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#3 Il Canto delle Montagne - Le Orde dell'Oblio
#3 Il Canto delle Montagne - Le Orde dell'Oblio
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E-book563 pagine7 ore

#3 Il Canto delle Montagne - Le Orde dell'Oblio

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LIBRO SELEZIONATO DAL SALONE INTERNAZIONALE DEL LIBRO DI TORINO 2024 PER LA LIBRERIA SELF PUBLISHER
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«Chi è Ek-Gàlarion? Tu lo sai... devi dirmelo».
Nòrys sostenne per un po' quello sguardo, poi spaziò intorno, scrutando lo specchio d'acqua, appena increspato dalla brezza. Tornò su Lucio e lo vide crucciato, in attesa di una risposta. Ne provò quasi compassione. «Tu devi dircelo», sussurrò.

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Nòrys il Nano e la Fata Sìgrin si trovano coinvolti nel sanguinoso attentato alla famiglia reale del regno di Nymor, sferrato dalla misteriosa setta degli Arcani, furtivi e micidiali manipolatori di magia. Per colpa di un semplice ritardo, Nòrys e Sìgrin dovranno incominciare un viaggio senza speranza, fino agli estremi confini di Merìdia.
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Tre soldati nymoriani, accomunati da un medesimo destino, scoprono - per bocca di un monaco - un segreto sconvolgente e il preludio della congiura della Settima Era di Merìdia. Il Diadema di Mit-Ùlliand, capace di risvegliare i Draghi, è disperatamente cercato dalla setta degli Arcani, intenzionata a disseppellire gli ultimi segreti dei negromanti della Perduta Civiltà. I Divoratori di Anime sono pronti a uscire dal loro carcere infernale per scatenare la violenza dei sette vizi capitali, che loro stessi personificano (Superbia, Avarizia, Lussuria, Ira, Gola, Invidia, Accidia), le orde di Dimòrla e non-morti premono sulle soglie del reame demoniaco dell’Oblio e le Torri d’Ombra spalancano i loro portali magici per invadere con legioni di demoni le Terre Soleggiate e soggiogare le anime di Merìdia con le catene dei sette vizi capitali.
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Le sette mistiche parole devono essere apprese, il verdetto della regina-veggente afferma che Ek-Gàlarion è sorto e il suo cammino sta per iniziare, illuminato dalla benedizione del Santo e della Virginea Stella del Mattino. I Custodi degli Elementi stanno risvegliando la forza selvaggia della Natura, mentre gli Elfi Tecnocrati, sotto il vessillo di Gaia, affrettano il loro piano per respingere l’Oblio e salvare almeno il regno di Azÿleid-Abêrion e la bianca città di Nàrta-Gìlen. I manufatti dei Draghi sono in pericolo e il Leggendario Imperatore di Merìdia sta per reclamare il potere assoluto e portare a termine la follia dell’Haerèticum. Ma sono in molti a bramare quel trono e niente sarà come sembra. 
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Copertina realizzata da Romina Vitali
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Colonna sonora originale realizzata dalla Age Of Chronicles Music Productions
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Tradotto in inglese da Chiara Saibene
LinguaItaliano
Data di uscita23 mag 2017
ISBN9788826440705
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    Anteprima del libro

    #3 Il Canto delle Montagne - Le Orde dell'Oblio - Cristian Vitali

    2017

    Capitolo I

    Luce di una speranza

    Il tempo era cambiato quella mattina. Se nei giorni precedenti il clima si era mantenuto piuttosto mite, ora la brezza sferzava il viso come una lama di ghiaccio. Gli alberi, imbionditi e spettinati, parevano tremare per quel freddo inaspettato, mentre l’aria smuoveva le loro chiome sfoltite. Il cielo riluceva terso, limpido come una cupola di cristallo azzurro, bagnato d’oro a est, dove il primo sole sbocciava stanco, ingemmando le cime bianche delle Dòlot-Min.

    Nòrys se ne stava seduto sulla soglia della porta, ammirando rannicchiato il chiarore dell’alba. Accanto a sé teneva il suo grande zaino da viaggio, rigonfiato dalla generosità di Fydian e Brìdien. Le provviste basteranno per superare il passo e attraversare buona parte del regno di Fàurok, pensò soddisfatto. Rise poi ascoltando Sìgrin sbadigliare, nascosta nella barba.

    Per lei il risveglio forzato era una vera tortura. Si stropicciava gli occhietti lucidi, mandava fuori molti sbadigli, si accoccolava da una parte e poi dall’altra, rabbrividiva, protestava, scalciava, incapace di restar ferma.

    Nòrys borbottava infastidito ogni volta che la Fata gli tirava dolorosamente la barba, portando pazienza in attesa che arrivassero gli altri. Sentì lo scalpiccio di molti passi all’interno e il brusio di un parlare sommesso. Infine la porta si aprì e il resto della compagnia si riversò fuori, passandogli accanto. Per ultimi uscirono anche i due padroni di casa.

    «Tutto è finito così presto», si rammaricò Brìdien, stringendosi in una cappa di lana colorata. Il suo viso era vispo e gioviale come sempre, eppure in fondo agli occhi scintillava una cortina di grigia nostalgia.

    «Sì, è così», rispose Nòrys, alzandosi. «Tutto è passato in fretta, perché la gioia corre più veloce della tristezza. Ma non dimenticheremo mai la vostra accoglienza, amici Elfi, né la premura che ci avete riservato. Una tappa di pace in mezzo a un viaggio irto di angosce. Ora siamo pronti a continuare ciò che avevamo intrapreso».

    Il Nano allora li abbracciò ambedue insieme, stringendoli forte, mentre loro si curvavano su di lui. Anche Sìgrin si affacciò dalla barba e li carezzò con tanto amore.

    «Dove andrete?», chiese Fydian, nei cui occhi tremava un brillio di pianto.

    «A Nèvos-Harx», rispose Nòrys. «Attraverseremo il regno di Fàurok e, spingendoci oltre quelle terre selvagge, tenteremo di raggiungere la mia patria. Non ve l’ho detto, ma Giada ha un trono che la sta aspettando», e, voltandosi, le fece l’occhiolino.

    Lei sorrise a disagio nel vedere i due Elfi sbigottiti.

    «Il trono di Nymor», precisò Nòrys. «E desideriamo che ella vi ritorni al più presto per ristabilire l’ordine».

    «Intrappolati nelle foreste, poco sappiamo degli eventi del mondo…», sussurrò Fydian stringendo a sé la moglie. «Cos’è accaduto?».

