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Un fiore nato dal cemento
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E-book241 pagine3 ore

Un fiore nato dal cemento

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Voglio che la mia storia sia un monito per tutti, voglio che sia uno schiaffo in pieno viso, perché sì, il mio non sarà un racconto felice, una fiaba della buonanotte, ma sarà la verità, la realtà della vita in ogni suo aspetto, in ogni sua sfumatura, anche la più torbida. Chi leggerà queste pagine capirà, come ho capito anch’io, che l’esistenza non è la dolce promessa che ci hanno fatto alla nascita, ma è fatica, impegno, perseveranza, coraggio e fortuna; è delusione, incidenti di percorso, malattia, solitudine e rassegnazione.
La vita a volte è depressione. Altre volte è rinascita. La vita, qualunque essa sia, è stramaledettamente bella e vale la pena di essere vissuta. 
Questo romanzo è la mia rinascita e mi auguro possa essere un trampolino per la rivoluzione interiore di molti altri, di tutti coloro che non si sono sentiti apprezzati e amati abbastanza, di tutti coloro che affrontano le insidie da soli e non se ne lamentano. Essere trascurati per troppo tempo spesso inaridisce, ci lascia vuoti e indifferenti, completamente apatici, come fogli di carta al vento, ma a volte ci insegna a guardare dentro di noi, a cercare in noi stessi quello che il resto del mondo non ha saputo darci ed è questo a renderci speciali. Perché, per quanto possano tentare di schiacciarci, troveremo sempre il modo di risollevare la testa. Perché, per quanto possano allontanarci, escluderci e metterci da parte, troveremo sempre il modo di ritrovare la strada.
Niente è troppo difficile per chi ha sofferto veramente, per chi ha imparato a riconoscere il bello anche in mezzo all’orrore. Chi è riuscito a far nascere un fiore anche dal cemento.

Daiana Fattori (Urbania, 1976), ex professoressa di Educazione musicale, Propedeutica e Flauto, diplomata al Conservatorio “G. Rossini” nel 1997. Ha lavorato per diversi anni in radio, eventi, moda, spettacolo e qualche programma televisivo. Dal 2000 è Presidente onorario di diverse associazioni del territorio che donano sorrisi. Attualmente vive e lavora a Pesaro.
LinguaItaliano
Data di uscita30 ago 2023
ISBN9791220145008
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    Un fiore nato dal cemento - Daiana Fattori

