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Tramonto rosso - L'africa che ho vissuto
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Tramonto rosso - L'africa che ho vissuto
E-book481 pagine7 ore

Tramonto rosso - L'africa che ho vissuto

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Info su questo ebook

«Il libro di Pietro è molto bello. Racconta, senza retorica, di persone straordinarie, di eventi spesso drammatici e di un mondo, il continente africano, sconosciuto a molti dei cittadini di altri paesi della terra. Sconosciuto nella sua condizione reale, nelle grandi contraddizioni che lo caratterizzano e che esplodono tra enormi potenzialità e ancora più rilevanti bisogni».SERGIO COFFERATI

«Questo libro è una generosa condivisione di conoscenze ed esperienze. Molti sono gli scenari e i personaggi descritti con ricchezza di dettagli e di riferimenti storici. La narrazione ci coinvolge e ci pone questioni diffi cili, attraverso il lungo e variegato percorso dell’autore in un inferno vasto, diffuso, che non ha neppure i gironi, e dal quale è uscito con la voglia di rimanervi per sempre, facendolo diventare testimonianza della sua vicinanza a moltitudini di persone che sembranodestinate a rimanere fuori dalla storia. Non era facile rimanere lucidi e vedenti seguendo quel percorso, Pietro De Carli vi è riuscito e mostra generosamente a tutti noi che è possibile fare altrettanto non solo in Africa ma anche a casa nostra».SILVANA ARBIA

Pietro De Carli nasce a Bertinoro (FC) il 15 marzo 1946 e laureato in scienze politiche indirizzo internazionale.Dopo aver consolidato esperienze professionali significative nel movimento cooperativistico, negli ultimi decenni ha coordinato, come esperto di cooperazione per il Ministero degli Esteri, programmi di emergenza e di cooperazione allo sviluppo in Afghanistan e in Mozambico, nonché progetti di emergenza umanitaria con organizzazioni non governative inSomalia, Sudan, Timor Est e Angola, in contesti dominati da confl itti armati.Autore di saggi sulla storia del movimento cooperativo e di alcuni libri di poesie, ha pubblicato un’analisi sulla complessa situazione afgana sulla base dell’esperienza vissuta in quel paese ha pubblicato un libro illustrato “Amicizia, friendship” (2007) edito dal Ministero degli Esteri, un libro “Afghanistan nella tempesta, la farsa della ricostruzione” (2011), due saggi sui flussi migratori: “Fuga a Occidente, migrazioni nella globalizzazione tra esplosione demografica e guerre di religione” (2016) e “Vite di mezzo, lo sfruttamento delle migrazioni” (2018).
LinguaItaliano
Data di uscita29 mar 2019
ISBN9788867829408
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    Tramonto rosso - L'africa che ho vissuto - Pietro De Carli

    Pietro De Carli

    Tramonto Rosso

    L’africa che ho vissuto

    Pietro De Carli

    Tramonto Rosso

    L’africa che ho vissuto

    Editrice GDS

    Via Pozzo 34

    20069 Vaprio d’Adda-Mi

    Tel.02.90970439

    Le foto interne sono di proprietà di Pietro De Carli e di Maria Rubino

    Foto copertina di Maria Rubino

    TUTTI I DIRITTI SONO RISERVATI

    DISPONIBILE ANCHE IN FORMATO E-BOOK

    PREFAZIONE

    di Silvana Arbia*

    Tramonto rosso l’Africa che ho vissuto: il titolo dell’opera di Pietro De Carli, e nello sfondo un’immagine di tramonto la cui intensità di luce e di colore si può vedere solo in Africa, in contrasto forte con una condizione perennemente difficile degli esseri animati che vi vivono, e che è descritta nelle due citazioni, che ci introducono alla stregua di una segnaletica verso i meandri remoti, ove siamo condotti dal racconto. La prima citazione, di Arturo Pérez-Roverte «Se ogni guerra è una sorta di viaggio all’inferno, l’Africa è la sua scorciatoia» e la seconda radicata nella sapienza popolare, espressa nel proverbio africano "Ogni mattina in Africa, come sorge il sole, non importa che tu sia leone o gazzella, l’importante è che cominci a correre».