    Nòrys scosse la testa. «Questa storia sarebbe veramente troppo lunga da raccontare così, in piedi, al freddo, sulla soglia di casa con i fardelli sulle spalle», rispose, sbuffando una nuvoletta di vapore dalla bocca. «Servirebbe tempo, un buon fuoco scoppiettante e birra fresca nei boccali, come piace a noi Nani. Sappiate però che in Nymor è in atto una congiura, i cui cospiratori non temono di spargere sangue. Neppure quello delle donne e dei bambini. La casa reale è stata percossa. Non abbiamo più i nostri sovrani. Giada è l’erede, ma non può avvicinarsi alla capitale senza la protezione di un esercito. Abbiamo paura che chi ha iniziato l’opera la voglia terminare… non appena se ne presenti l’occasione. Per questo stiamo andando a chiedere l’aiuto di Rùthenor, re dei Nani».

    Giada chinò la testa, avvolta nel cappuccio, mentre i due Elfi la guardavano con stupore e ammirazione. Berengario sorrideva orgoglioso, puntando le mani ai fianchi. Espèria li osservava divertita, con l’arco sulla spalla e la faretra a tracolla giù lungo la gamba, restandosene appoggiata al bastone ferrato. Sìgrin guardava Giada stringendosi le mani insieme contro una guancia, emozionata.

    «Avete fatto bene a non dircelo», disse Brìdien, rompendo il silenzio. «La gloria di quel nome avrebbe frenato la nostra spontanea amicizia», e, affrettandosi, abbracciò forte Giada.

    Lo stesso fece Fydian, con lei e con tutti gli altri, dando inizio a un quadro collettivo di abbracci, sorrisi e saluti, finché lentamente si distanziarono e, imboccando a ritroso il sentiero, si rivolsero un ultimo sguardo di reciproca amorevolezza. Infine, la compagnia voltò le spalle e prese a camminare accanto al muricciolo a secco, colmo di erbe aromatiche: menta, salvia e rosmarino abbondavano fino al cancelletto abbarbicato di rampicanti. Allora Fydian e Brìdien cantarono insieme, modulando le loro voci come una sola.

    « Mèdi-érial

    benà fàsin enié àgenar

    diterìnas madìllenam.

    Atirené, néni azùrie, atirené…».

    Espèria, varcando il cancelletto, si voltò indietro e, portandosi una mano al cuore, li salutò un’ultima volta, versando due lacrime, mentre la cantica ricominciava. Solo quando il bosco li inghiottì tra i suoi alti alberi, le voci elfiche scomparvero. Ma nel cuore di Espèria perdurarono e quel canto tornava soave e malinconico alla sua mente tutte le volte che udiva gorgheggiare un ruscello, o quando il vento stormiva tra le foglie nella sera, tra le siepi profumate.

    Fecero di buon passo alcune miglia, col sole nascente che riempiva di occhielli di luce il sottobosco rinfrescato, dove si rizzavano le infiorescenze di molte orchidee selvatiche. Scesero lungo sentieri serpeggianti, costeggiati da grandi massi squadrati, velati di muschio odoroso, soffice e verdissimo, e in fila procedettero fino al cospetto di una bianca cascata ruggente.

    Un tronco abbattuto tagliava il torrente in diagonale, trasformandosi in un ponte di fortuna. Vi camminarono sopra in equilibrio, guardando al di sotto i gorghi turbolenti formati dalla corrente, sbattendo spumeggiante tra una roccia e l’altra, in un vorticare e accavallarsi continuo di acqua vigorosa e schiaffeggiante. Giunti all’altra riva si accorsero con spavento che molte persone stavano scendendo dalla foresta verso la riva. Trasandati e selvaggi, parevano disertori imbarbariti. Davanti a tutti camminava un vegliardo, la cui barba veneranda splendeva bianca come la neve. Nòrys lo riconobbe e tirò il fiato.

    «Il Santo benedica i Suoi Cavalieri!», esclamò il vecchio guerriero, scendendo verso il torrente, seguito da una folla silenziosa di uomini dalle lunghe barbe incolte e di donne seriose, dalle guance infossate. «State lasciando queste terre?», soggiunse poi.

    «Dobbiamo farlo», rispose Nòrys. «La strada è ancora lunga», e con lo sguardo passò in rassegna i poveri scampati.

    «Non abbiamo niente da offrirvi», si scusò il vegliardo. «Ma immagino che Fydian e Brìdien vi abbiano già dato tutto il necessario».

    «Sì, è così», rispose Nòrys.

    «Intendevamo salutarvi», riprese il vegliardo, guardandoli umile. «Ci siamo accampati qui vicino sperando di vedervi passare. Così… per guardare in faccia ancora una volta coloro che ci hanno restituito la dignità».

    Tutta la compagnia sorrise.

    «Come ti chiami?», chiese Nòrys, facendosi avanti.

    «Alberico figlio di Alderico», rispose subito l’attempato veterano.

    Gli occhi di Nòrys brillarono inquieti. «Se dovessi indicare un rifugio a degli sfollati… potrei contare sulla vostra ospitalità?».

    «Li accoglieremo come fratelli», rispose Alberico senza un’esitazione.

    «E se fossero tanti?», replicò Nòrys socchiudendo un occhio.

    «Le foreste di Fosso Nero sono molto vaste, e nessuno le attraversa per timore dell’incantesimo», disse Alberico molto serenamente. «Ci vorrà parecchio tempo prima che si sappia che l’antica malia è cessata. Cibo ne troveremo».

    «Allora tenetevi pronti», disse Nòrys stringendogli forte la mano ossuta, che appariva ancora più lunga e spigolosa serrata tra quelle tozze del Nano.

    Alberico annuiva orgoglioso, felice di aver ricevuto così presto un comando. Non riusciva a immaginare chi potessero essere quegli sfollati di cui parlava Nòrys. Pensò a una zona delle foreste in cui vi fossero altri intrappolati, ma non lo trovò plausibile. «La Stella di Nàrta-Gìlen brilli sempre sulla vostra via!», disse Alberico inchinandosi, mentre la compagnia, dopo averlo salutato, passava avanti fendendo la folla.

    Volti riconoscenti, felici e benedicenti seguivano il loro andare, mentre una fanciulla, intonando una cantica, accompagnava con la sua voce cristallina e malinconica la loro partenza. Tutta la dimenticata gente delle foreste di Fosso Nero era accalcata ai lati del sentiero, ininterrottamente per alcune miglia, formando un lunghissimo corridoio vivente. C’erano anche donne e bambini in gran numero che salutavano entusiasti, gettando loro addosso manciate di foglie e petali profumati, sulle note solenni di quel triste canto.

