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I tesori nascosti della Sardegna
I tesori nascosti della Sardegna
I tesori nascosti della Sardegna
E-book392 pagine3 ore

I tesori nascosti della Sardegna

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La Sardegna è un’isola segreta e sconosciuta: è una terra che immancabilmente continua a nascondersi a chi si sente convinto di averla trovata. Dove gli spazi sono selvaggi e incontaminati, tra cittadelle antiche e villaggi moderni, la natura custodisce ancora tesori incredibili e ricchezze insperate. Tra le valli poco lontano dal mare riposano i ruderi abbandonati di attività industriali dismesse. Sui fondali di rena bianca si adagiano relitti maestosi con le loro storie di sangue. Ci sono gatti, nel più piccolo borgo di pescatori dell’isola, che vivono in spiaggia e non temono l’acqua. Poi sorgenti miracolose e fonti che fanno impazzire, retabli maestosi e crocifissi feriti, balene di pietra che sembrano vive e santuari tra le rocce quasi dimenticati. La Sardegna, terra ricca di miracoli e malie: una lunga storia da raccontare, 101 tesori da scoprire.


Antonio Maccioni
è originario di Scano Montiferro (Oristano). Laureato in Filosofia, è dottore di ricerca in Letterature comparate. Si è interessato di filosofia della religione, estetica, storia della filosofia russa e contemporanea. Ha lavorato nella redazione di alcune case editrici e si è occupato di cronaca locale. Con la Newton Compton ha pubblicato I tesori nascosti della Sardegna, Alla scoperta dei segreti perduti della Sardegna, 101 perché sulla storia della Sardegna che non puoi non sapere e, scritto con Gianmichele Lisai, Il giro della Sardegna in 501 luoghi.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854147003
I tesori nascosti della Sardegna

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    I tesori nascosti della Sardegna - Antonio Maccioni

    PARTE PRIMA

    L'ACQUA E I TESORI

    SOMMERSI

    1.

    LE PROPRIETÀ DELL’ACQUA DI SAN LEONARDO DI SIETE FUENTES

    L e acque dell’isola, dove la religione si invaghisce di antiche superstizioni, tra pozzi sacri scampati ai millenni e riti propiziatori, sono cosa divina da quando gli uomini erano giganti e la terra era puntellata da megaliti incredibili. L’assenza e la scarsità dell’acqua, secondo gli antropologi, avrebbero inciso sui destini della Sardegna: perché dove c’era l’acqua c’era la salvezza; perché l’acqua segnava il confine tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti, aveva sempre bellezza tagliente e chiedeva di essere venerata; perché l’acqua conosceva il segreto della vita, possedeva le storie, esercitava attrazione. L’acqua si faceva sempre vedere purissima: prendendo velocità dopo aver tradito le nubi, o scoprendosi tra la terra e la roccia perché voleva sedurre.

    In Sardegna ci sono dei luoghi in cui l’acqua sembra avere poteri soprannaturali, capaci di far perdere la ragione agli uomini. Dicono che una fonte di Tonara, nella Barbagia di Belvì, faccia diventare scemi e venire il gozzo, e qualcosa di simile si ripete dalle parti di Cuglieri nel Montiferru, poco lontano da Oristano. «Cust’aba er maghiargia, Michè, ponete alegria!», dice Mintonia in un romanzo di Salvatore Niffoi. «L’acqua è una strega che ci fa le magie, mette allegria! », dice la giovane ormai gettata oltre la spuma del litorale, presa per mano da Micheddu, stretta a lui come in una morsa dopo l’amore. L’archeologia e il costume conservano ancora i resti di antiche credenze e culti ancestrali: in tempi diversi si legava comunque il tesoro liquido a un dio forte e potente che andava temuto. La pioggia veniva invocata. Si era convinti che in prossimità dei pozzi sacri, nell’età dei nuraghi, i sacerdoti potessero divinare guidando i fedeli che deponevano ex voto: si imploravano grazie, si chiedevano guarigioni. Nel VI secolo d.C., papa Gregorio Magno ancora si stupiva, lamentando che in Sardegna, a distanza di seicento anni dalla morte di Cristo, intere comunità vivessero come gli animali adorando i tronchi degli alberi e persino le pietre.