    Le due citazioni rivelano, da un lato, la triste costatazione che in molti paesi africani il conflitto cruento e di massa è quotidiano, mai realmente evitato perché facilitato da nuove forme di colonizzazione e di dominio economico di soggetti privati e pubblici. Dall’altro, che la gigantografia che l’Africa ci offre della condizione umana, del dover correre e lottare per la sopravvivenza, giorno per giorno, ci aiuta a capire che questa è la condizione umana naturale e chi corre di più vince anche se la vittoria dura un giorno. Così, bellezza, conflitto e saggezza sono elementi tipici del vivere in Africa per i nativi ma anche per tutti coloro che vi si recano per sfidare quella condizione credendo nella solidarietà e nell’interdipendenza delle situazioni umane, oltre che per conoscere da dove veniamo, essendo l’Africa una grande ceppaia del mondo.

    Tante esperienze maturate in Africa in ruoli diversi, come rappresentante di una società cooperativa di costruzioni di Ravenna, esponente di missioni governative e membro di Ong, tutte animate da un unico intento: mettere le mani e non solo gli occhi su una condizione umana portata all’estremo degrado fisico, intellettuale morale.

    Un particolare interesse leggendo questo libro, che in effetti è una generosa condivisione di conoscenze ed esperienze, sulle quali si possono costruire e sviluppare progetti per il futuro del nostro pianeta e dei popoli che lo abitano, sta nel fatto che i periodi spesi dall’autore in Mozambico, Kenya, Angola, Sudan, Somalia, includono eventi storici di grande importanza, con personaggi africani e non, protagonisti di rivoluzioni vere e proprie, come Mandela proprio al tempo della sua elezione come presidente del Sud Africa, Julius Nyerere premier e padre fondatore della Tanzania e presidente della repubblica dalla data di fondazione del paese nel 1964 fino al suo ritiro nel 1985, entrambi, nota l’autore, appartenenti ad una generazione di leader protagonisti delle lotte di liberazione dal giogo coloniale e dall’apartheid, animati dalla volontà di agire per il bene del proprio popolo e non nell’interesse personale, concezione sovvertita dalle nuove generazioni dei leader africani.

    L’amarezza e la rabbia di De Carli si coglie abbondantemente quando visita i luoghi affrancati dal colonialismo, ma che non hanno visto alcun progresso, anzi le infrastrutture costruite dai colonizzatori europei sono rimaste le uniche disponibili sia pure in stato di abbandono e di degrado.

    Nello slum di Korogocho, nei bassifondi di Nairobi, descritto come una delle aree più disastrate di Nairobi, dove la povertà predominava, l'incuria dei pubblici poteri era assoluta, l'assenza di servizi sociali era disarmante, l'ingiustizia era imperante, con milioni di disperati abbandonati a se stessi, l’autore incontra un italiano speciale, il padre comboniano Alex Zanotelli, andato a vivere lì, abitando una catapecchia accanto a due milioni di persone in condizioni di emarginazione assoluta, senza alcun diritto. Come un vero leader, padre Alex parla di rivendicazioni sociali, costringe Veltroni, che stava visitando alcuni stati africani, a recarsi a Korogocho per incontrarlo, e lo sfida chiedendogli di cancellare il debito dei poveri verso i ricchi, domanda difficile ancora oggi. L’ingiustizia debordante nello slum di Korogocho aveva suggerito all’autore di inviare alla figlia Natascia, per il suo compleanno, una cartolina che riportava la frase di Che Guevara rivolta ai suoi figli: «Soprattutto siate capaci di sentire nel più profondo qualsiasi ingiustizia commessa contro chiunque, in qualsiasi parte del mondo. È la qualità più bella di un rivoluzionario». E Alex Zanotelli rivoluzionario lo è stato davvero.

