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Camera 310
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E-book172 pagine2 ore

Camera 310

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Info su questo ebook

“I ricordi sanno di antico, narrano un mondo genuino ormai quasi del tutto smarrito” è questo il nodo centrale del libro di Rosemy che, grazie ai profumi e ai sapori della sua infanzia e dei suoi innumerevoli viaggi, ci fa rivivere in prima persona i suoi ricordi d’infanzia, permeati da un grande affetto e profondo amore. Quello di Rosemy è “Un desiderio ardente di mettere per iscritto questo mio amore per i viaggi, i ricordi, la memoria della mia infanzia e per Termoli.” “Un raccontare sereno di una speranza senza condizionamenti, di un intimo e puro grazie per il dono della vita: un documentario sulla natura e le sue bellezze, sulla storia e le sue nefandezze. Un racconto che alla maniera di un film registrato in dvd, non conoscerà la parola fine grazie a coloro che avranno la pazienza e la cortesia di leggerlo.
 
Rosemy Conoscenti nasce ad Ameglia (SP) il 25 ottobre del 1959. Si diploma al Liceo Classico Vescovile di Pontremoli ed in seguito frequenta il corso quadriennale di teologia. Amante del bel canto, dei classici e della scrittura, pubblica la sua prima raccolta di poesia I richiami del tempo nel 1988. Nel 1998 esce una seconda raccolta di poesie Antares dello scorpione e nel 2009 vede la luce il suo primo libro autobiografico La casa di Cerri. Sposata e madre di tre figli, ha insegnato storia delle religioni sia alle scuole medie che alle elementari, lasciando poi l’insegnamento per dedicarsi ai figli. Ha partecipato con successo a vari premi letterari aggiudicandosi il “S. Domenichino” nella categoria poesia singola. Attualmente si dedica alla stesura di altri racconti e romanzi sia autobiografici che di invenzione. Questa è la sua seconda esperienza con il gruppo Albatros il Filo dopo il successo del suo libro Hotel Meridiano.
LinguaItaliano
Data di uscita24 feb 2019
ISBN9788830600850
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    Anteprima del libro

    Camera 310 - Rosemy Conoscenti

    bambino.

    Capitolo primo

    la piana di Giza

    La piana sonnecchiava sotto il sole d’Egitto; George, la nostra guida, si perdeva in spiegazioni accalorate e sincere sul basso regno egizio, il lento caracollare dei dromedari scandiva lo scorrere del tempo nei minuti granelli di sabbia che il caldo vento africano faceva depositare nel risvolto dei miei pantaloni rigorosamente bianchi. Faceva caldo ma l’entusiasmo di trovarmi proprio lì davanti a quelle meraviglie studiate a scuola che il passare dei secoli aveva appena scalfito, fece da carburante e, a passo assai sostenuto, mi precipitai verso la piramide di Cheope per salirne i gradini almeno fino all’apertura che i Musulmani vi avevano praticato.

    Gli uomini del deserto, stretti nei loro barracani neri, passeggiavano con noncuranza tra i turisti impegnati in selfie, i venditori improvvisati mostravano compiaciuti le loro sfingi e canopi spacciandoli come capolavoro in alabastro, il sole impetuoso e tronfio dominava dall’alto del suo trono celeste velando l’orizzonte di mistica nebbia proprio lì nella piana di Giza si sarebbe concluso il nostro fantastico, romantico viaggio lungo il Nilo. Già sul Nilo, sapete quelle avventurose crociere sul Nilo, quelle grandi chiatte rimesse a nuovo e trasformate in navi, abbellite da ponticon sdraio e minuscole piscine, corredate di cabine spaziose ed accoglienti con enormi vetrate sul fiume?

    Niente di più romantico, niente di più eccitante!

    Quante volte avevo visto il film della Christie Assassinio sul Nilo e quante volte avevo fantasticato su quei luoghi così lontani dalla mia terra, così anticamente storici nella magnificenza dei templi, nei loro arzigogolanti geroglifici, nella possanza delle piramidi, nell’arcana figura della sfinge guardiana muta e solenne delle faraoniche tombe!

    George, guida colta e assai simpatica, anche lui abituato ai tour de force, cominciava ad accusare la stanchezza e si tergeva il sudore pur continuando a raccontare e spiegare la storia, gli usi e i costumi di quell’antica civiltà; io, eterna fanciulla, rocambolesca Peter Pan che rifiuta di crescere come vorrebbe la natura, mi godevo lo spettacolo mirabilmente scenografico, stramaledettamente eccitante.

    I miei occhi vagavano sperduti in estasi tra le tre piramidi più famose e la mostruosa sfinge dal corpo di gatto sornione e dal volto regale e solenne; stretta nel mio completo bianco, vano tentativo di tenere lontana la forza dei raggi solari, la testa ornata da un cappello di paglia a larga tesa, mi nutrivo di ogni piccolo istante in quel paradiso adagiato sulla sabbia di un bianco quasi innaturale e tuttavia troppo vicina alla città.