    Ma era forse un modo per cercare Dio: frammenti di antichi culti si riflettono ancora nella cristianità dell’isola. Ci sono posti dove le Madonne arrivano dal mare: talvolta riposano negli abissi, o vengono restituite dalle onde, come è successo a Cagliari, a Bosa, a Cuglieri. A Cabras c’è un’acqua prodigiosa che cura i mali e i dolori: veniva usata per difendere dalle maledizioni gli strumenti dei pescatori della laguna. I coralli restituiti dagli abissi guarivano dalla tosse e prevedevano le morti, i fili delle nacchere marine venivano e vengono usati per cucire gli abiti più preziosi: solo chi riusciva a guadagnarsi un’intesa misteriosa con l’acqua li poteva e li può ancora trovare. A Scano Montiferro, in località Sant’Antioco, si venera un dottore che ha fatto miracoli vicino a una delle più grandi fonti della Sardegna. Nelle prove ordaliche c’era un’acqua che rendeva ciechi i colpevoli e rafforzava la vista degli innocenti. Nel territorio di Santu Lussurgiu, nell’Oristanese, si prega a San Leonardo dove c’è una chiesa frequentata da secoli: si può sempre godere dell’acqua delle sorgenti omonime, conosciuta per le sue proprietà diuretiche, liberata da sette fontane. Qui le casette dei novenanti, a cui si sono aggiunte alcune recenti villette, si accostano alla cappella come nodi di una comunità che si è attorcigliata alle ancestrali sorti del tempio. L’acqua è maghiargia, ci fa le magie. Oggi dalla località di San Leonardo, guardando verso sud nelle giornate più limpide, si vedono i monti della Barbagia e la valle del Tirso; a nord il monte di Sant’Antonio, nel territorio di Macomer, segna la frontiera tra il Marghine e il Montiferru. Alcuni documenti testimonierebbero la presenza di un priorato di Septem Fontanas dal XII secolo d.C.; altri parlano di monaci benedettini, mentre alcuni studiosi concentrano l’attenzione sulla frequentazione del sito da parte degli ospedalieri gerosolimitani e dei cavalieri di Malta. Dove la chiarezza dell’acqua consolava i malati e l’aria pura favoriva il riposo, alla metà del Trecento, nel cuore di un bosco di lecci e di querce, una chiesa già esistente veniva ampliata e restaurata, secondo architetture che si definiscono di transizione romanico-gotica. Gli studiosi avrebbero trovato le tracce di un antico monastero, difficili da decifrare, tuttora materia di studio e di vivo dibattito.

    2.

    LA CASSA CONTESA DI SANTA MARIA DELLA NEVE

    A ll’interno della basilica di Santa Maria ad Nives, a Cuglieri, poco lontano dal golfo di Oristano, nei pressi dell’altare, è possibile ammirare un simulacro della Vergine avvolta da un mantello azzurro – un velo bianco si posa dolcemente sui suoi capelli bruni. È necessario oltrepassare i ventotto metri di lunghezza della navata per inoltrarsi nel presbiterio. Realizzata in marmo policromato da un artista di area culturale iberica (a detta degli studiosi, probabilmente, tra il XV e il XVI secolo), venne poi parzialmente ricostruita in legno. La sua immagine sarebbe scampata a un fulmine, nel terzo decennio dell’Ottocento, che causò gravi danni in prossimità dell’altare. Il simulacro porta con sé nella mano destra un mazzo di gigli e rose – sostituisce la rosa che stringeva un tempo – e ha il capo leggermente reclinato verso sinistra, a sostegno del bambino che a sua volta regge il globo terracqueo. Tra il 5 e il 7 agosto, la fede popolare rinnova ogni anno con una festa la tradizione.

