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Il regalo del Nawruz
Il regalo del Nawruz
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E-book229 pagine3 ore

Il regalo del Nawruz

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Info su questo ebook

Il Nawruz, il capodanno persiano che corrisponde all'equinozio di primavera è al centro della storia di Yasir, un giovane afgano di Herat che scopre per caso di essere un talento della boxe proprio il giorno del Nawruz durante il tradizionale pic nic con la famiglia. Adolescente, la sua vita scorre attraverso l'ascesa del movimento talebano e il trasferimento in Iran dove il giorno del Nawruz di qualche anno dopo, Yasir vince un torneo intercontinentale di pugilato nella categoria mediomassimi. Con la cacciata dei talebani la famiglia del giovane rientra ad Herat dove il padre medico incontra un collega americano e a Yasir viene offerta l'opportunità di combattere da professionista negli Stati Uniti.

Seppur lontano da casa, la ricorrenza del Nawruz continua ad illuminare la vita del giovane Yasir fin quando nel mezzo della sua carriera da pugile, il giovane decide di lasciare gli Stati Uniti e far ritorno in un Afganistan profondamente cambiato per arruolarsi nella polizia e servire il suo Paese.
LinguaItaliano
Data di uscita26 mar 2019
ISBN9788831610308
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    Anteprima del libro

    Il regalo del Nawruz - Gianluca Ellena

    Nawruz

    L’inizio quel lontano giorno di Nawruz

    (…) Quando Allah ebbe fatto il resto del mondo, vide che gli era rimasta una certa quantità di materiale che non si adattava a nessun posto. Raccolse tutti questi residui e li gettò sulla terra. E quello fu l’Afghanistan. (Anonimo)

    Era un giorno di primavera, il giorno di primavera per eccellenza, per l’appunto il Nawruz, come tutti gli anni i miei genitori organizzavano il pic-nic che riuniva tutta la famiglia. Seduto accanto a mio padre, zio Abed, suo fratello minore che veniva da Farah city con mia zia Fatima e i tre figli, i miei tre cugini, Mahmood, Qalat e Qasim, un gigante che mi ricordava un lottatore che avevo visto in televisione.

    Qasim era la mia ossessione: era un violento, un energumeno e un invidioso. Quando trascorrevamo le festività insieme il suo sentimento di invidia covato e maturato tutto l’anno esplodeva traducendosi in atti di prepotenza che si concretizzavano in sessioni di lotta libera dove per anni avevo avuto la peggio. Zio Abed sorrideva bonario nel vedere l’energumeno sottomettermi, mio padre mi trasmetteva il suo tiepido disappunto, attendeva e rimaneva nel suo saggio e paziente silenzio. Mio padre era un medico, un lavoro che gli aveva permesso di vivere agevolmente durante l’occupazione sovietica e gli avrebbero permesso di sopravvivere decentemente negli anni dell’Emirato dove le sue riconosciute abilità di ortopedico risultarono utili nel tormentato ospedale di Herat, città dove vivevamo con mia madre e il mio unico fratello Faraj.

    Il primo picnic del Nawruz era il nostro picnic, un po’ invidiato perché non mancava nulla di ciò che la tradizione imponeva, dal pesce fritto con Jelabi ai diversi tipi di biscotti che mia madre preparava per la verità con un po’ di nervosismo conoscendo le sentenze culinarie di sua cognata, mia zia Fatima, la madre di Qasim.

    Mia madre ci teneva che io e il povero Faraj ci vestissimo bene senza però fare sfigurare i cugini, quella sensibilità non l’avrei mai dimenticata; noi eravamo i cugini di città, Qasim e i suoi venivano da un villaggio polveroso a dieci minuti dalla città di Farah, per loro, noi eravamo i parenti di Herat, splendida con le sue biblioteche, i suoi cinema e l’ università di medicina su cui mio padre posava il suo severo sguardo bramoso di vedermi un giorno professore.

