La figlia del capitano: Ediz. integrale
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La figlia del capitano - Aleksandr Puškin
XIV
CAPITOLO I
Il sergente della guardia
Sarebbe della guardia doman stesso capitano:
«Non occorre: servizio presti nell’esercito».
Ben detto! Che si travagli un po’...
[...] Ma chi è suo padre?
Knjažnin
Mio padre, Andréj Petrovič Grinyov, in gioventù, era stato al servizio del conte Minich, ed era andato in pensione da primo maggiore nel 17… Da allora era vissuto nella sua campagna di Simbirsk, dove aveva anche sposato la signorina Avdotia Vasilievna Ju., figlia di un povero nobile del luogo. Eravamo in nove figli.
Tutti i miei fratelli e sorelle morirono durante l’infanzia. Io venni invece iscritto nel reggimento Semiònovski come sergente, grazie al maggiore della guardia principe B., un nostro parente stretto. Fui, però, considerato in licenza fino al termine degli studi. A quel tempo, si veniva educati in modo molto diverso da oggi. Non appena ebbi compiuto i cinque anni, fui infatti affidato allo staffiere Savél'ič, datomi come precettore per la sua condotta piuttosto sobria. Sotto la sua tutela, a dodici anni, imparai a leggere e scrivere il russo, e sapevo anche già discernere le qualità di un levriero maschio.
A quel tempo, il babbo prese per me un francese, mossié
Beaupré, che fecero venire direttamente da Mosca con la scorta di vino e d’olio d’oliva annuale. Il suo arrivo spiacque molto a Savél'ič.
«Grazie a Dio», egli bofonchiava tra sé e sé, «il bimbo è (sembra) lavato, pettinato, nutrito… Che bisogno c’era di spendere denaro superfluo e prendere un mossié
, come se la gente nostra non bastasse?!?».
Beaupré, nella sua patria, era stato parrucchiere; poi, in Prussia soldato, e poi era venuto in Russia pour être outchitel (per fare il precettore), senza capire poi davvero molto il significato di questa parola. Era un buon figliolo, ma sventato e sregolato fino all’estremo. La sua più grande debolezza era la passione per il gentil sesso; non di rado, proprio a causa delle sue tenerezze, riceveva spintoni per i quali gemeva anche ventiquattr’ore. Inoltre, non era nemmeno, secondo il suo modo di dire, un nemico della bottiglia
, cioè, a dirla in russo, gli piaceva vuotarne un goccio di troppo.
Ma, poiché da noi il vino si serviva solo a pranzo, e anche soltanto un bicchierino a testa – e in tale occasione il precettore, di solito, veniva saltato –, il mio Beaupré si abituò prestissimo all’acquavite russa, e cominciò perfino a preferirla ai vini della sua patria, in maniera del tutto salutare per il suo stomaco.
Tra noi ci fu subito una particolare intesa e, sebbene per contratto fosse tenuto a insegnarmi il francese, il tedesco e tutte le scienze
, egli preferì subito imparare, lui da me, a masticare il russo, mentre per il resto ciascuno di noi due pensava ai fatti propri. Vivevamo in perfetta armonia. Né io desideravo altro mentore. Ma ben presto il destino ci separò, ed ecco perché.
La lavandaia Palaska, una ragazza grossa e butterata, e la vaccara guercia Akulka si accordarono per gettarsi contemporaneamente ai piedi di mia mamma, accusandosi di colpevole debolezza e lamentandosi, fino alle lacrime, di mossié
, che aveva circuito la loro inesperienza. Alla mamma non piaceva scherzare con queste cose, e allora prese a lamentarsene col babbo. Egli portò subito giustizia: fece chiamare, infatti, quella canaglia di francese. Gli riferirono, allora, che mossié
stava proprio dandomi lezione. Il babbo venne così nella mia camera: in quel momento, però, Beaupré dormiva sul letto il sonno dell’innocenza, mentre io ero tutto occupato in una faccenda. Dovete sapere, infatti, che era stata fatta venire, per me, da Mosca una carta geografica. Questa se ne stava appesa alla parete senza essere usata, e da un pezzo mi tentava per l’ampiezza e la bontà della carta. M’ero deciso, difatti, a farne un aquilone e, approfittando del sonno di Beaupré, mi ero messo all’opera. Il babbo entrò proprio mentre adattavo una coda di stoppa al Capo di Buona Speranza e, vedendo quel mio esercizio di geografia, mi tirò un orecchio e poi corse da Beaupré, lo svegliò senza troppe cerimonie e cominciò a sgridarlo. Beaupré, piccino piccino, voleva sollevarsi e non poteva: il disgraziato francese era ubriaco fradicio. Una furfanteria le paga tutte. Il babbo lo sollevò per il bavero dal letto, lo spinse fuori dalla porta e quello stesso giorno lo cacciò via, con indescrivibile gioia di Savél'ič. E così ebbe fine la mia formazione. Vissi da fanciullo, inseguendo i colombi e giocando a cavallina coi monelli della servitù, finché non compii sedici anni. Qui la mia sorte mutò.