    In Sardegna è risaputo che ci sono prodigi voluti dal mare. Come in altri casi – quello della Madonna di Bonaria a Cagliari e di Santa Maria del Mare a Bosa – anche a Cuglieri si custodisce il miracolo di un pezzetto di cielo che venne dall’acqua. Un gruppo di pescatori – in un tempo che oscilla tra il XIII e il XV secolo secondo le versioni della tradizione – trovò una cassa in legno nei lidi dell’odierna Santa Caterina di Pittinuri. Una folla incuriosita si radunò sulla spiaggia e, all’interno del forziere, con grande stupore di tutti, venne immediatamente riconosciuto un simulacro della Vergine con il bambino: dopo una dura diatriba con i pescatori che arrivavano a frotte dal Campidano, venne stabilita di diritto la paternità ultima della scoperta. Il tesoro sommerso avrebbe viaggiato verso Cuglieri. Si decise per questo di trasportare la Vergine alla chiesa parrocchiale di Santa Silvana, l’attuale Santa Croce, poi divenuta semplice cappellania nella periferia meridionale del paese: sarebbe stato un viaggio breve.

    La Madonna venuta dal mare fu caricata sopra un carro trainato dai buoi: Cuglieri distava all’incirca quindici chilometri dal luogo esatto della scoperta. Ma giunti a destinazione, apparentemente senza ragione, le bestie rifiutarono di trattenersi in prossimità della chiesa: la folla incontrò nel frattempo una giovane sconosciuta – era dolcissima e teneva in braccio un bambino – che invitò a lasciar proseguire il carro per la sua strada. Così, dopo essersi diretti verso il bosco di querce secolari che si estendeva sul colle Bardosu, dove il paese è ancora oggi abbarbicato, inspiegabilmente i buoi si fermarono.

    Nella notte, secondo la leggenda, ci fu una grande tempesta. Con un cumulo di neve e ghiaccio – e con l’incredibile sostegno del vento – per tradizione si crede che la Vergine stesse modellando il prototipo originale di una splendida chiesa: la casa bella e nuova che avrebbe voluto. Un gruppo di muratori, sul far del mattino, rimanendo estasiato alla vista dell’incredibile costruzione d’acqua, decise di puntellarla per renderla stabile: un grande fuoco avrebbe poi forgiato il tempio nella sua definitiva struttura.

    È un dato certo che l’edificio, le cui origini rimangono ancora avvolte nel mistero, nel 1682 fu interessato da un rovinoso crollo, poi da ricostruzioni e ammodernamenti in tempi successivi, per essere riconsacrato nel 1779, e più volte modificato e rammodernato ancora. L’organismo – molto vicino alla cattedrale di Bosa, con la quale condivide probabilmente anche progettisti e maestranze, a detta degli studiosi, oltre agli schemi iconografici e decorativi – venne aggregato alla basilica di Santa Maria Maggiore in Roma nel 1892, quando fu incoronato il simulacro della Madonna con il bambino, per diventare basilica minore nel 1919. Tra le ultimissime cronache legate alla ricostruzione dell’edificio, si ricordano ancora le decorazioni dell’artista Emilio Scherer, le cui pitture murali scomparvero a loro volta, per essere sostituite negli anni Sessanta del secolo scorso da riquadrature in stucco bianco di stile barocco.

    3.

    MEMORIE DI ADRIANO NEL PORTO DI CAGLIARI

    N el mese di settembre del 2009, nelle acque melmose del porto di Cagliari – la città col mare dentro che trovava e trova confine in via Roma, dopo le salite e le discese, dove si sviluppavano tre cantieri di indagine archeologica, rispettivamente collocati nei pressi del molo Sabaudo, del molo Ichnusa e del molo Garau – tornarono alla luce ventisette preziosi sesterzi di romana memoria: presentavano l’effigie degli imperatori Adriano, Traiano e Vespasiano. Nelle vicinanze dello scalo che si faceva porto dei miracoli, gli abissi che avevano nascosto e custodito la storia cedevano finalmente anche loro il passo: il centro maggiore dell’isola – l’unica vera grande città della Sardegna – si dissolve da quelle parti come una collina di fuoco sull’acqua, poco lontano dalla stazione ferroviaria che tenta di aprirsi agli angoli più lontani e dimenticati dell’isola. Spiegava in quei giorni l’archeologo Ignazio Sanna, rivolgendosi al giornalista Andrea Piras del quotidiano «L’Unione Sarda»: «In origine erano custoditi in un sacchetto di pelle o comunque di altro materiale organico che si è dissolto. Nelle immediate vicinanze non abbiamo infatti trovato né i resti di un contenitore in ceramica né in legno» ¹. Si trattava di monete realizzate in oricalco, una lega di rame e zinco che dava al metallo un aspetto simile a quello dell’oro: qualcosa che portava comunque lo stesso nome del minerale incredibilmente prezioso che sgorgava un tempo – secondo il racconto dell’antico Platone – dalla terra della perduta e leggendaria isola di Atlantide.