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    Daiana Fattori

    Un fiore nato

    dal cemento

    Un fiore nato dal cemento

    1. - Fuori dal tempo

    C’è una sensazione che mi accompagna da quando ero molto piccola, quella di non trovarmi mai al posto giusto nel momento giusto. È una condizione che porto con me sin dalla nascita, una nascita che non doveva avvenire, una nascita indesiderata che ha compromesso per sempre il rapporto con me stessa, la capacità di amarmi e di sentirmi amata. Tutto è cominciato a causa di una malattia – una costante nella mia vita – che aveva debilitato mia madre e messo in pericolo la vita di mio fratello. All’apparenza una gravidanza normale, ma dopo la sua nascita i medici dovettero ricorrere a macchinari salvavita preparando mia madre al peggio e trovandosi più di una volta sul punto di staccare la spina. Oggi, da madre, posso immaginare quello che la mia abbia provato, lo strazio e il senso d’impotenza che deve averla schiacciata e lasciata inerme. Era una ragazza giovane e avrebbe avuto bisogno di più dolcezza, di tatto, invece la realtà della vita, la sua crudeltà, le sono piovute addosso come grandine e nessuno è stato davvero in grado di metterla al riparo. Fortunatamente, per quanto incredibile, mio fratello è riuscito a sopravvivere, ha aperto gli occhi, ha pianto, urlato e lottato per la sua vita anche con il suo polmone malandato, quello che lo ha reso il bambino fragile che da quel momento i miei genitori avrebbero protetto e giustificato senza riserve. In questo scenario, io ero il pensiero che non ha mai sfiorato la mente di mamma e papà, perché mio fratello era ancora troppo piccolo e i medici avevano caldamente sconsigliato a mia madre di avere altri figli. Anche in quel caso il loro giudizio è stato duro e impietoso, e credo che mia madre si sia sentita terribilmente ferita e in imbarazzo; le avevano chiesto di non avere più un’intimità con l’uomo che amava, l’uomo a cui aveva dato tutta se stessa, l’unico che avesse mai conosciuto. È stato mortificante e ingiusto, ma più di ogni altra cosa è stata una richiesta impossibile da realizzare. Mio padre, uomo d’altri tempi, non concepiva l’idea di un simile cambiamento, quello sarebbe stato uno sconvolgimento troppo grande nella sua rassicurante ed immutabile visione del mondo. Ritengo che alla fine mia madre abbia assecondato i suoi desideri, perché non esisteva nulla che non fosse disposta a fare per lui, nulla in cui non gli andasse incontro. Se mio padre chiedeva, mia madre si prodigava per accontentarlo, e lo faceva con devozione, così come le era stato insegnato. Mamma è sempre stata una donna dolce e accondiscendente, una donna che per amore ha rinunciato alla sua libertà, perfino quella di conseguire la patente e andare in giro autonomamente, scelta avallata anche da mio padre. Con questi presupposti, penso sia chiaro come si è arrivati alla mia nascita! Papà non avrebbe mai rinunciato ai suoi diritti di uomo e mamma non glieli avrebbe mai negati, quindi solo diciotto mesi dopo la nascita del loro primogenito, sono arrivata io, Daiana. Sono sempre stata una bambina fuori dal comune, controcorrente, curiosa e un po’ folle, ma di quella follia tipica di chi vede il mondo da un punto di vista ignoto alla maggior parte della gente.  Ero una bambina esuberante, fuori dalle righe e amante dell’Arte in tutte le sue forme. Proprio l’Arte è stata al centro di tutta la mia esistenza, complice anche il fatto di essere figlia di un musicista, dal momento che proprio con mio padre ho iniziato a calcare i primi palchi, quando avevo appena tre anni. La musica nello specifico ci ha sempre legati e so per certo che papà vedesse in me l’erede perfetta, la figlia che gli avrebbe dato le soddisfazioni più grandi della sua vita, almeno in quel campo. Tutto il resto è stato un disastro. Non c’era niente di ciò che facevo che fosse sufficiente a renderlo orgoglioso di me. La verità è che sin da piccola ho avuto l’irrefrenabile bisogno di esprimermi in più forme, di lanciarmi in sfide diverse, senza darmi limiti e questo per i miei genitori non era concepibile. Non mi capivano, nessuno mi capiva, e per molti anni – troppi – sono stata la ragazza strana, quella additata dal resto del paese, quella criticata, malvista e spesso giudicata una poco di buono. Riflettendoci adesso, quello che mi è capitato non mi sorprende, perché so che in un contesto chiuso e tendenzialmente misoneista, come quello di un paesino di poche migliaia di persone, con l’aggravante anagrafica medio-alta degli abitanti, il diverso fa sempre paura, spaventa perché non si riesce a comprenderlo. All’epoca però quel trattamento mi ha fatto soffrire, mi ha fatto sentire sbagliata, sporca e colpevole, mi ha fatto credere di essere sola al mondo o di essere in un mondo che non era il mio, in un tempo che non era il mio. Ecco, mi sentivo fuori dal tempo, sensazione ancora attuale. In quegli anni ho pensato di non appartenere a quella terra o a quelle persone e alla fine ho avvertito uno strappo e ho pensato di non appartenere nemmeno a me stessa. Ho smesso di credere in me, perché nessuno lo faceva e nessuno m’insegnava a farlo. Il paese mi giudicava e anche i miei genitori lo facevano, dimostrandosi capaci solo di rimproverarmi e di limitare il mio mondo, di renderlo stretto come una gabbia. Non l’hanno fatto con cattiveria, erano solo spinti dal terrore degli sguardi altrui, da quello che gli altri avrebbero potuto pensare di me e di conseguenza della mia famiglia. In più mamma e papà avevano altro di cui preoccuparsi, avevano il loro primo figlioletto e la sua salute cagionevole, il suo bisogno di cure e attenzioni, tutte cose di cui io sono stata privata. Se mio fratello voleva andare a calcio, allora lo faceva senza aspettare. Ricordo che lo iscrissero senza remore, sorridenti e felici che il loro figlioletto muovesse i suoi primi passi nel mondo esterno. Quando però sono stata io a chiedere di poter frequentare delle lezioni di danza, non c’è stato verso di convincerli. Amavo ballare e amavo i locali e le discoteche dove potevo farlo, un mondo che già conoscevo attraverso i concerti di mio padre, ma un mondo alquanto indecente agli occhi di mia madre, nonostante non fossero minimamente paragonabili alle discoteche di oggi, dove ballare probabilmente è in fondo alla lista delle cose da fare. Nei locali che frequentavo si ballava e nient’altro, era quello il divertimento ed era quello che mi faceva stare bene, potevo esprimere tutto il mio io. Purtroppo non ci sono state lezioni di danza per me, non c’è stato nulla e in conclusione, come sempre, mi sono dovuta rimboccare le maniche e fare da me. Ho anche provato a mettere da parte dei soldi per potermi iscrivere in una scuola di danza, ma i lavoretti di un’adolescente fanno fatica ad ingranare e la danza è rimasta un lusso troppo costoso per le mie tasche. Quindi non ho potuto frequentare la scuola di danza, rinunciando a questo piacere e a molti altri, ma più rinunciavo, più sentivo la frustrazione crescere. Mi domandavo perché non potessi avere le stesse opportunità di mio fratello, perché non riuscissi ad ottenere le sue stesse gratificazioni e i complimenti che riceveva da papà e mamma. Mi sentivo privata del mio diritto di essere felice, del mio diritto di esprimermi, di esplorare e di crescere come mio fratello e come qualsiasi altro ragazzo della nostra età. Ma più di tutto, mi sentivo privata dell’affetto dei miei genitori, del loro amore incondizionato e del loro appoggio. Avevo l’impressione di deluderli costantemente, sentivo che non sarei mai riuscita a renderli orgogliosi e ho trascinato questa sensazione con me per anni; la sento addosso ancora oggi che sono una donna adulta e realizzata, perché purtroppo alcune ferite non si rimarginano mai e lasciano delle cicatrici che continuano a bruciare per sempre. La mia risposta a quell’indifferenza è stata suscitare in loro una reazione forte, anche se negativa, perché qualsiasi cosa sarebbe stata meglio di quell’atteggiamento di distacco e sdegno.