Una volta, in autunno, la mamma stava cucinando in salotto della confettura di miele e io, leccandomi le labbra, guardavo ribollire quella crosta liquida. Il babbo leggeva, intanto, il Calendario di Corte (da lui ricevuto ogni anno) alla finestra. Questo libro aveva su lui sempre un forte influsso: non lo rileggeva mai senza un particolare interesse, e quella lettura gli procurava sempre uno straordinario rimescolio di bile. La mamma, che sapeva a memoria tutte le sue abitudini e consuetudini, cercava sempre di ficcare quel malcapitato libro il più lontano possibile e, in tal modo, il Calendario di Corte non gli veniva sott’occhi a volte per interi mesi. In compenso, quando per caso lo trovava, non se lo lasciava più scappare di mano per ore intere.
E così, il babbo leggeva il Calendario di Corte alzando di tanto in tanto le spalle e ripetendo sottovoce: «Tenente generale! Nella mia compagnia era sergente! Cavaliere dei due ordini russi! Ma è un pezzo che noi…?». Infine, il babbo scagliò il Calendario sul divano e s’immerse in una meditazione che non lasciava presagire nulla di buono.
D’un tratto si rivolse alla mamma: «Avdotia Vasìlievna, ma quanti anni ha Petruscia?»
«Ma, ecco, ha compiuto il sedicesimo», rispose la mamma, «Petruscia nacque lo stesso anno che perdette l’occhio zia Nastassia Gheràssimovna, e quando ancora…»
«Bene», interruppe il babbo, «è ora di fargli prendere servizio. Deve smettere di correre per le stanze delle serve, e di arrampicarsi sulle colombaie».
Il pensiero di una prossima separazione da me colpì talmente la mamma, che lasciò cadere il cucchiaio nella casseruola, e le lacrime colarono giù per il suo viso. Invece è difficile descrivere il mio entusiasmo. Il pensiero del servizio militare si fondeva in me coi pensieri della libertà, coi piaceri della vita pietroburghese. Mi immaginavo ufficiale della guardia, il che, secondo la mia opinione, era il colmo della felicità.
Al babbo non piaceva né mutare i propri disegni, né differirne l’esecuzione. Venne così fissato il giorno della mia partenza. Alla sua vigilia, egli dichiarò che aveva intenzione di scrivere, tramite me, al mio futuro superiore, e chiese carta e penna.
«Non dimenticare, Andréj Petrovič», disse la mamma, «di salutare anche da parte mia il principe B.; io spero, inoltre, che non priverà Petruscia dei suoi favori».
«Che sciocchezza!» rispose il babbo, aggrottando le sopracciglia, «A che proposito dovrei mettermi a scrivere al principe B.?»
«Ma se hai detto che volevi scrivere al superiore di Petruscia!»
«E dunque?»
«Ma il superiore di Petruscia è il principe B. Sai bene che Petruscia è iscritto al reggimento Semiònovski».
«Iscritto! E che fa ch’è iscritto? Petruscia a Pietroburgo non andrà. Che cosa può imparare, servendo a Pietroburgo? A scialacquare e fare il rompicollo? No, che prenda servizio nell’esercito, e tiri la carretta, e senta l’odore della polvere, e sia un soldato e non un damerino della guardia! Dov’è il suo passaporto? Dammelo».
La mamma cercò il mio passaporto, custodito nel suo scrignetto con la camicina nella quale mi avevano battezzato, e lo consegnò al babbo con mano tremante. Il babbo lo lesse con attenzione, lo pose davanti a sé sulla tavola e cominciò la sua lettera.
La curiosità, intanto, mi tormentava. Dove mi mandavano, se non più a Pietroburgo? Non toglievo gli occhi dalla penna del babbo, che si muoveva abbastanza lentamente. Infine, egli finalmente terminò, suggellò la lettera in un plico col passaporto, si tolse gli occhiali e, chiamatomi, disse: «Eccoti una lettera per Andréj Kàrlovič R., mio vecchio camerata e amico. Vai a Orenburg ai suoi ordini».