    Quel lontano giorno di Nawruz, dopo aver mangiato la mia parte di biscotti, notai che Qasim si stava preparando alla sessione stagionale di lotta libera mio malgrado. Gli uomini discutevano a bassa voce e le donne si erano appartate; Qasim mi venne incontro e, strattonandomi mi condusse verso il campo in terra battuta dove qualche anno dopo i talebani avrebbero amministrato la loro giustizia in maniera esemplare. Avevo mangiato con avidità sfuggendo però allo sguardo rigoroso di mio padre che era solito rimproverarmi per come mi avventavo sui dolci che faceva mia madre, il primo pic-nic del Nawruz di tanto tempo fa stava per concludersi con un mio atterramento e una risata ironica di mio zio Abed che sottecchi  avrebbe assistito alla mia ennesima sconfitta stagionale, mio padre sarebbe rimasto nel suo silenzio che mi avrebbe fatto più male della violenza fisica di mio cugino Qasim. Ho sempre creduto in Allah e nei segni mandati dal cielo. Quel pomeriggio di primavera Qasim mi caricò come un rinoceronte ed io – come se un demone si fosse impossessato del mio corpo – a pochi centimetri dal contatto delle sue morse lasciai partire un pugno scaricando con scientifica inconsapevolezza una buona parte del mio peso.

    L’incontro fra il mio pugno e il naso di Qasim fu perfetto: non provai dolore, segno che il pugno era stato sferrato perfettamente, avvertii solo un cedimento che poi compresi essere della cartilagine nasale di mio cugino che a seguito dell’impatto finì seduto per terra. Ricordo l’espressione sul suo viso: a distanza di anni ce l’ho stampata nella memoria, meravigliato, attonito.

    Io lo fui più di lui. Mi soffermai a guardare il pugno che aveva colpito mio cugino, quel jinn che era entrato in me mi aveva probabilmente risparmiato dal compiere una successiva cattiva azione; all’improvviso calò il silenzio. Qasim rinvenne, da lontano notai lo sguardo sorpreso di mio zio Abed, solo sorpreso, non contrariato. Il mondo si era fermato per qualche istante, gli stessi passeri smisero di cantare. Ricominciò a girare quando Qasim passò dall’incredulità ad una risata grassa, il suo volto tumefatto lo fece assomigliare ad un’altra persona che avrei incontrato più avanti e che sarà il responsabile di una mia nuova scelta di vita. Le giornate non ancora abbastanza lunghe della tiepida primavera non permettevano pic-nic prolungati e forse quello era il vero fascino di quel ritrovo che io amavo malgrado le prepotenze di mio cugino. Quel giorno tuttavia le cose cambiarono per sempre.

    Attesi la punizione di mio padre, appena vidi accomiatarsi lo zio Abed che si sarebbe recato da un suo cugino con tutta la famiglia, con il fatalismo che contraddistingueva il mio affrontare l’imminente adolescenza attesi pregando Allah il Misericordioso.

    Un’altra scuola

    Non ho mai amato lo studio, mio padre lo sapeva come io sapevo che lui pregava affinché potesse essermi infusa la voglia di studiare e di intraprendere una buona università. Tutto ciò avveniva nel silenzio della nostra comunicazione.

    Mia madre guardava mio fratello come solo una madre ferita dal dolore può e sa fare; Faraj era nato con una malformazione cardiaca per la quale gli specialisti interpellati nutrivano poche vie d’uscita. La fede in Allah ci spinse a sperare, io pregavo forte e di nascosto, il nostro rapporto con la fede era intenso ma riservato, mia madre sussurrava preghiere, io soffrivo e speravo. Mio padre riuscì a far visitare mio fratello da un medico cardiologo russo che malgrado si fosse mostrato più umano di quello che avrei mai potuto immaginare non ci dette grosse speranze. A dieci anni compresi che i silenzi di mio padre erano principalmente dovuti a questa sventura, lui medico, incapace di curare suo figlio considerato da tutti un bambino prodigio per quanto riguardava il profitto scolastico. I miei buoni risultati provenivano dal mio professore di religione che mi considerava molto portato allo studio della lingua araba, la lingua del Sacro Libro per il quale avevo sempre nutrito una rispettosa passione. Malgrado non costituissi una fonte di problemi per la mia famiglia, il mio rendimento scolastico era quello dello studente che non spendeva sé stesso negli studi e questo in alcuni casi irritava i miei insegnanti che avevano ricevuto mandato da mio padre di essere oltremodo duri con me. Tornando al pugno, mio padre attese qualche giorno prima di portarmi in città dove incontrammo davanti alla mia gelateria preferita mio zio Abed sempre sorridente.

    Il mio cuore batteva forte perché per un attimo pensai che saremmo andati a visitare il povero Qasim all’ospedale, il senso di colpa che mi aveva braccato per l’intera giornata cambiò preda quando mio padre e mio zio mi condussero verso un’altra scuola, una palestra di cui avevo sentito parlare un mio compagno di scuola.

