cartaginesi, ma anche perché in un secolo i confini della repubblica si erano spostati a nord. Se vogliamo divertirci con la fantasia, diciamo che i Cartaginesi avrebbero soggiogato Roma, in caso di vittoria finale.
I Germani l'avrebbero rasa al suolo trasformandola in un grande pascolo erboso.
Qui ci fermiamo con gli arditi raffronti tra epoche diverse (e non ce ne vorrà Porsenna, lucumone degli Etruschi, che fece tremare la piccola Roma alla fine del VI secolo), per concentrarci sull'epopea dei barbari germani.
Prima di ripercorrerla con un minimo di ordine cronologico, tuttavia, andiamo a scovare uno di quegli episodi che possiamo definire come decisivi per le sorti del nostro mondo. Dove individuiamo la fatidica sliding door , il momento in cui una scelta sbagliata avrebbe potuto sancire l'esito nefasto di una battaglia, di un'intera guerra, e infine della civiltà latina?
Occorre un coraggioso salto temporale, fino al 102 a.C. Siamo nella Provenza, non lontano dall'odierna Aix-en-Provence, allora chiamata Aquae Sextiae dal nome del fondatore Gaio Sestio Calvino, che lì aveva posto una roccaforte nell'anno 123, dopo aver sconfitto i Salluvii.
Cimbri e Teutoni hanno scorrazzato in tutta l'Europa per quasi due decenni, senza trovare pace. Hanno ancora fame di terra e neppure la grande Gallia, dopo essere stata messa a ferro e fuoco, può bastare. Troppe foreste, e soprattutto troppi nemici: un guerriero celta dietro ogni albero, una resistenza infiacchita, ma non ancora sconfitta.
Quale può essere la nuova meta, se non l'Italia?
Lì vivono i Romani, quei soldati piccoli e scuri che si sono fatti massacrare in ogni scontro. Sì, la fertile Italia è davvero la terra promessa, ed è ora di conquistarla.
I Teutoni sono nel sud della Francia, pronti a varcare le Alpi Marittime, forse lungo la via litoranea.
I Cimbri sono già partiti per aggirare le Alpi e scendere dalla parte opposta, attraverso il passo del Brennero.
Gli alleati Tigurini intendono andare anche oltre, passando dal confine orientale con la penisola italica.
Ad attendere i Teutoni c'è Gaio Mario, il coriaceo condottiero romano già trionfatore della guerra d'Africa e designato come salvatore della patria. Ha con sé un esercito nuovo, che egli stesso ha modellato secondo la sua rivoluzionaria visione della guerra.
Attesta le sue legioni all'interno di un accampamento ben protetto e temporeggia, aspettando il passaggio dell'orda barbarica. Non è cunctator per paura o per indecisione: semplicemente sa bene, da esperto stratega, che deve aspettare l'occasione giusta per fronteggiare un nemico così forte e numeroso. Roma non può permettersi un'altra sconfitta, proprio alle porte dell'Italia; né ci potrà essere un altro Furio Camillo a salvare il Campidoglio in extremis.
Il nuovo Camillo è lì, in Provenza, e i suoi soldati si affidano a lui. In verità sono in molti, tra i suoi fedeli legionari, a mostrare i primi segni di insofferenza. Il loro comandante li ha temprati a lungo in lavori manuali nel bacino del Rodano, e ora hanno solo voglia di combattere; l'ordine perentorio invece è quello di non uscire dal campo fortificato.
Sono i barbari allora, com'è nella loro indole aggressiva e spavalda, a farsi avanti: circondano la fortificazione dei Romani e li sfidano a battersi in campo aperto, ma Mario è una sfinge e fa mordere il freno ai suoi legionari.
I Teutoni si spazientiscono e provano l'assedio.
Si tratta di un'azione folle e priva di senso: dalle palizzate i difensori fiaccano l'impeto dei barbari, costretti ad attaccare in salita, bombardandoli con armi da lancio.
Plutarco minimizza l'episodio, riferendo di una perdita di alcuni uomini
[⁶] ; secondo Orosio, invece, l'assedio dura per ben tre giorni [⁷] , con un esito ben più sanguinoso.
In ogni caso, non venendo a capo di nulla, i Teutoni decidono di fare fagotto e andare via. Lo fanno a modo loro, mostrando tutta la loro baldanza mentre con calma sfilano davanti al campo romano. Accusano i nemici di essere codardi, li sfottono senza ritegno, arrivando a chiedere se hanno qualche messaggio da mandare alle mogli, visto che presto piomberanno in Italia ( tanta erat capiendae Urbis fiducia , narra Floro) [⁸] .
Ora, immaginiamo i legionari mentre schiumano rabbia di fronte ai barbari che promettono di prendersi le loro case e le loro donne: ci vuole tutta l'autorevolezza del duce romano per evitare che qualche centurione, accecato dall'ira, apra le porte e conduca i propri uomini a cercare giustizia. Mario deve addirittura minacciare di passare gli insubordinati a fil di spada e rischia di passare per stupido: anche un soldato di primo pelo, infatti, può sostenere con ragione che attaccare su un fianco un convoglio di carri in movimento sia l'azione militare più semplice e remunerativa.