E così tutte le mie brillanti speranze crollarono! Invece dell’allegra vita pietroburghese mi aspettava la noia in una contrada sperduta e lontana. Il servizio militare, a cui un minuto prima avevo pensato con tanto ardore, mi parve una dura infelicità. Ma non c’era da discutere! La mattina del giorno dopo fu condotta all’ingresso la carretta da viaggio; vi misero su una valigia, una cassetta col servizio da tè e dei fagotti con panini e pasticcini, ultimi segni dei vezzi di casa. I miei genitori mi diedero la loro benedizione. Il babbo mi disse: «Addio, Pëtr. Servi fedelmente colui al quale avrai giurato; obbedisci ai superiori; non correre dietro alla loro benevolenza; non cercare tu stesso il servizio; dal servizio non esimerti; e ricorda il proverbio: Bada al vestito fin da nuovo, e all’onore fin da giovane
».
La mamma in lacrime raccomandò a me di aver cura della mia salute, e a Savél'ič di vegliare sul ragazzino. Mi misero un pellicciotto di lepre, e una pelliccia di volpe sopra. Sedetti nel carro con Savél'ič e mi posi in cammino, sciogliendomi in lacrime.
Quella stessa notte arrivai a Simbìrsk, dove dovetti passare tutta una giornata per l’acquisto di beni di prima necessità; della qual cosa era stato incaricato Savél'ič. Mi fermai in una locanda. Savél'ič fin dalla mattina andò in giro per le botteghe. Annoiatomi di guardare dalla finestra in quel vicolo sozzo, me ne andai vagando per tutte le stanze. Entrato nella sala del biliardo, vidi un signore alto, sui trentacinque anni, dai lunghi baffi neri, in veste da camera, con la stecca in mano e la pipa tra i denti. Giocava col pallaio, il quale a ogni vincita beveva un bicchierino di vodka, e a ogni perdita doveva ficcarsi carponi sotto il biliardo. Presi a guardare il loro gioco. Più a lungo durava, più le gite carponi si facevano frequenti, finché in ultimo il pallaio restò sotto il biliardo. Il signore pronunciò sopra di lui alcune energiche espressioni come fosse quella un’ orazione funebre e mi propose di fare una partita. Rifiutai adducendo come motivo che non sapevo giocare. Ciò gli parve strano. Mi guardò quasi con compassione; tuttavia attaccammo bottone. Seppi che si chiamava Ivan Ivanović Zurin, ch’era capitano del reggimento ussari a cavallo di… e che si trovava a Simbìrsk per ricevere le reclute, e che alloggiava all’albergo.
Zurin mi offrì di pranzare con lui, con quel che il convento passava, da soldati. Acconsentii volentieri e così ci mettemmo a tavola. Zurin beveva molto e faceva bere anche me, dicendo che bisognava assuefarsi al servizio, mi raccontava aneddoti militari, per i quali poco mancava che non crepassi dalle risate, e ci alzammo da tavola ch’eravamo già perfettamente amici Poi si offrì d’insegnarmi a giocare a biliardo.
«Per noialtri soldati», diceva, «è indispensabile. In marcia, per esempio, arrivi in un posto; di cosa vuoi che ci si occupi? Non si possono mica sempre picchiare gli ebrei. Te ne vai per forza all’albergo e ti metti a giocar a biliardo; ed è per questo che bisogna saper giocare!»
Fui subito bell’e che convinto e ne intrapresi lo studio con zelo. Zurin, dal canto suo, m’incoraggiava a gran voce, si stupiva dei miei rapidi progressi, e dopo qualche lezione mi propose di giocare a soldi, a mezza copeca soltanto, non per la vincita in sé, ma così, per non stare a giocare di nulla, che era, a detta sua, la peggiore abitudine.
Acconsentii anche a quello, e Zurin ordinò di portare il ponce e mi esortò a provare, ripetendo che al servizio occorreva avvezzarsi, e senza ponce che servizio è mai! Gli diedi retta.
Intanto, il nostro gioco continuava. Più vuotavo il mio bicchiere, più mi facevo ardito. Le palle a ogni momento mi volavano fuori sponda; mi scaldavo, sgridavo il segnatore, che contava Dio sa come, aumentavo sempre più la posta; in una parola, mi comportavo come un ragazzaccio fuggito di