    Il valore dell’essere umano, nei luoghi attraversati dall’autore, non riesce a raggiungere quello di un oggetto qualsiasi, sia anche relitto di carcasse; la distanza è incolmabile tra la massa della popolazione e le istituzioni, queste ultime al servizio di potenti élites. L’autore non nasconde la sua disperazione quale senso di incapacità di affrontare tante vergogne e tanti fallimenti dell’umanità, compresi i tradimenti di coloro che dovevano compiere missioni di cooperazione e di aiuto, e invece, profittavano della povertà della gente e dei più fragili tra loro come i minori. Tra gli scandali riportati particolare vergogna e sdegno suscita quello che in Mozambico, ha investito il contingente di 3.600 soldati del Battaglione Albatros, della missione Onumoz, nelle province di Manica e Sofala. Era emerso il più vergognoso degrado dell’umanità con l’organizzazione di un traffico di bambine reclutate nelle scuole a 12 anni e poco più, coinvolte in attività di pornografia con la circolazione di video e foto nei ranghi del battaglione. I soldati italiani preferivano le bambine perché c'era maggior divertimento e minore pericolo di contrarre l'Aids. Le tariffe variavano da un dollaro per prestazioni con preservativo a 20 dollari per prestazioni senza preservativo. La povertà metteva a tacere famiglie e comunità che ne traevano qualche beneficio economico, mentre un semplice furto avrebbe mobilitato tutti per isolare e linciare il ladro. È evidente la scala dei valori di popolazioni mai progredite, fatta di individui senza nome, senza voce.

    Quanto alla comunità internazionale raro è il successo di missioni, mentre molti sono i fallimenti. Tra i fallimenti viene evocato quello riguardante la Somalia, con riferimento alla figura di Abdi Arush Starlin, incontrata dall’autore a Merca (Somalia) il 20 ottobre 1999. Perla luminosa nel fango, presto scomparsa. Nel libro si presenta la Somalia come l'esempio più macroscopico di una sconfitta della comunità internazionale che non era riuscita a ripristinare una forma di governo, assistendo impotente alla prevaricazione dei clan.

    L’incontro con Starlin è uno dei quadri più nitidi di una società africana portata avanti da donne coraggiose che non ignorano i rischi di assumere responsabilità di leader, ma non si fermano. Starlin all’epoca svolgeva, di fatto una funzione simile a quella di governatrice della città, in un paese lacerato da lotte tribali. Era riuscita ad ottenere fondi dalle agenzie della Nazioni Unite e dalla Commissione europea per progetti di sviluppo come l’istruzione e la formazione compresa quella di ex miliziani che avevano deciso di deporre le armi. L’Ong di cui l’autore faceva parte collaborava con Starlin per la realizzazione di quei progetti, ma ancora una volta le luci di speranza per Merca, per la Somalia e per l’Africa venivano repentinamente e violentemente spente, con la scomparsa della sua eroina eccezionale.

    Molti sono gli scenari e i personaggi descritti con ricchezza di dettagli e di riferimenti storici. La narrazione ci coinvolge e ci pone questioni difficili, attraverso il lungo e variegato percorso di Pietro De Carli in un inferno vasto, diffuso, che non ha neppure i gironi, e dal quale è uscito con la voglia di rimanervi per sempre, facendolo diventare testimonianza della sua vicinanza a moltitudini di persone che sembrano destinate a rimanere fuori dalla storia, e alle quali presta voce per reclamare verità, denunciare, condannare, graffiare le coscienze senza veli né sconti per coloro che in Africa si sono arricchiti, divertiti, cimentati in giochi cinici di dominio e di inganno. Non era facile rimanere lucidi e vedenti seguendo quel percorso, Pietro De Carli vi è riuscito e mostra generosamente a tutti noi che è possibile fare altrettanto non solo in Africa ma anche a casa nostra.