    Facevo in modo di comportarmi come non avrebbero gradito, di fare tutto il contrario di quello che si sarebbero augurati da parte mia e solo per attirare la loro attenzione. Volevo che mi vedessero, che mi ascoltassero, volevo che si ricordassero di quella figlia arrivata quasi per caso e che non aveva mai smesso di sentirsi un peso per loro. Ma le mie richieste di attenzione non hanno portato ad altro se non a nuovi rimproveri, a nuovi motivi per sentirmi inadeguata e fuori posto. Non hanno mai capito che quello era solo il mio modo di farmi notare, un tentativo di sentirmi realmente parte di quella famiglia e non solo un evento voluto dal caso e mai desiderato.

    La mia mente, sempre in moto e sempre in cerca di opportunità da afferrare, negli anni mi ha portato a considerare anche il mondo della moda e i concorsi di bellezza. Guardavo le sfilate, i vestiti estrosi, i colori e le forme mai viste, divoravo tutto con gli occhi e sognavo che un giorno ne avrei fatto parte anch’io, mostrando la mia eleganza su quelle passerelle e la creatività che non mi è mai mancata, neanche in quel campo. Naturalmente, neanche a dirlo, i miei genitori si sono dimostrati sin da subito scettici anche davanti a questo mio desiderio, ancora una volta ciechi di fronte alla mia necessità di spiccare il volo. Il loro non era proprio disprezzo nei miei confronti, se lo fosse stato non li avrei amati e non li amerei oggi così tanto, ma non per questo i loro continui rifiuti hanno fatto meno male, anzi la loro mancanza di fiducia mi ha ferito anche più del disappunto degli altri.

    Anche se a stento, potevo sopportare gli sguardi contrariati della gente del paese, dal momento che avevo imparato a capire quanto quell’ambiente fosse chiuso e retrogrado, ma non riuscivo a tollerare il disinteresse della mia famiglia e la tiepida sufficienza con cui osservavano i miei sforzi.