    La giornata era cominciata con la visita alla cittadella del Cairo, sublime costruzione protetta da mura con vicoli e strade lastricate, piccoli negozi e fontane e con la splendida moschea di alabastro.

    C’è silenzio in quel luogo, gli abitanti passeggiano per strada muti, avvolti nei loro abiti tradizionali: gli uomini coperti da lunghe tonache per lo più bianche e calzano scarpe di cuoio senza calze, taluni portano un turbante, le donne chiuse in abiti scuri se maritate e bianchi se ancora nubili ma tutte hanno il capo e il volto coperto. Gli uomini più osservanti la religione islamica si riconoscono da vistosi calli sulla fronte segno di preghiere intense ripetute più volte al giorno colpendo con la fronte i muri dove si trovano nel momento in cui il richiamo del muezzin invita alla preghiera e dalla folta e lunga barba che lasciano crescere in un determinato modo; le donne dimostrano la loro fede più profonda coprendosi il più possibile con burka, concedendosi la libertà di guardare attraverso la rete che cela i loro occhi sicuramente scuri e profondi e grandi come nocciole piemontesi.

    Durante la visita anche il gruppo tenne un comportamento consono al luogo: niente sigaretta per la strada, colloqui a bassa voce e abbigliamento il più possibile spartano e decente, sorrisi e non risa sguaiate, niente sguardi fissi sulle persone e contegno: camminare in questo modo, silenziosi, educati e contenuti è sicuramente educativo perché permette di vivere appieno la bellezza, di assaporare gli odori, di percepire i profumi, di godere la voce discreta del silenzio dalle mille sfumature. Quanto dovremmo farlo più spesso nel nostro mondo occidentale ormai troppo rumoroso e caotico, troppo frenetico ed indifferente!

    Sempre educatamente ed in silenzio salimmo la scalinata che conduce alla moschea, ci soffermammo nella piazza antistante dove troneggia la fontana delle abluzioni. Ci furono fornite sovrascarpe di plastica ed entrammo.

    C’è l’essenza di Dio nelle luce soffusa dei lampadari enormi e splendenti, nelle vetrate colorate, nei tappeti allineati per la preghiera rivolta là nel punto che guarda La Mecca. C’è lo spirito di Dio nel brivido che percorre la schiena mentre attonita ammiro l’immensità di quel luogo sacro. Ho pregato come prego nella mia chiesa, come prego la sera nella mia stanza, il mattino mentre sbrigo le faccende di casa. Sì, ho pregato anche lì perché Dio non ha nome specifico, non ha un luogo specifico ma vive nel cuore di tutti coloro che sinceramente lo cercano, palpita nei loro petti, nutre le loro anime, infiamma le loro menti, dà senso alla loro vita, ne ingrandisce le gioie ne lenisce i dolori. Non so dire quanto tempo sono restata lì ma so di essere stata bene, di essermi sentita a casa, null’altro aveva importanza al di là di quell’incontro con Dio in terra egiziana.

    La seconda tappa della mattinata ci portò al museo egizio perennemente in ristrutturazione, assai polveroso e decisamente diverso dall’idea che abbiamo noi dei musei ma non è questa la circostanza per soffermarmi nella descrizione delle meraviglie custodite al suo interno; per la verità ciò che mi sento di scrivere è che girando per le innumerevoli stanze stipate di suppellettili ed oggetti appartenenti ai faraoni, in special modo a Tutankamon, mi sono resa conto che in fin dei conti non abbiamo inventato proprio niente per rendere più piacevole la vita visto che già allora sapevano come fare! Naturalmente parlo dei ricchi... ma non è così anche oggi?

    Terminata la visita ci fu proposto di andare alla casa del papiro.

    Stupefacente come da una pianta che trae vita dall’acqua possano scaturire capolavori abilmente concepiti dall’uomo che anela a ricordare ed esaltare la propria storia che affonda le radici di fasti ambiziosi, di battaglie cruenti, di regine dagli occhi di aspide e di poveri schiavi nudi di vesti e madidi di sudore; la battaglia di Kaddesh (verità o mito? Si narra che il faraone sul suo carro dorato abbia sbaragliato da solo l’intero esercito nemico…), lo sposalizio del re sulla barca sacra, Nefertiti la più bella da vicino, Nefertari la più bella da lontano, poveri corpi anonimi percossi da fruste ed umiliati da insulti e poi scarabei dai colori pastello, gatti dalle scarne mascelle con lunghe orecchie e occhi di nume, colli eleganti adorni da collari regali e zampe affusolate in statuaria posa... c’era solo l’imbarazzo della scelta per i miei occhi rapiti dal nero colato su oro accecante, sul rosso rubino ed il celeste tendente al cobalto, il rigoglioso verde e l’antico bronzo dei cartigli!

    Non badavo alla sapiente spiegazione della lavorazione del papiro, piuttosto feci incetta di quelle meraviglie da rivivere e gustare a suo tempo nella mia casa di Ameglia. Ammiravo il gatto dal colore blu notte immortalato nel papiro e ripensavo alla Sfinge immensa, arcana, quale mistero si nasconde tra le pieghe del suo copricapo? Di chi è veramente il volto a cui la durezza del tempo e l’incuria degli uomini hanno sottratto la barba?