    Giada sorrideva benevola, sfiorando e carezzando le mani protese. Ruvide, callose, consumate dal lavoro e da innumerevoli battaglie. Si sentì colpevole per aver pensato di rimandare la loro liberazione. Li vide come poveri orfani dimenticati dal mondo, e ne provò pietà. Anche voi mi siete stati affidati, pensò. E verrei giudicata duramente dal Santo se vi abbandonassi. Non lo farò. Anche per voi oggi riprendo il mio viaggio. Aspettatemi. Tornerò e non mi scorderò della vostra miseria, amati figli di Nymor.

    Nòrys procedeva svelto davanti alla compagnia, salutando e inchinandosi. Berengario faceva rapidi cenni con la testa, mostrando sfuggevoli sorrisi. Sìgrin volteggiava ridendo da una parte all’altra per la gioia dei bambini che, strillando e correndo allegramente, tentavano di raggiungerla. Espèria, luminosa di gioia, ripensava a tutto quanto era accaduto dal giorno in cui aveva lasciato Vìdicer e la sua vecchia vita.

    La folla, a mano a mano che avanzavano, cominciò a diradarsi sempre di più, finché i cinque compagni non si ritrovarono di nuovo soli, festeggiati solamente dai rumori placidi del bosco. Fecero ancora tre quattro miglia buone a passo svelto, arrivando laddove gli alberi si sfoltivano, aprendo uno scorcio sulle vallate circostanti. In lontananza, oltre monti boscosi, videro ergersi una cima aguzza di nuda roccia, una sorta di prominenza selvaggia che si staccava dalle catene montuose e si sollevava come una naturale torre di vedetta.

    «Il Corno di Grònar», disse Nòrys, facendo solecchio con una mano.

    «Dista molto», commentò Berengario, senza nascondere un po’ di sconforto.

    «Sì, ma conosco una scorciatoia per superare piuttosto rapidamente quelle montagne impervie», lo rassicurò Nòrys, studiando i fianchi ripidi. «Una via che sale diretta, faticosa forse, ma indubbiamente più breve e più sicura di altre».

    A Espèria salì il cuore in gola e istintivamente affrettò il passo.

    «Possiamo viaggiare veloci però! Molto veloci!», strepitò Sìgrin, sfarfallando agitata. «Voglio rivedere Arkèmisis! È stato così gentile con me! Oh!», esclamò arrossendo.

    Giada le sorrise amorevole, porgendole la mano. Sìgrin vi si posò subito.

    «A te basta un sorriso, una parola di gentilezza e attenzione per darti gioia viva», disse Giada, stringendosela al viso.

    Sìgrin ricambiò abbracciandole la guancia.

    «Mi chiedo perché non sia così anche per me», le sussurrò Giada.

    «Perché hai troppi pensieri!», le rispose Sìgrin bisbigliando. «Sono come tanti rospetti che strillano insieme. Come quelli della baita, ricordi? Non senti più le parole buone, non vedi più i sorrisi! Badi solo ai rospetti che schiamazzano! Ma non è colpa tua…», aggiunse, temendo di averla offesa.

    Giada sorrise distratta. «Cercherò di seguire il tuo consiglio, Sìgrin».

    Camminarono fino a sera su sentieri disagevoli e accidentati, resi insidiosi dalle ultime piogge. Il terreno non si era affatto asciugato e ovunque si sprofondava in un fango alto e gorgogliante, che traeva sempre il piede a scivolare. Avanzarono molto lenti e impacciati, contrariamente a come aveva creduto Sìgrin, e giunsero a malapena alle pendici dell’altra vallata, dopo aver superato un rumoroso torrente, in cui si lavarono parte del fango che si era attaccato ai vestiti.

    Risalendo di poche centinaia di passi al di sopra del rivo d’acqua, si accamparono su uno spiazzo erboso protetto da vecchi faggi, dai fusti chiari e lisci, e lì passarono la notte, nelle protuberanze di quelle antiche radici, scaldati da un misero fuocherello fumigante. Faceva molto più freddo, e loro non erano più abituati a sopportarlo dopo i sette giorni passati nell’accoglienza memorabile della casa di Fydian e Brìdien.

    Giada tremava avvolta sotto due coperte elfiche, oltre ad essere già ravvolta nel mantello d’alce e, stando appoggiata a un tronco, non riusciva in alcun modo a prendere sonno. Espèria se ne stava raggomitolata poco distante, tremando anch’essa. Nòrys era di guardia, in disparte, seduto su un masso sporgente, con Sìgrin che gli russava nella barba. Aveva appena dato il cambio a Berengario, che ora riposava contro un albero, con la testa chinata sul petto. Pareva dormire. Neppure lui tuttavia aveva trovato riposo. Sonnecchiava combattuto da un pensiero interiore. Guardava Giada ed Espèria tremare, e non si dava pace. Infine si alzò, andando loro innanzi.

    «Questa notte è la più gelida tra tutte quelle affrontate finora», disse, destando dal dormiveglia le due compagne. «Credo sia meglio dormire vicini».

    Espèria si alzò in piedi, gradendo molto la proposta. «Sì, hai ragione!», esclamò. «Come quella notte al rifugio di Nòrys», aggiunse con un sorriso sincero, mal celando i sentimenti, mentre ragionava sulla posizione da prendere.

    Giada invece lo guardò ben poco entusiasta. Preferiva di gran lunga la riservatezza, soprattutto durante il riposo. «Non vedo altre scelte…», mugugnò rassegnata, strofinandosi le braccia.

    Berengario rimase amareggiato da quel tono sbiadito e annuì accigliandosi. «Resterete tra me ed Espèria», disse sedendole accanto, sentendo già da subito l’umore migliorare. Espèria si sistemò di malavoglia vicino a Giada, disillusa per aver perso l’ambito posto accanto a Berengario.

    Giada sospirava continuamente, come se le mancasse l’aria. Poi d’un tratto si addormentò. Lo stesse fece Berengario. Solo Espèria rimase insonne e triste.

    Al mattino si risvegliarono sotto una pioggerellina sottile, fredda come la neve. Giada aprì gli occhi a fatica, restia a lasciare il tepore che l’avvolgeva. Le stesse persone che la sera precedente le avevano dato così tanto fastidio nell’avvicinarsi, ora le abbandonava malvolentieri.

    Mangiarono in fretta un boccone di torta impastata con noci e frutta candita, senza neppure riuscire a gustarsela, così scomodi, infreddoliti e bagnati dalla pioggia.

    «Sono davvero passati i giorni lieti!», esclamò Nòrys, riponendo tutto nello zaino.

    Ripresero il cammino inerpicandosi su per il fianco della montagna, affrontando un percorso spossante che si dimostrò ancora più ostile di quello sopportato il giorno precedente. I sentieri, trasformati in fiumi di melma scivolosa, sembravano perdersi tra gli alberi e scomparire ad ogni svolta, velati dalla foschia.