    In seguito al ripascimento della spiaggia del Poetto, che ha di recente portato una certa agitazione tra i fondali intorno a Quartu e a Marina Piccola, quella terra fine piuttosto amata e idealizzata dal cagliaritano medio – «del mare di maggio al tramonto li esalta il profumo di albicocca matura appena aperta coi denti», scriveva Sergio Atzeni nel romanzo Il quinto passo è l’addio – è stato riscoperto il relitto di un’imbarcazione, riemerso, probabilmente, anche col favore delle insistenti mareggiate. Pensavano si trattasse di una nave francese del Settecento: in seguito all’analisi di laboratorio condotta su un cannone, in particolare, si è però prospettata una nuova datazione, che ha rivalutato l’imponente reperto come un’imbarcazione spagnola del Cinquecento. Continua, Atzeni, e dice che gli stranieri che a Cagliari hanno fiutato «i profumi del mare di maggio all’alba, a mezzogiorno, di pomeriggio e a sera, non hanno più lasciato la città, inventandosi mille mestieri per campare e trovando mogli o mariti di rara bellezza». Il tesoro del porto di Cagliari, insieme al relitto del Poetto, ha trovato uno spazio di esposizione al pubblico in occasione della mostra temporanea Le stive e gli abissi presso il centro comunale di arte e cultura Il Ghetto di Cagliari, insieme a circa trecentocinquanta reperti rinvenuti nell’area marina che si estende tra la città che guarda a dove comincia l’Africa e il silenzio di Oristano.

    ¹Andrea Piras, Memorie di Adriano in fondo al mare, in «L’Unione Sarda», 13 settembre 2009.

    4.

    LA FONTE DEI MIRACOLI ALLE SORGENTI DI SANT’ANTIOCO

    Curazis sos appestados

    Et infirmos cuntagiosos,

    Mudos, topos, azzegados,

    Ulcerados, e lebrosos

    De canes mossos rabbiosos

    Curazis senza dolore²

    I l territorio compreso all’interno dei confini di Scano Montiferro, nel Montiferru propriamente detto, è ricco di sorgenti e corsi d’acqua. Arrivano umidi i venti dal mare: sono frequenti anche le precipitazioni occulte, legate a complessi fenomeni di condensazione notturna. Fiumi e vene sepolte rendono vivace la vegetazione, bagnano i campi: come le preziose fonti in prossimità delle quali sorge la chiesa dedicata al martire Antioco – un medico di origini africane, che fu devoto al Vangelo e venne mandato a morire sull’isola omonima – a pochi chilometri dal centro abitato. La purezza del Santo è presidio dell’acqua, la fede popolare lo ha invocato nei secoli: si domandano grazie destinate agli infermi, costantemente si implora che il corpo guarisca.

    Nell’omonima località si celebrano tre feste l’anno: nel mese di aprile (il lunedì successivo alla seconda domenica di Pasqua), di agosto (l’ultimo lunedì) e di novembre (in occasione dell’anniversario della morte del santo, avvenuta nel 127 d.C.). Il simulacro del martire, durante la prima e la seconda ricorrenza festiva, viene portato in processione dalla chiesa parrocchiale di Scano Montiferro fino alla dimora furto tentato dagli abitanti del vicino centro di Sindia – che si affaccia al Nuorese – sventato grazie alla complicità silenziosa di elementi naturali che furono propizi: il carro in legno utilizzato per la rapina si sarebbe impantanato in una giuncaia. Terra mista ad acqua.

    Della statua si conservano due differenti versioni: l’antico simulacro in legno, custodito in una cappella della chiesa dei Santi Pietro e Paolo, restaurato e revisionato dall’artista locale Isidoro Delogu; una versione relativamente più recente, acquistata al prezzo di quattro gioghi di buoi domati, giunta nell’isola dal continente negli anni Trenta del secolo scorso.