    Non mi capivano. Non mi capivano, perché non erano in grado di ascoltarmi.

    Non avevano intuito che tipo di ragazza fossi e quanto alte fossero le mie aspettative. Ero giovane, piena di passione e di capacità, sentivo di avere talento da vendere e la forza necessaria per divorare il mondo, ma quella forza spaventava i più deboli, gli insicuri, quelli che cercano di farsi strada schiacciando gli altri, perché troppo intimoriti dal confronto. È molto più facile far sentire piccoli gli altri, metterli con le spalle al muro usando la forza del branco, dei tanti contro uno soltanto. È così che mi sentivo io, schiacciata dalla massa giudicante, dai codardi che si nascondevano nella compattezza del gruppo.

    In quel periodo ho avuto voglia di scappare, di andare lontano e non tornare mai più. Volevo lasciare tutto senza guardarmi indietro, volevo dimenticare quei luoghi e quelle persone così estranee alla mia natura, ma non è stato facile, perché è la vita a non essere facile e a volte il destino ci mette di fronte a scelte necessarie ed inevitabili, compromessi con se stessi, rinunce e sofferenze. Ho dovuto sempre lottare più degli altri per ottenere quello a cui tenevo e quando ci riuscivo, arrivava puntuale lo schiaffo capace di gettarmi a terra.

    Dopo aver sudato per raggiungere i miei obiettivi personali o professionali, finivo sempre per essere colpita da qualche catastrofe o da un evento non programmato, qualcosa capace di deviare la direzione che avevo dato alla mia esistenza. Da una parte, questa continua lotta per la sopravvivenza mi ha reso una donna ancora più tenace e coraggiosa e mi ha permesso di diventare una madre attenta ai bisogni di sua figlia e alle sue richieste; allo stesso tempo, però, ha minato la mia sicurezza come figlia, come essere umano in erba, come individuo in crescita e per questo bisognoso di attenzioni e gratificazioni.

    Ancora adesso porto con me le conseguenze di quelle privazioni, poiché neanche oggi mi sento all’altezza delle aspettative dei miei genitori e sto ancora aspettando di sentirmi dire che sono stata brava nonostante tutto, che merito la loro considerazione e che sono orgogliosi di me.

    Sono cresciuta e sono diventata forte per gli altri, mi sono adoperata per le persone che amo, mettendole sempre al primo posto, anche a scapito della mia serenità, perché sono sempre stata una maledetta altruista, una di quelle disposte a sacrificare ogni cosa per la felicità del prossimo. Così facendo, però, ho finito per nascondermi dietro una corazza, ho celato agli occhi degli altri i profondi solchi che la vita ha scavato sulla mia pelle e poi sempre più in profondità, fino ad avvelenarmi il cuore.

    So che l’impressione che do è quella di una donna sicura e inarrestabile, una donna sempre in movimento, in una sfida continua con se stessa, ma Daiana è tanto altro, è quello che non mostra e non dice per non ferire i suoi cari. Daiana è la donna che piange da sola, che si guarda allo specchio e si domanda cosa stia facendo lì, perché si trovi in quel luogo e in quell’istante. Daiana è la madre che ha dato tutta se stessa per educare e sostenere sua figlia, per offrirle tutte le possibilità che meritava, è la madre che ripete sempre quanto sia orgogliosa della sua ragazza e che si è mostrata forte per lei, in ogni occasione, anche quando credeva di non farcela, perché in fondo era troppo giovane, troppo sola e stava crescendo insieme alla sua bambina.

    Non posso negare di essermi costruita da me, con le mie mani e senza l’aiuto di nessuno, senza scendere mai a compromessi, neanche sul lavoro, ma tutto questo ha avuto un prezzo. L’impegno per restare a galla, nonostante tutti cercassero di trascinarmi verso il fondo, l’impegno per mostrare il mio lato ottimista, quello per non pesare sulla mia famiglia, l’impegno per rendere più serena la vita di chi era in difficoltà, tutto questo ha fatto in modo che smettessi di ascoltare i miei bisogni, la mia voce che gridava aiuto.