    Qasim stava bene, era dagli altri cugini di Herat, zio Abed che da giovane era stato uno sportivo mi aveva accompagnato da un suo conoscente originario del Turkmenistan, il suo nome era Omar, era stato una medaglia d’argento ai giochi dell’Unione Sovietica negli anni settanta e da qualche anno gestiva una palestra di pugilato nel centro storico di Herat.

    «Questa è una scuola di vita mio caro nipote!» Mi aveva detto zio Abed con gli occhi pieni di commozione.

    Mio padre per la prima volta da quando Allah mi dette la capacità di comprendere, restò un passo indietro rispetto a mio zio che in quel momento era salito in cattedra; era stato campione nazionale di lotta libera dopo una breve parentesi nel sollevamento pesi che gli fruttò una medaglia di argento di cui era sempre andato fiero. Nella lotta non ebbe la stessa fortuna malgrado la reputazione da sportivo che si portava con orgoglio, derivava esclusivamente dalla lotta, sport molto popolare in Afghanistan.

    I suoi occhi brillavano, io sarei stato ciò che suo figlio Qasim non era riuscito nella lotta, sentii un certo peso, ma l’odore forte della palestra mi conquistò al punto che invitato a salire sul ring dal maestro non attesi il permesso di mio padre. Cominciai a frequentare la palestra tre volte alla settimana. A scuola alcuni miei compagni che seppero del mio nuovo sport mi fecero festa, altri mi misero in guardia dicendomi che il maestro Omar era un comunista di conseguenza un ateo. Non ebbi modo e voglia di appurare la cosa, i miei allenamenti erano intensi e lasciavano poco spazio alla socializzazione con il mio maestro che parlava un pessimo Dari contaminato da un forte accento russo. Gli ordini che mi dava sul ring molto spesso erano in russo, la mia curiosità per le lingue nacque su di un ring di pugilato. L’odore forte di cipolla e sudore mi era entrato ormai nelle narici, in pochi giorni ebbi modo di capire quanta formazione poteva dare uno sport ad un giovane che si affacciava all’adolescenza.

    Gli altri aspiranti pugili mi rispettavano e anche se quasi tutti più grandi di me, mi trattavano sempre con rispetto; i pugili, quelli che combattevano tendevano invece a ignorare gli aspiranti, la cosa non mi piaceva ma comprendevo che faceva parte delle dinamiche di quella scuola di vita.

    Un altro segno

    Ho sempre creduto nei segni, quelli mandati da Allah il Giusto.

    Un giorno d’estate Omar mi disse che se mio padre non avesse avuto nulla in contrario avrei preso parte ad un torneo juniores che si sarebbe svolto a Kabul. Mi mancò il fiato.

    Ricordo la mia domanda: «In quanti ci andremo della palestra?»

    La risposta non mi fu mai chiara, ma di fatto partimmo solo io e il maestro.

    Mio padre mi parlò di Kabul e mi obbligò a fare una ricerca in biblioteca. La feci, volevo che fosse fiero di me, mia madre non mi parlò fino a quando compresi il suo dolore nel separarsi dall’unico figlio sano della famiglia. Mia mamma era sempre stata una donna pragmatica che a differenza di quasi tutte le sue conoscenti aveva terminato le scuole superiori; la sua preparazione culturale era un vanto per la nostra famiglia sebbene qualche anno dopo ne avrebbe rappresentato un problema.

    Il viaggio per Kabul oggi lo giudicherei stremante, allora lo considerai avventuroso.

    Il maestro mi aveva fornito di una tuta con i colori del gruppo sportivo e la scritta Herat sulla schiena, ero orgoglioso di essere l’unico atleta della palestra ad essere stato selezionato per il torneo; quando la strada dissestata e polverosa assunse i tratti di una superstrada asfaltata, capii che Kabul era più che prossima, cominciai ad essere inseguito dall’ansia.

    «Devi concentrarti e pensare di fare ciò che hai imparato, capisci? Per essere un tagiko sei robusto, lì potresti trovare tuoi coetanei più alti di te di conseguenza con un maggiore allungo, capisci?»

    Omar si esprimeva in una maniera colorita e il suo russo mi faceva sorridere, il fatto che usasse sempre l’espressione capisci mi esasperava, poi mi ci sarei abituato.