    Giada, sfidando un punto difficoltoso, una ripida scarpata che s’insinuava tra i tronchi ritorti di due vecchie querce, dopo aver rifiutato l’aiuto di Berengario, perse l’equilibrio e slittò in malo modo sulla fanghiglia, finendo distesa a terra e inzaccherandosi spaventosamente.

    «Dannazione alla vostra caparbietà!», gridò Berengario, prestandole subito la parte pulita del suo mantello.

    Sìgrin si voltò dall’altra parte, allontanandosi in fretta per non riderle in faccia, vedendola lorda da capo a piedi, mentre smarrita cercava di pulirsi il volto.

    «Ci vorrebbe un bastone…», brontolò Nòrys, cercandone uno lì attorno. «Se ci avessi pensato prima avremmo evitato questa seccatura».

    Giada, guardandosi in quello stato, cadde preda di un’improvvisa crisi di nervi e scoppiò a piangere.

    «Brutta situazione… brutta situazione…», ripeteva Nòrys, saggiando tutti i rami che trovava, scoprendoli marci e fragili.

    «Prova questo! Prova quest’altro!», gli ripeteva Sìgrin, volando a zigzag tra gli alberi.

    «Fatti coraggio», disse Espèria improvvisamente, senza la reale intenzione di incoraggiarla. «Sei la regina di Nymor, e questa è solo un po’ di melma. Devi avere più coraggio».

    «Non dirmi cosa devo fare o cosa devo avere!», le sbraitò in faccia Giada, con il viso sporcato di fango.

    Nòrys si voltò indietro da dove si trovava, più lontano in mezzo al bosco, e osservò cupo lo sfogo di rabbia di Giada.

    Berengario si schiarì la voce. «Calma, maledizione… calma…», disse, smuovendo in alto e in basso le braccia. «Non cominciamo a scannarci a vicenda».

    Espèria la squadrò di sbieco e la superò, arrampicandosi agilmente nel punto in cui Giada era scivolata.

    Nòrys ritornò in fretta con un bastone. Non era certo quello che avrebbe voluto, ma pensò che sarebbe andato bene per forza. «Non è ciò che di meglio poteva offrici il bosco, ma non siamo nelle condizioni per indugiare».

    Giada gli prese il bastone di mano e risalì adirata la scarpata insidiosa. Nòrys brontolò con disapprovazione, risalendo lui pure, aiutandosi con lo scudo possente.

    Giunsero sul crinale all’imbrunire. Taciturni, immusoniti. Non sembrava neanche lontanamente la stessa allegra compagnia che per una settimana aveva condiviso lietamente pasti e riposo dentro le mura della casa elfica.

    «Forse ho fatto male a prendere la scorciatoia…», borbottò Nòrys tra sé e sé, mentre a fatica cercava di accendere il fuoco.

    Sìgrin, sempre pronta ad ascoltarlo, si sedette su un sassolino, guardando le scintille bianche saltellare vividissime sul terreno umido. «Era una scorciatoia?», disse, scansando con un guizzo una favilla.

    Nòrys annuì. «Altrimenti avremmo dovuto aggirare queste montagne, ma mi fido poco dei passi che le fendono… sono pieni di grotte e di tane profonde. Un vecchio minatore, ormai otto anni or sono, mi disse di tenermi alla larga perché erano stati avvistati Goblin e streghe aggirarsi da quelle parti. Così ho pensato di scavalcarle, pur sapendo che la fatica sarebbe stata grande. Soprattutto per lei», soggiunse a bassa voce.

    Sìgrin annuì assorta, raspando il terriccio avanti e indietro coi minuscoli piedini.

    Nòrys colpì ancora l’acciarino e finalmente una scintilla appiccò fuoco all’esca.

    «Si abituerà!», esclamò Sìgrin, uscendo dai suoi pensieri.

    Nòrys sorrise, soffiando dolcemente sulla fiammella nascente. «Sarà certamente così», rispose il Nano sospirando.

    All’indomani, forse perché il tempo si era ristabilito, forse perché la salita era terminata e iniziava finalmente la discesa, l’umore della compagnia migliorò e qualche sorriso riprese ad affiorare fugace sulle labbra chiuse. Il cielo era in parte di un azzurro pallido, mentre all’estremità opposta aleggiavano ancora nembi minacciosi. E se aveva smesso di piovere, il fango non mancava di certo sulla terra.

    Imboccarono il sentiero che discendeva l’altro versante e, giunti laddove gli alberi si aprivano, videro giganteggiare il Corno di Grònar. Usciva inarcuato dalle montagne, dando loro un aspetto impressionante, come la testa di un mastodontico rinoceronte. Sollecitati dalla vicinanza della meta affrettarono il passo, spingendosi sempre di più verso il fondo della valle.

    Raggiunsero le pendici del Corno di Grònar quando da poco era passato mezzogiorno. Scoprirono tra le rocce una grande spaccatura che, sprofondando nella terra, s’immergeva nell’oscurità. Pareva un passaggio per l’oltretomba. Il terreno era sconvolto da migliaia di orme, disseminato di stracci insanguinati e ceste vuote. Abbandonati in disparte si scorgevano pesanti carretti di ferro, carichi di masserizie disordinate. Bauli, casse, barili tutti costruiti in nero ferro battuto.

    «Si sono alleggeriti», disse Berengario sbirciando dentro un carro.

    «Già, non si viaggia bene con certi mezzi sulle vie montuose», asserì Nòrys, calciando via una cesta, mentre Espèria, accovacciata, frugava nel disordine alla ricerca di qualcosa di utile.

    «Che aspettiamo? Proviamo a raggiungerli!», esclamò Berengario, come se all’improvviso gli fosse venuta una fretta irresistibile.

    «Non sarà difficile», borbottò Nòrys, incamminandosi sul percorso fangoso, sconvolto da innumerevoli impronte.

    Invero anche il più inesperto d’inseguimenti non avrebbe avuto dubbi sulla traccia da seguire. Essa si dipanava nella foresta, seguendo gli snodamenti della valle, lasciandosi alle spalle una scia di devastazione nel sottobosco e sul terreno bagnato. Perfino i rami più bassi erano stati spezzati dal passaggio irruente degli Orchi in fuga, inadatti a muoversi in un ambiente a loro del tutto sconosciuto.

    Le orme poi deviavano improvvisamente percorso e, svoltando, tagliavano dritto il fianco della montagna. Lì Nòrys pensò a quale immane fatica dovevano aver sopportato. Vi erano profondi solchi e smottamenti di terreno, segni di cadute e improvvisi scivoloni.