    Quando è arrivato il momento di affrontare alcune delle sfide più dure davanti a cui la vita ti pone, avevo esaurito le mie energie e la mia forza combattiva, le avevo lasciate tra i corridoi del reparto oncologico, lì dove regalavo un sorriso ai miei bambini, o forse ho perso le mie forze un po’ alla volta, ad ogni incontro sbagliato, a ogni delusione, tutte le volte in cui ho sopportato che chi amavo mi voltasse le spalle. Così, quando ne ho avuto davvero bisogno, non avevo più la tenacia per combattere e ho allungato più volte le dita per sfiorare la fine.

    Condividere una parte così intima di me e ammettere la mia fragilità mi costa fatica, e so che andando avanti in questo racconto, scavando in profondità nella mia esistenza, finirò per incontrare nuovamente quel dolore e quella sofferenza che mi hanno quasi annientato, ma sento di farlo per me e per chi come me ha sofferto in silenzio, chi come me si è sentito solo e abbandonato, ma non per questo ha smesso di insistere, non per questo si è arreso e non per questo ha smesso mai di sorridere.

    Ho solo grattato la superficie della mia storia e già sento riaffiorare i demoni del passato che bussano alla mia mente e mi sussurrano che non è ancora abbastanza quello che ho fatto nella vita. Ascoltare quelle voci è uno strazio, ma è l’unico modo per esorcizzare definitivamente il mio male e per svegliare quelli che si sono lasciati cullare da voci come quelle che sento io. Perché so che lì fuori, in questo mondo e in questo tempo che non mi appartengono fino in fondo, ci sono uomini, donne, ragazzi e ragazze che hanno dato ascolto a quei sussurri, persone che hanno smesso di lottare, che si accontentano, che si arrendono e che smettono di guardarsi allo specchio, perché l’immagine che vedono riflessa non è più la loro.

    Voglio che la mia storia sia un monito per tutti loro, voglio che sia uno schiaffo in pieno viso, perché sì, il mio non sarà un racconto felice, una fiaba della buonanotte, ma sarà la verità, la realtà della vita in ogni suo aspetto, in ogni sua sfumatura, anche la più torbida. Chi leggerà queste pagine capirà, come ho capito anch’io, che l’esistenza non è la dolce promessa che ci hanno fatto alla nascita, ma è fatica, impegno, perseveranza, coraggio e fortuna, è delusione, incidenti di percorso, malattia, solitudine e rassegnazione.

    La vita a volte è depressione. Altre volte è rinascita. La vita, qualunque essa sia, è stramaledettamente bella e vale la pena di essere vissuta.

    Questo romanzo è la mia rinascita e mi auguro possa essere un trampolino per la rivoluzione interiore di molti altri, di tutti coloro che non si sono sentiti apprezzati e amati abbastanza, di tutti coloro che affrontano le insidie da soli e non se ne lamentano. Essere trascurati per troppo tempo spesso inaridisce, ci lascia vuoti e indifferenti, completamente apatici, come fogli di carta al vento, ma a volte ci insegna a guardare dentro di noi, a cercare in noi stessi quello che il resto del mondo non ha saputo darci ed è questo a renderci speciali. Perché, per quanto possano tentare di schiacciarci, troveremo sempre il modo di risollevare la testa. Perché, per quanto possano allontanarci, escluderci e metterci da parte, troveremo sempre il modo di ritrovare la strada.

    Niente è troppo difficile per chi ha sofferto veramente, per chi ha imparato a riconoscere il bello anche in mezzo all’orrore. Chi è riuscito a far nascere un fiore anche dal cemento.

    2.- A scapito di me stessa

    A volte, quando rifletto sulla mia vita, non posso fare a meno di pensare di essere nata con un unico scopo: aiutare gli altri. Lo faccio spontaneamente, con piacere, spesso senza pensarci, e questo in molte occasioni mi ha portato a subire delle conseguenze anche piuttosto gravi.

    È più forte di me, quando vedo qualcuno in difficoltà, reagisco d’istinto, senza curarmi di quello che potrebbe accadermi o del dolore che quella stessa persona mi ha inflitto in passato. L’ho fatto anche con mia madre, forse con lei più che con chiunque altro, perché i dissapori tra di noi sono

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