Ma niente, la cosa non si fa.
Mario, al contrario, costringe i suoi ad alternarsi sui camminamenti per osservare da vicino gli invasori. Lo fa apposta, per abituarli alla visione di un nemico ormai famoso per la sua robustezza e per la statura superiore alla media. A Roma si favoleggia di giganti alti tre metri, cosicché il faccia a faccia voluto da Mario serve per ridimensionarli un po'.
Lo spettacolo dura per ben sei giorni: tanto ci vuole affinché anche la retroguardia di quella sterminata orda di uomini, donne, bambini, carri e animali sparisca dalla vista dei romani. Solo ora, finalmente, Mario impartisce l'ordine di smontare.
Contando sulla velocità di spostamento del suo esercito, decide di seguire da vicino il nemico, attendendo l'occasione giusta.
Accampatosi sul Montaiguet, un rilievo che domina la vallata del fiume Arc, nei pressi di Aquae Sextiae, ha appena messo al lavoro i suoi uomini per rinforzare la struttura difensiva, quando si presenta il primo problema: l'acqua. Sull'altura scarseggia, mentre a valle scorre abbondante. Nel frattempo nel fiume Arc [⁹] , guarda un po', stanno sguazzando alcuni barbari; essi sono ben consapevoli della presenza dei Romani, ma non se ne curano, considerandoli ormai un nemico troppo debole e timoroso per costituire un vero pericolo. Altro che barbari sporchi e puzzolenti! Questi si godono le tiepide acque termali (le acque di Sestio, appunto) proprio come i patrizi usano fare a Roma.
Immaginiamoli seminudi, felici come bambini, sicuri della propria invincibilità. Immaginiamo ora i legionari che li scorgono là sotto, vulnerabili, quasi offensivi nella loro selvaggia baldanza: Perché dunque non ci conduci subito contro di loro, dissero, fintanto che abbiamo ancora un po' di sangue liquido in vena?
[¹⁰]
Mario dice di no, perché prima occorre rinforzare l'accampamento. Sa bene, il condottiero, che oltre quella manica di sbandati al fiume esiste un intero esercito nemico: è ancora freschissima l'immagine della colonna sterminata di giganti che sfilano sotto i suoi occhi.
I soldati, abituati alla più ferrea disciplina, obbediscono; ma la maggior parte dei civili
[¹¹] al seguito dell'esercito non resiste e si lancia a valle, munita di recipienti per l'acqua ma anche di spade, bastoni, asce, tanto per gradire.
I barbari al fiume dal canto loro non gradiscono affatto. Si accende uno scontro, che nasce come rissa piuttosto che come battaglia. Non ci sono infatti due eserciti schierati, ma un manipolo di vivandieri morti di sete da una parte, e dall'altra un gruppo di bestioni intenti a fare il bagno e a gozzovigliare in pace. Ben presto scorre il sangue e le urla attirano l'attenzione dei rispettivi compagni.
Sopraggiungono in massa altri germani: si tratta degli Ambroni, un popolo alleato dei Cimbri e dei Teutoni e definiti come la parte più bellicosa dei barbari
[¹²] . Sono in numero enorme, più di trentamila, tutti accampati oltre la riva del fiume, poco distante. Per quanto sorpresi, gli Ambroni si organizzano subito e marciano sul nemico scandendo ritmicamente il proprio urlo di guerra, ossia il proprio nome. Am-bro-ni, Am-bro-ni, Ambroni !
Proviamo a immedesimarci nei panni dei malcapitati vivandieri romani. Chi è stato in un grande stadio ad assistere a una partita di calcio conosce bene quel brivido sulla pelle che si prova quando una curva di dieci-quindicimila tifosi urla il nome della propria squadra. Ecco, immaginiamoci ora di averli tutti davanti a noi, armati e furiosi, a poche decine di metri; non tifosi che sventolano sciarpe, ma guerrieri che battono i pugni sul petto, le armi sugli scudi, i piedi sul terreno: Am-bro-ni, Am-bro-ni, Ambroni!
Si mette male per i Romani. Mario fatica a tenere i suoi legionari in cima alla collina. Le fonti non lo dicono, ma forse il generale è combattuto tra l'idea di sguinzagliare le sue truppe lungo il pendio e la paura di rimanere impantanato in quella trappola di fondovalle. A togliergli ogni dubbio ci pensano gli ausiliari liguri, che pieni di ardore si lanciano verso la mischia.
Perché proprio i Liguri? La risposta più semplice è quella che risponde a una spietata logica militare: le truppe ausiliarie erano le più agili, le più adatte a combattere in un contesto disorganizzato e soprattutto le più sacrificabili. Avrebbero potuto parare il colpo e dare all'esercito regolare il tempo di scegliere una tattica più