    Fecero quella stessa strada e verso sera giunsero su un vasto altopiano boscoso, dove grandi alberi dalle chiome imbiondite e rossicce lasciavano cadere le loro foglie sgargianti, adombrando l’accampamento degli scampati di Òrgrud-Nòr. Volteggiavano come uccelli sfiniti, maculando i tetti delle capanne, improvvisate abitazioni d’emergenza fatte di frasche e tele svolazzanti.

    Molti Orchi erano tuttora all’opera e, affaccendati, si prodigavano a fortificare una modesta barriera di tronchi abbattuti e ramaglie spinose. Sparuti gruppetti di soldati, con le loro possenti armature dorate, presidiavano le aperture, girando lo sguardo attorno con sospetto e smarrimento, quasi fossero creature venute da un altro mondo.

    Nòrys si fece avanti, fermandosi solo quando iniziarono a risuonare le grida minacciose degli Orchi. Tutto l’accampamento si allertò e molti popolani uscirono allo scoperto, imbracciando armi scintillanti.

    «Fermi! Non scalmanatevi!», esclamò Nòrys. «Non siamo nemici. Mi chiamo Nòrys, figlio di Rùrys, e sono amico di Zèky Hìrg-Migrùz, vostro re. Ho estremo bisogno di parlargli. So che si trova qui».

    «Solo lui ci garantirà di conoscere il tuo nome, Nano», gli rimbeccò un ufficiale, superando in fretta la linea dei soldati e portandosi fin davanti allo sconosciuto interlocutore. Era imbruttito dalla fatica, con la fronte fasciata più volte da una benda sporca, la quale mostrava una larga chiazza di sangue sopra l’occhio destro. «Ma egli sta male. Fu ferito a morte», disse sovrastandolo con la sua altezza.

    «So anche questo», rispose Nòrys guardando in su, strappando un sorriso a Sìgrin.

    Il Nano-so-tutto, pensò lei ridacchiando.

    «Ed è precisamente per questa ragione che intendo vederlo al più presto», riprese Nòrys. «Senza che uno dei suoi ufficiali m’intralci oltre il dovuto, rischiando di allontanare per sempre l’incontro di due Cavalieri, qui sulla terra di Merìdia», e alzando la mano mostrò il grande anello. Scolpito in Roccia di Nìnir presentava l’effigie di una colomba ad ali spiegate. Scostò un poco la barba e gli permise di vedere la medesima figura al centro del sottile disegno di venature argentee, le quali, dopo la lotta contro la Sorvegliante d’Ombra, non erano più scomparse del tutto. E, seppur imbrattate di fango secco, il loro motivo meraviglioso traluceva puro come la luce degli astri. «Sono Nòrys, Cavaliere di Nàrta-Gìlen, e chiedo il permesso di vedere il mio vecchio maestro».

    L’ufficiale non osò più contraddirlo. Annuì e scostandosi gli fece cenno di seguirlo. La linea di soldati si divise, schiudendo un varco. La compagnia allora, con Nòrys davanti più distanziato, vi passò in mezzo ed entrò nell’accampamento. In disparte, in uno spiazzo distanziato dalle capanne, scorsero alcuni Orchi intenti a erigere una stele di pietra. Gente del popolo stava a osservare in riverente silenzio.

    L’avevano da poco oltrepassata quando l’ufficiale riprese la parola. «La tenda del re è al centro», disse, portandosi frettolosamente avanti. «Voi attendete qui».

    Nòrys però procedette cocciuto e serioso, sordo agli ordini del graduato, finché a un tratto si fermò di colpo, sfoggiando un sorriso radioso. «Guarda chi si rivede!», tuonò, spalancando le braccia, mentre l’ufficiale filava via a grandi passi, precedendolo presso il re.

    Seduto davanti a una tenda stava Arkèmisis, perso in foschi pensieri, con una mano affondata tra i capelli nocciola. Al grido del Nano si scosse e prima ancora di alzare lo sguardo il suo cuore lo riconobbe. Sgranò gli occhi e si sollevò raggiante. «Nòrys!», esclamò, prestando a quel grido la voce stessa della gioia. Gli corse incontro e lo abbracciò impetuosamente, stringendolo stretto. «Tu qui?! Come hai fatto a trovarci? Hai lasciato Gheròn?! Come è possibile?».

    Nòrys rideva bonario alle molte domande, e con energia gli picchiava la schiena. «Mio caro ragazzo!», esclamò.

    Sìgrin si mostrò all’improvviso, frullando le ali brillantissime. «Ciao Arkèmisis!», strillò felicissima. «Come hai fatto a scappare da quel brutto fortino?!».

    Lui allora spostò il suo sguardo traboccante di allegrezza sulla Fata, e si velò di commozione. Tacque un momento per riportare alla mente quel nome e, schiudendo un sorriso, disse dolcemente: «Sìgrin!».

    «Sì!», trillò lei, buttandosi con impeto al collo dell’Elfo.

    Arkèmisis rise e in fretta si preoccupò di accoglierla sul palmo della mano. «Non sono scappato! Mi hanno spostato subito e così ho incontrato Lucio e Berengario! Quante disavventure abbiamo passato insieme…! Oh! Come sono felice di rivedervi!», esclamò, incapace di esprimere con altre parole il suo stato d’animo.

    «Ragazzo mio», borbottava Nòrys tutto contento, mostrando due guance arrotondate dal sorriso e pennellate di rubicondo.

    Allora sopraggiunsero anche Berengario ed Espèria, e Arkèmisis, scorgendoli, si gettò nel loro abbraccio. Ridevano tutti insieme, strapazzandosi con rude amorevolezza.

    «Adesso devi spiegarmi come diavolo hai fatto a uscire vivo da quelle dannate grotte!», gridò ilare Berengario, spettinandolo selvaggiamente.

    «Là sotto mancano tutti i punti cardinali per un Elfo. E se mi trovo qui vorrà pur dire qualcosa, non credi?», rispose Arkèmisis ravviandosi i capelli, con occhi furbastri. Mentre stava dicendo queste parole giunse per ultima anche Giada. Avanzava adagio, ritenendosi quasi estranea a quell’allegria collettiva. Più ancora, si sentì perfino un peso odioso ricaduto su quella bella compagnia di amici, alla quale aveva sconvolto le singole esistenze. Avrebbe desiderato allontanarsi.

    Arkèmisis però la scorse oltre la stazza di Berengario, e per un momento tutto cadde nel silenzio intorno a lui. «Principessa Giada!», esclamò estasiato e sbalordito, facendo cessare il chiasso gioioso. «Siete qui! Siete voi!».

    Espèria e Berengario si scostarono sorridendo.