    ________________________________________________________________________________________________________________________*Magistrato. Dopo essersi occupata, presso la corte d’appello di Milano, di criminalità organizzata a livello interno e internazionale, di riciclaggio, traffico internazionale di stupefacenti, corruzione e abusi sui minori, nel 1988 ha partecipato alla conferenza intergovernativa di Roma che ha portato alla costituzione della Corte Penale Internazionale con sede all’Aia (Olanda). Nel 1999 e nel 2007 ha guidato l'accusa nei processi contro Tharcisse Muvunyi, comandante militare dichiarato colpevole di istigazione al genocidio in Ruanda, contro il Ministro della Famiglia e della Promozione Femminile Pauline Nyiramasuhuko, condannata all'ergastolo per genocidio e crimini contro l'umanità (crimini di guerra, persecuzione, sterminio e stupro commesso da altri sotto la sua autorità) e contro Athanase Seromba, sacerdote cattolico condannato all'ergastolo nel 2008 per aver incoraggiato uccisioni di massa dei tutsi che si erano rifugiati nella sua chiesa di Nyange (Ruanda) tra il 12 ed il 16 aprile del 1994, rendendosi colpevole di genocidio e di sterminio. Si è occupata inoltre del procedimento contro il presidente sudanese Omar Hasan Ahmad al-Bashir e delle indagini sulle violenze occorse nel 2008 in Kenya, in Libia, in Costa d'Avorio. Nel 2011 ha pubblicato il libro «Mentre il mondo stava a guardare», su vittime, carnefici e crimini internazionali, le battaglie di una donna magistrato nel nome della giustizia (ed. Mondadori 2011).

    INTRODUZIONE

    di Sergio Cofferati*

    Il libro di Pietro è molto bello. Racconta, senza retorica, di persone straordinarie, di eventi spesso drammatici e di un mondo, il continente africano, sconosciuto a molti dei cittadini di altri paesi della terra. Sconosciuto nella sua condizione reale, nelle grandi contraddizioni che lo caratterizzano e che esplodono tra enormi potenzialità e ancora più rilevanti bisogni. Dell’Africa continua a circolare un’immagine di pura fantasia nella quale la bellezza del continente (assolutamente vera) copre e a volte cancella la non meno grande e grave condizione materiale nella quale vivono milioni e milioni dei suoi abitanti. Molti stati del mondo, e l’Europa in particolare, nel corso dei secoli hanno saccheggiato le terre africane. Materie prime, materie energetiche, beni di ogni genere sono stati sottratti con la forza ai loro naturali possessori. Nello stesso tempo si è ostacolata la crescita e lo sviluppo anche di elementari forme di democrazia, facendo spesso seguire alla pratica coloniale la nascita di dittature. Perché è cinicamente più semplice e vantaggioso avere rapporti con una dittatura che con una democrazia ben radicata. Pietro fa parte di quel gruppo di persone che merita gratitudine e grande rispetto per aver deciso di aiutare concretamente quelle donne, quegli uomini e quei bambini a conquistare serenità e dignità, quelle che derivano dalle condizioni materiali e sociali del vivere quotidiano. Pietro ha vissuto e lavorato 15 anni in Africa, in luoghi e in condizioni diverse. Ne parla nel suo libro e lo fa senza nascondere nulla, né i fatti né le sue sensazioni ed emozioni. Spesso gli accadimenti sono particolarmente drammatici e intrisi di violenza. Violenza che nasce dalla mancanza di diritti, da bestiali condizioni di vita, dall’inesistenza di regole e di cultura democratica. E sono le persone come Pietro che provano con il loro lavoro a suturare queste ferite, perché gli Stati non sono capaci di promuovere azioni efficaci (e spesso nemmeno lo vogliono), perché dignità e solidarietà sono diventate parole malate per molte delle persone che vivono al di fuori del continente africano. La storia che dovremmo conoscere è fatta certo dai grandi accadimenti che interessano le comunità ma anche dalla conoscenza del fluire della vita e dai comportamenti delle persone. Perché sono le vicende quotidiane che costruiscono e definiscono i grandi fatti. Questa conoscenza è necessaria sempre ma lo è ancora di più nel tempo presente, ora che il fenomeno epocale delle migrazioni coinvolge e sconvolge l’intera Europa. Un numero grande e crescente di persone nate nel continente africano fuggono dalla loro terra per salvarsi dalle guerre, per garantirsi un futuro dignitoso e diritti rispettati. Insomma non c’è più o solo la ricerca del lavoro ma quella ben più importante della vita. Tutto ciò accade mentre in Europa cresce un clima di ostilità verso i migranti. Il contrasto più efficace a questa deriva è la conoscenza, quella del contesto e delle dinamiche in atto. Esattamente quella conoscenza che il libro di Pietro ci consente di acquisire. Grazie per tutto ciò.