    Il palazzetto dove aveva luogo il torneo ricordo che si trovava nella zona orientale della città. Oggi non esiste più, i miei ricordi arrancano perché la tensione e le emozioni di quei cinque giorni misero a dura prova la mia maturità di adolescente. Nelle ore di attesa che mi separarono dal primo incontro ricordo di aver pensato moltissimo a mio padre. Mi concentravo pensando alla sua saggia calma, al suo autocontrollo e al modo in cui lo avevo visto rassicurare i suoi pazienti. In quelle interminabili ore pensai a cosa avrebbe detto se fossi tornato sconfitto al primo incontro; io per primo non lo avrei sopportato, se è vero che la reputazione di un afgano poggia esclusivamente sull’inviolabilità del suo onore, quel giorno ebbi la consapevolezza di cosa avrebbe rappresentato per me uscire sconfitto dal mio incontro d’esordio.

    Vi erano poi una serie di incognite a cominciare dal caschetto che non avevo mai indossato e a considerare tre riprese considerando che Omar mi aveva preparato ad incontri da cinque riprese da quattro minuti. Quando entrammo negli alloggi che ci avevano destinato mi resi conto che stavo per intraprendere un nuovo viaggio e che la mia vita mi avrebbe legato al mondo della boxe, allora non ancora popolarissima in Afghanistan.

    L’esordio

    Non ricordo il nome del mio primo avversario, ricordo solo che quando l’arbitro ci invitò a salutarci nel centro del quadrato, masticando il paradenti, il mio opponente disse qualcosa in lingua Pashtu al mio indirizzo e a quello del mio maestro.

    Sono certo che si trattò di un’offesa e la cosa paradossalmente mi aiutò a superare le barriere mentali che si frapponevano dal combattere sul serio contro un mio fratello.

    Al primo gong lo vidi avventarsi su di me come se la ripresa dovesse durare pochi secondi; la cosa fece infuriare Omar che cominciò ad urlarmi nel suo pessimo Dari, tutta una serie di indicazioni che nei primi istanti dell’incontro mi confusero al punto da farmi voltare verso di lui.

    L’urlo che seguì la mia improvvida azione coincise con un pugno che mi prese sullo zigomo sinistro ma che inspiegabilmente non mi fece male. Riavutomi dalla sorpresa mi limitai a mettere in pratica le tecniche che Omar mi aveva fatto ripetere nei pomeriggi autunnali quando sentivo la pioggia battere sulla copertura in eternit della palestra, uno – due, le combinazioni che mi aveva insegnato Omar, era finita la prima ripresa.

    Nell’emozione sbagliai angolo, il secondo del mio avversario mi disse in Pashtu che avevo sbagliato strada e sport, ricordo che provai umiliazione, mi volsi aspettandomi un Omar furente invece mi fece un cenno quasi bonario come per dire sono qui!

    «Continua così, i tuoi colpi sono efficaci!»

    Rimasi di sasso, il gong suonò nuovamente e mi ritrovai al centro del ring col mio antagonista meno beffardo e con gli occhi più spenti.

    Era il mio esordio, tanto atteso e temuto; provai una delle combinazioni che negli ultimi giorni avevo messo in pratica con i pugili seniores, jab, destro, schivata e gancio.

    Il giovane Pashtu cadde nella trappola rispondendo con un timido jab che lo fece avanzare quel tanto da diventare bersaglio perfetto del mio gancio sinistro che lo centrò in pieno. Vidi nel suo caschetto il viso di mio cugino, la sorpresa, l’espressione di sforzo si spense e il pubblico tacque.

    Omar si sforzò di non cambiare espressione quando l’arbitro levò al cielo il mio polso costretto dalle bende protettive zuppe di sudore. Udii degli applausi, tra il pubblico qualcuno urlava qualcosa in Dari, l’accento non era di Herat ma quella voce disse bravo! Omar mi ordinò di andare a salutare il mio antagonista seduto all’angolo e il suo maestro, ebbi una seconda sorpresa: il maestro mi sorrise elogiandomi per aver combattuto bene, il giovane Pashtu mi abbracciò dicendomi in un Dari stentato che il mio gancio era pregiato. Mi batteva il cuore come non mi era battuto durante l’incontro.

    «Domani tocca di nuovo a te, oggi ti riposi, andiamo a telefonare ai tuoi genitori, ho promesso a tuo zio Abed di tenerlo informato!»

    Il russo raccolse tutte le mie

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