    «Salute a te, Arkèmisis», disse lei, sforzandosi di apparire amabile e garbata, malgrado le circostanze fossero tutt’altro che decorose. «Sono lieta di rivederti sano e salvo dopo tutti questi pericoli».

    Arkèmisis fece un passo avanti e inchinandosi profondamente le prese la mano e la baciò. Senza fretta, come un assetato che beve a una fonte fresca. Eppure la scoprì molto diversa da quella prima volta. Le unghie apparivano rovinate, con un contorno scuro che le rendeva ancor più visibili. Le mani stesse erano segnate di graffi, irruvidite dai calli e spellate dal freddo, stanche, scurite di fango.

    Arkèmisis si sentì stringere il cuore. «Anch’io sono lieto di vedervi in salute, principessa», rispose lasciando lentamente la mano. «Benché poche e fragili fossero le nostre speranze. Ci siamo diretti a Vìdicer per cercarvi, cadendo nella trappola di un traditore, e solo grazie alla pietà di Espèria ora siamo vivi. Ci siamo persi troppe cose. E il resto non l’abbiamo compreso appieno».

    «Anch’io devo la mia vita ad altri», disse Giada. «Se Nòrys non mi avesse portata via, sarei morta sotto l’ultimo incantesimo di quell’Arcano. Se Sìgrin non mi avesse guidata nelle fogne, sarei stata uccisa dai sicari. Se tutti i miei compagni non mi avessero difesa, di certo non mi troverei qui adesso. Per il loro coraggio oggi esiste ancora la legittima erede al trono di Nymor».

    Arkèmisis chinò il capo, mostrando rispetto ai soccorritori. «Dunque eri tu…», disse poi rivolto a Nòrys, incapace di trattenere il sorriso. «Il Nano rapitore… evasore… che tutti cercano!».

    Nòrys rise a bocca spalancata, intrecciando le mani dietro la schiena.

    «Alla locanda del Duca Cinghiale c’era un bardo che distribuiva pergamene con il tuo volto disegnato, istigando gli avventori a darti la caccia», precisò Arkèmisis. «Assomigliavi, ma non avrei mai creduto che potessi essere veramente tu».

    «Ah sì?», borbottò Nòrys. «Pergamene con la mia faccia?».

    «Sì. Abbruttita con arte. Una vera faccia da forca. La peggiore mai vista su Merìdia», garantì Arkèmisis scrollando una spalla dell’amico. «Ti ricordi, Berengario?».

    Lui annuì. «Certo! Dicesti proprio che assomigliava al tuo amico. Gran brutto disegno. Ma fedele all’originale dopotutto».

    «Denigratori», brontolò Nòrys tra l’imbronciato e il divertito.

    «Inoltre valevi un sacco di torrioni», soggiunse Berengario strofinandosi la corta barba pungente.

    Nòrys annuì nascondendo il sorriso sotto i baffi. Poi di colpo si rabbuiò. «Come sta sire Zèky?», chiese accorato.

    Arkèmisis si stupì. «Come lo conosci?».

    «Andiamo da lui, forza!», disse Nòrys senza rivelare niente, tirando Arkèmisis per un braccio.

    «Un momento!», esclamò Espèria trattenendoli entrambi. «Voglio vedere anche Lucio!».

    Arkèmisis annuì. «Dovrebbe tornare a momenti», disse guardandosi attorno. «Era con Ràzan in giro per l’accampamento».

    Espèria, sorpresa, alzò un sopracciglio.

    «Nel frattempo andiamo dal re», insistette Nòrys.

    «Vengo con voi», disse Arkèmisis sicuro.

    «Lucio!», gridò all’improvviso Espèria con voce acutissima, precipitandosi in mezzo alle tende.

    Lucio stava sopraggiungendo lentamente, affiancato da Ràzan Ombraluce. Camminava incerto sotto il cadere delle foglie brunastre, come chi esce per la prima volta all’aperto dopo una lunga malattia. Non appena vide l’Elfa, lanciò un lungo grido di stupore, andandole incontro sfavillante di gioia, mentre Ràzan, incredulo, scoppiò a ridere.

    Espèria si gettò su Lucio e pianse silenziosamente, tenendo il viso nascosto sulla sopravveste di cuoio. Ne baciò più volte la superficie liscia, bagnandola di lacrime. Si ricordò della preghiera che aveva innalzato appena uscita dalle grotte dell’Àrdun-Nòr e il suo cuore traboccò di gratitudine. Allora abbracciò stretto Lucio, appoggiando il mento sulla sua spalla. Proprio in quel momento si accorse anche di Ràzan, ma lui le fece più volte l’occhiolino, rivolgendole uno sguardo intimidatorio.

    Lucio rideva e le carezzava i capelli. «Sono contento di rivederti, Espèria!», disse; poi sbarrò nuovamente gli occhi, vedendo arrivare di corsa Berengario. «Orso!», esclamò ricevendolo nell’abbraccio. «Mio caro Orso!», rise grattandogli fortissimo i corti capelli biondi.

    «Non avrei mai pensato che un giorno sarei stato felice di rivederti!», sbottò Berengario in risposta, con un luccicore negli occhi chiari.

    «Nemmeno la Creatura è riuscita a togliere di mezzo il valoroso figlio di Toregàrio!», esclamò Lucio.

    «Quest’Elfa mi ha aiutato non poco a portar fuori la pelle!», esclamò Berengario stringendo anche Espèria, innalzata al colmo della contentezza.

    Lucio teneva abbracciati stretti i due amici, mentre il resto della compagnia si faceva avanti alla spicciolata.

    «Ciao Lucio!», trillò Sìgrin, svolazzandogli a una spanna dal viso. «Mi chiamo Sìgrin e sono una Fata piccola! Piacere!», e gli porse la sottilissima mano.

    Lucio s’accese di meraviglia e le offrì subito l’indice. «Piacere mio!», rispose, fissandola esterrefatto.

    «Se vuoi sapere qualcosa conosco un Nano-so-tutto!», aggiunse subito Sìgrin, un po’ imbarazzata.

    Lucio rise, e fu la risata più vera e amabile che Sìgrin avesse mai udito fino a quel giorno. «Grazie!», esclamò Lucio. «Ho molte cose che vorrei conoscere e grazie al tuo consiglio ora so a chi domandare!».

    Sìgrin si lasciò sfuggire un risolino divertito. «Adesso ho capito perché Berengario ed Espèria ti vogliono così tanto bene!», esclamò, e con un voletto gli atterrò sulla spalla. Lì si alzò sulle punte dei piedi e lo abbracciò forte sul collo, fin dove le sue piccole braccia potevano arrivare.

    «Se solo potessero conoscerti i miei figli!», esclamò Lucio rammaricato.