    La chiesa campestre di Sant’Antioco – un’unica aula orientata a occidente, le cui strutture sono state rimaneggiate nel corso dei secoli, accompagnata dai pendentes utilizzati un tempo come dimora dai novenanti – secondo le ricostruzioni più note sarebbe stata edificata intorno al 1636; nei primi anni del secolo, dopo che vennero riportate alla luce le spoglie del martire, il gesuita scanese padre Salvatore Pala, che insegnava presso la facoltà di Teologia di Cagliari, ricevette in dono una vertebra del santo. La grande venerazione che si diffuse rapidamente per la reliquia – per quanto il culto in questione fosse già conosciuto in diverse zone dell’isola – fu probabilmente all’origine della costruzione del tempio.

    illustrazione

    Dalla facciata sporgono conci in arenaria, impiegata anche per realizzare le grandi lastre che ricoprono il pavimento interno; nel corso dell’Ottocento venne inoltre acquistata una tavola dipinta a olio con l’immagine del Martire, realizzata dal pittore svizzero Emilio Scherer e per tradizione data in pegno all’altare durante l’assenza del simulacro.

    L’esperto di storia locale Nanni Delogu ricorda una singolare deposizione registrata nel processo per i miracoli risalente al maggio dell’anno 1593: alcuni evento fosse effettivamente avvenuto in prossimità delle sorgenti del Montiferru. Una donna che soffriva in forma piuttosto grave di scrofola – un’infezione tubercolare che causava alla poveretta tumefazioni piene di vermi – dopo avere assistito alla messa rivolse ad Antioco una preghiera di intercessione che la sollevasse curandola dalla gravissima infermità. Rientrando a casa – e passando naturalmente in prossimità delle fonti, dove l’acqua dei miracoli custodisce ancora il segreto sommerso della sua guarigione – fu «sanata nelle parti malate e liberata dalle tumefazioni».

    Del resto è già soprannaturale poter sostare almeno un poco da quelle parti, certe sere d’inverno con i parcheggi vuoti quando la strada è bagnata di pioggia, mentre il movimento delle fronde degli alberi traccia l’aria intorno e tutto è silenzio: dalla stessa terra prodigiosa sgorga l’acqua destinata a percorrere i chilometri delle reti idriche di decine di centri abitati, dove la Sardegna diventa Planargia e si trasforma nel Marghine.

    ²Dalla quarta strofa dei Gosos de su Gloriosu Martire Sant’Antiogu, cantati nella località presso Scano Montiferro durante la novena in onore del santo: «Curavate gli appestati / e gli infermi contagiosi / i muti, gli zoppi, i ciechi / gli ulcerati e i lebbrosi / dei cani i morsi rabbiosi / curavate senza dolore».

    5.

    UN SATIRO NAUFRAGATO NELLA LAGUNA DI SANTA GIUSTA

    «L e mani guantate dell’archeologo», scriveva Andrea Piras nel marzo del 2011, «hanno spostato delicatamente l’ultimo strato di melma che ricopriva quel manufatto misterioso, sepolto nel fondo dello stagno, muovendosi lentamente ma decise come fossero un ventaglio subacqueo» ³. Nella laguna di Santa Giusta – località fondata dai Fenici con il nome di Othoca – quasi ai limiti del Campidano, un giacimento sommerso tornava pian piano alla luce: manufatti e reperti in ceramica e in legno testimoniavano della presenza in quel territorio dei Fenici prima, dei Punici poi, tra il VII e il III secolo a.C.

    Nel cuore liquido della terra che guarda a Oristano, dove la pianura si distende, durante una campagna di scavo diretta da Ignazio Sanna, è riemerso in superficie un volto dai caratteri morfologici che sono stati considerati negroidi, evidenziati da labbra prominenti e carnose, con i capelli crespi e il naso schiacciato, la fronte rugosa solcata da linee profonde, rimasto nascosto per 2400 anni. Il satiro di Santa Giusta secondo gli archeologi portava forse sul capo una corona, forse un paio di corna di animale andate perdute.

    Scriveva Walter Porcedda nel febbraio del 2012 per il quotidiano «La Nuova Sardegna», raccontando alcuni particolari sul fortunato rinvenimento:

    Ignazio Sanna, quella mattina di un freddo gennaio di tre anni fa, non credette ai propri occhi. Immersosi sotto un cielo plumbeo,

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