    Volevo quel papiro ed ora è con me, lo volevo perché amo i gatti, perché il mio micio Scintilla poggiato sulle sue quattro zampe, il muso diritto e la coda nascosta tra le cosce è la mia sfinge e sono certa quel colosso di pietra sia la celebrazione ottimale di questo felino così affettuoso eppure indipendente, meravigliosa creatura maestosa come leone, sinuosa come tigre, traditrice come pantera ed infinitamente tenera come cucciolo d’uomo. Amo i gatti perché vedo in loro la vera forza della libertà e la vera dolcezza dell’amore e quando Scintilla si accovaccia sulle mie ginocchia, stanco come chi ha appena fiaccato la preda e mi fa le fusa, il mio cuore si scioglie in dolcissimo affetto, in grata riconoscenza a Dio per questa creatura.

    Ancora immersa con lo sguardo sul papiro sentii il richiamo di George alla comitiva: dovevamo andare a pranzo in un ristorante poco lontano.

    Anche se il caldo era quasi insopportabile nessuno di noi pareva aver perso l’appetito anzi, l’idea di sperimentare nuovi piatti e assaporare nuovi accostamenti di gusti ed aromi ci solleticava e l’acquolina prese a salire attraverso le nostre papille gustative fino ad invadere tutta la bocca.

    Pigramente, comunque, ci avviammo verso la nostra meta.

    Capitolo secondo

    Tempo di olive

    Il gorgoglio dell’olio ambrato che scende denso sull’insalata dandole aroma e consistenza, narra di fredde giornate trascorse alla Costa, di mani gonfie e arrossate dal freddo, di sacchi di iuta portati a fatica lungo il sentiero, di riti lontani persi tra le pieghe del tempo.

    Raccolgo col dito l’ultima goccia che incerta dondola sul tappo dell’oliera, porto l’indice alla bocca e assaporo l’intenso gusto di olive appena spremute dal torchio che ricordano l’aspro sapore delle crude foglie di carciofo appena intinte nel pinzimonio.

    Quest’anno gli ulivi sono carichi, daranno un buon raccolto e avremmo olio in abbondanza.

    Fiera, la Gugliè, osservava i rami piegati dal peso delle verdi olive che a grappoli pendevano tra le foglie di un verde più chiaro e cangiante.

    Io, stretta nel mio giubbottino pesante, mi soffiavo alito caldo sulle mani sprovviste di guanti e pensavo alla fatica di dover raccogliere i frutti sbattuti a terra dal vento, perché a quel tempo non avevamo le reti per la raccolta.

    La nonna appoggiava le mani sui fianchi cinti da un logoro grembiule a quadretti inarcando le braccia e pensava alla giara stracolma posta in cantina da cui avremo spillato l’olio fragrante e nostrale mentre io, la piccola Rosemy, pensavo al prurito delle ginocchia sull’erba appuntita e secca, ai geloni alle dita intente a piluccare le olive sparse qua e là sul terreno.

    Mi rivedo bambina dai riccioli scuri e ribelli con le sopracciglia folte e i miei occhi neri, grandi, sgranati sul mondo; io e il mio piccolo mondo fatto di poco eppure così vivo e intenso, io e la mia voglia di Natale, di stoccafisso in umido con la polenta, io e il mio affetto sviscerato per la nonna dai capelli raccolti in uno chignon ingrigito dagli anni e dalla fatica di crescere vedova tre figli di cui uno un po’ ribelle, i suoi vestiti sempre troppo da vecchi e i suoi ampi grembiuli che le coprivano lo scoso ma soprattutto la sua risata senza vergogna benché senza denti.

    Nonna ma io ho scuola!.

    Non ti farà male perdere qualche lezione, anche questa è scuola!.

    Come aveva ragione! Quante cose si imparano dai vecchi e dalle loro tradizioni! Sono esperienze di vita vera e di sano lavoro.

    Quanti bambini oggi sanno dire cosa sia un frantoio e quanti di loro saprebbero spiegare attraverso quali procedure si arriva a produrre da un sacco di olive un extra vergine e quanti saprebbero dire cos’è la morchia?

    E si partiva il mattino presto a novembre col paniere alla mano, guarco in testa e tanta tanta buona volontà, anche se il sonno ci avrebbe ancora tenute con sé in un abbraccio di caldo tepore.

    Il sentiero che porta alla Costa oggi è quasi una strada e si può percorrere in auto, ma allora... Allora era tutto più complicato: niente cementificazione, niente tecnologia, niente di niente… eppure ogni cosa aveva un senso, ogni istante della vita aveva un suo perché. Ogni parola, ogni gesto, portava in sé un qualcosa di magico, di fiabesco, di meraviglioso stupore di vivere.

    Si scendeva da via Paganini fino ad arrivare alla madonetta del ponte, poi si saliva verso il bozo del Carnevale quindi si saliva e si saliva ancora.

    Già il bozo!. Semplicemente un fossato che in tempi andati veniva riempito d’acqua nel periodo del carnevale per

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