    Sìgrin agitò forte le ali in un fitto turbinio di polvere fatata. «Hai dei figli?!», strillò fuori di sé.

    «Ne ho quattro», rispose fiero Lucio. «Viktor, Hector, Selene e Mel, la più piccolina. Quasi quanto te».

    «Uh!», esclamò Sìgrin. «Così piccola?».

    Lucio sorrise. «Be’, non così piccola, ma potreste essere sorelle!», disse ridendo.

    «Non ho sorelle…», disse Sìgrin. «E nemmeno fratelli! Ho solo loro. Solo voi, cioè! Però mi piacerebbe tanto conoscerla! Oh! Mi piacerebbe!».

    «Anche a lei, ne sono sicuro», replicò Lucio. «Chissà, forse un giorno v’incontrerete».

    «Sì! Sì!», strepitò Sìgrin, girando su se stessa con le braccia in alto, preparando altre domande. «Ma la mamma chi è? Come si chiama?».

    «Non si offendano le nostre amiche, ma non vi è donna più bella e gentile sulla terra di Merìdia», rispose Lucio trasognante.

    Espèria rise sinceramente. Giada invece, che se ne stava in disparte per lasciare la precedenza agli altri, non lo udì. «Filomena è il suo nome», aggiunse. «E sono passati troppi giorni dall’ultima volta che l’ho vista».

    Sìgrin si accorse subito che la gioia del suo nuovo amico era diminuita e ancora lo abbracciò per fargli coraggio. «La rivedrai presto! Te lo dico io! E anche i tuoi figli! Nòrys l’ha detto… lui conosce molte cose! Non ci metteremo molto se cammineremo svelti!».

    Lucio sorrise sfiorandole con delicatezza la testolina.

    In quel momento Nòrys si fece avanti a lunghi passi, con il mento alto. «Così tu sei il famoso Lucio», disse il Nano, squadrandolo da capo a piedi, soffermandosi un momento sulla spada nordica.

    «Questo è il mio nome, mastro Nano», rispose Lucio, inchinandosi. «Ma di famoso non ho nulla, ve lo posso garantire».

    «Uhm…», borbottò Nòrys, socchiudendo un occhio con aria diffidente.

    «Oh!», esclamò Lucio, scorgendo anche Giada sopraggiungere per ultima. «La principessa!», e fece un bell’inchino.

    Lei lo ricambiò. «Lieta d’incontrarvi, sire Lucio», disse. «Grazie per tutte le fatiche che avete sopportato per causa mia. I vostri amici mi hanno parlato molto bene di voi. Ma se mi è concesso saperlo, chi è l’uomo che vi sta accanto?», aggiunse, riferendosi a Ràzan con sospetto.

    «Un amico», rispose Lucio senza esitare. Ràzan guardava altrove, sfuggendo lo sguardo della principessa; un atteggiamento che non passò inosservato a Giada, che provava sommo ribrezzo verso gli insolenti.

    Assottigliando gli occhi lo fissò con maggior avversione e disprezzo. «I vostri compagni di viaggio mi dissero che eravate partiti in tre da Hòler-Cànder», replicò Giada.

    «Un amico incontrato lungo la strada», precisò Lucio sorridendo. «E un uomo che ti riporta per ben due volte l’arma perduta è degno di stima».

    La compagnia rise. Nòrys, da parte sua, guardò ammirato Ràzan. Secondo la tradizione dei Nani, recuperare un’arma, quando ormai è perduta, e riportarla integra al suo proprietario, equivaleva ad accaparrarsi l’amicizia sempiterna di tutta la Fiera Gente. Figurarsi se questo avveniva per ben due volte.

    Giada invece si difese da quell’ironia. «L’amicizia è preziosa», ribatté con puntiglio. «Esige tempo e prove per essere ritenuta tale».

    «È stata provata nel fuoco e nel sangue», rispose Lucio con serietà.

    Gli occhi di Giada scintillarono di ripicca. «Permettetemi almeno di darvi un suggerimento», disse pungente. «Siete un soldato. Prestate più attenzione alla vostra lama e cercate di non perderla ancora. Sarà un viaggio pieno di pericoli».

    Lucio annuì. «Cercherò di seguire il vostro suggerimento», rispose, mantenendo il sorriso. Ritenne inutile contestare ancora. Detestava infatti soffiare sul fuoco di certe dispute. Per questo evitò apposta di precisare chi furono, e di quale potere disponevano, quelli che lo avevano disarmato.

    Arkèmisis si sentì prudere i palmi delle mani, ma ritenne che prendere le difese di Lucio in quell’occasione non lo avrebbe certo messo in buona luce agli occhi di Giada e per questo preferì tacere. Appena presa questa decisione, si sentì un vigliacco e chinò la fronte.

    «Come riconosciuto recuperatore della lama di Lucio vi ringrazio per l’ineccepibile consiglio, principessa», interloquì Ràzan all’improvviso, facendo un elegante inchino.

    Arkèmisis lo ammirò ancora una volta per la scioltezza che sapeva ostentare.

    «Ma non disdegnerò ripetere ancora in futuro il mio nobile ufficio, se ne capiterà l’occasione», riprese l’Arcano, sogghignando beffardo. «Sono solo una comparsa, che si muove furtiva nell’ombra, fuori dalla scena. Non ho scalfito io la corazza della Creatura, né ho tenuto testa da solo all’Arcano Supremo. Non ambisco ad altri meriti. È già fin troppo glorioso il mio compito».

    Lucio alzò una mano e denegò esausto. «Parliamo di cose più liete, vi prego», disse con gli occhi scintillanti di dispiacere.

    L’astiosità di Giada s’incrinò. La giovane abbassò la testa, chiedendosi stupita perché mai Lucio avesse taciuto particolari tanto importanti, coi quali avrebbe potuto innalzare un solido muro a propria discolpa. Si chiese perché mai quell’uomo avesse deciso di accettare un’umiliazione simile. Molte altre domande affollarono la sua mente e con più distensione valutò quali formulare.

    Nel vedere quello sguardo Arkèmisis capì di aver commesso un duplice errore. Prima che Giada potesse rispondere sopraggiunse l’ufficiale, interrompendo la discussione. «Re Zèky chiede di vedervi al più presto, mio sire Nòrys», disse irrequieto.

    Il Nano annuì. «Bene. Voi restate qui», disse agli altri, mettendosi al seguito dell’Orco graduato.

    «Forse dovrei venire…», gli disse Giada.

    «Non ora», concluse Nòrys brusco. «Lascia che io parli per primo in confidenza con il mio maestro».

    Giada annuì dispiaciuta. «Certo. Scusami», disse, spostandosi nervosa il ciuffo dalla fronte.

    Giunsero sulla soglia della tenda e subito i due soldati di guardia scostarono i lembi dell’entrata. Lasciarono passare Nòrys, che s’intrufolò veloce, fendendo l’oscurità. Il vecchio re giaceva su un letto di frasche, imbottito di coperte piegate. Teneva le mani incrociate sul petto, sotto la bianca barba setosa, e respirava affannosamente, alternando il respiro a un fischio nasale.

    «Maestro Zèky!», esclamò Nòrys, avvicinandosi felice e allo stesso tempo addolorato. «Ci rincontriamo… dopo così tanti anni…».

    Lui allora si voltò e con le labbra riarse lo accolse, sorridendo paterno e meravigliato. «Mio caro Nòrys…», sussurrò, abbandonandosi di nuovo sul materasso di fortuna. «Sei tornato… ma temo che ormai sia troppo tardi…».

    Nòrys si fece avanti, per paura di non udire tutto.

    «Mio caro figliolo», gemette il re, mentre con una mano si toccò più volte il viso, cedendo al pianto.

    Nòrys s’inginocchiò accanto al letto, posando la fronte vicino al corpo di Zèky. Sospirò fortissimo, imprimendo sulle coperte il fiato caldo, laddove premeva la bocca. Si preparò così a ricevere le brutte notizie in tutti i loro funesti particolari.

    «Abbiamo perduto la grande capitale…», balbettò Zèky senza preamboli, con tono desolato. Nòrys strinse forte gli occhi, come se avesse ricevuto un pugno sul naso.

    «Òrgrud-Nòr è presa da legioni di Dimòrla…», proseguì Zèky. «E colui che brama il seggio di Leggendario Imperatore di Merìdia si è manifestato. Nòrys… egli non è un condottiero qualsiasi! L’Oblio ci ha mostrato l’Arcano Supremo! Non abbiamo saputo resistere… ci ha tenuti divisi e siamo caduti tutti… uno dopo l’altro… la sua magia ci ha sconfitti», e tremando sgomento si portò le mani ossute alla bocca, stringendole con violenza. «Queste mie mani…», ringhiò tra sé e sé, scuotendo la testa, incapace di credere alla realtà.

    Nòrys alzò uno sguardo affranto, mentre il re sobbalzava scosso da forti colpi di tosse. «Sono venuti per il Diadema… chi è rimasto a difenderlo?», chiese angosciato il Nano.

    Zèky si voltò di scatto, con rabbia. «Nessuno!», esclamò. «Nessuno è rimasto… solo Lagolimpido. Solo le sue fredde acque profonde. L’ultimo ostacolo di Tànantos l’Arcano è un lago, e in esso sono riposte tutte le speranze di Merìdia. I Draghi Divoratori sono alle porte… la fine è vicina… Tutto è perduto!».

    Nòrys chinò la testa sul materasso, lasciando passare del tempo. Poi sorrise, come trasportato in un luogo lontano. «Così l’uno e gli altri sono uniti. Diadema e Draghi. Una volta Sìgrin mi chiese che aspetto avessero i Divoratori», disse lentamente. «Non seppi cosa risponderle. Sìgrin è una mia amica. Una Fata», soggiunse.

    Zèky, nel sentire quella novità, riuscì perfino a sorridere. Un bagliore di gioia nel mare agitato del suo dolore.

    «Le spiegai che le Cronache non li descrivono», proseguì Nòrys.

    Zèky annuì, discendendo di nuovo nelle profondità della sua afflizione. «Sì… le Cronache omettono sempre la parola che precede immediatamente i Divoratori», disse il re con fatica. «Solo nel diario di Bàrtor viene svelata esplicitamente la loro forma. Draghi. Draghi Divoratori. Questo è il loro vero nome. Avrei dovuto dirtelo molto tempo fa, quando, di ritorno dalla necropoli, venisti a Òrgrud-Nòr per piangere da me il tuo dolore, eppure quel giorno mi sembrò solamente di arrecarti un’angoscia in più, un peso inutile aggiunto a quelli che portavi già. Non avrei mai pensato di arrivare a questo punto. Ho dimostrato ben poca saggezza tenendoti all’oscuro di tanti tenebrosi particolari! Parlammo del Diadema sepolto sotto il lago, del suo antico potere, delle armi e delle armature ad esso legate, ma sempre come manufatti relegati nel passato, sepolti sotto le Ere, lontani dalle nostre esistenze... fu poca cosa e ti chiesi il segreto su tutto quanto ti dissi.

    Soltanto adesso, quando ormai ogni cosa volge alla fine, sono chiamato a dissipare in te le ultime ombre di mistero sull’intreccio di una storia in cui i fili del Male sono stati più fitti e resistenti di quelli del Bene. Quel Male che ha covato a lungo, preparando la sua ora, infine è pronto a ridestarsi. È molto vicino a farlo. Nòrys… la porta del Reame dell’Oblio è il Diadema stesso, e se venisse issato sulla fronte di un mortale… i Divoratori volerebbero di nuovo su Merìdia e, ne sono certo, il loro principe maledetto li guiderebbe, risvegliando tutta la loro ferocia. Non si potrebbe desiderare un epilogo più catastrofico di questo…».

    «Tu l’hai affrontato…», mormorò Nòrys. «Non nascondermi la verità. Ha trovato la spada?», chiese con un filo di voce, adombrandosi di terrore.

    Zèky scosse la testa. «No…», disse. «Portava le Gemelle dell’Erosione e Demòrkanurk il Senza-Pace».

    Nòrys tirò il fiato.

    «Ma non rallegrarti troppo!», esclamò Zèky con tono di rimprovero. «L’importante è che non metta le mani sul Diadema! Ogni altro manufatto dei Draghi perde valore senza la grande Corona! E in questo momento Tànantos può specchiarsi impunemente sul lago dove essa è celata…».

    Nòrys si massaggiava la barba, riflettendo profondamente su un aspetto soltanto. Rimase un pezzo in silenzio, assente e meditabondo. «Il Principe dei Draghi…», mormorò infine. «Hai parlato dell’arrivo dell’Oscuro Nemico… perché dovrebbe risalire in persona? Nelle Cronache non viene raccontato che dopo la sconfitta contro il Santo egli inviava solamente i suoi servi?».

    «Merìdia era molto diversa da oggi, Nòrys», disse Zèky. «A quel tempo non avrebbe potuto. Vi erano molti Cavalieri dislocati in difesa di tutti i regni e…».

    «Tuttora ve ne sono», interloquì Nòrys.

    Zèky denegò stanco. «Siamo ben pochi, e al male si aggiunge il male, perché riguardo alle molte lettere di convocazione che avevo spedito agli altri Cavalieri, avvertendoli della minaccia, ecco sono rimaste tutte

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