    *Parlamentare europeo, già segretario generale della Cgil e sindaco di Bologna.

    «Se ogni guerra è una sorta di viaggio all’inferno, l’Africa è la sua scorciatoia».

    (Arturo Pérez-Reverte)

    «Ogni mattina in Africa, come sorge il sole, una gazzella si sveglia e sa che dovrà correre più del leone o verrà uccisa. Ogni mattina in Africa, come sorge il sole, un leone si sveglia e sa che dovrà correre più della gazzella o morirà di fame. Ogni mattina in Africa, come sorge il sole, non importa che tu sia leone o gazzella, l’importante è che cominci a correre».

    (Proverbio africano)

    A Maria, Natascia, Jacopo e Luna

    I.                   MOZAMBICO, TRA LE ROVINE DELLA GUERRA CIVILE

    «Noi non abbiamo ereditato il mondo dai nostri padri, ma lo abbiamo avuto in prestito dai nostri figli e a loro dobbiamo restituirlo migliore di come lo abbiamo trovato».

    Barone Robert Baden-Powell (1857-1941), citando un antico detto masai

    Quando il piccolo aereo della compagnia mozambicana Lam atterrò a Maputo, proveniente da Johannesburg, sobbalzando sull’asfalto rovente della pista, era ormai sera. Il programma di volo prevedeva l’arrivo in tempo per raggiungere gli uffici del progetto nella località di Boane, a 40 chilometri di distanza, evitando le ore notturne per motivi di sicurezza. Ma l’aereo partì e giunse in ritardo e così dovemmo affrontare il viaggio dopo il tramonto, che in Africa scorre dalla intensità della luce all’oscurità in pochissimi minuti. I fari dell’auto fendevano l’oscurità e l’autista guidava a velocità moderata e con molta attenzione perché c’era il rischio di incontrare auto o camion con un solo faro acceso o addirittura con entrambi i fari spenti, oppure camion che, a causa della perenne mancanza di manutenzione, incappavano in inevitabili rotture meccaniche, abbandonati sulla carreggiata senza alcun segnale luminoso. Solo qualche frasca strappata dagli arbusti e gettata sull’asfalto a poca distanza dal mezzo in sosta segnalavano, con scarsa efficacia nelle ore notturne, il pericolo di investire un mezzo che ostruiva la strada. Senza contare le buche profonde sull’asfalto che, se non evitate con bruschi slalom di guida, potevano portare fuori strada (1). Era il 15 aprile 1994. Era trascorso un anno e mezzo dalla firma del trattato di pace tra il governo e i ribelli della Renamo, sottoscritto a Roma il 4 ottobre 1992, che aveva posto fine a un decennio di rovinosa guerra civile, ma numerosi gruppi di ribelli si erano dati alla macchia, dediti alla delinquenza comune, dando luogo ad aggressioni ai pochi automezzi che a quei tempi si avventuravano per necessità nelle malconce strade mozambicane, rapinando e uccidendo i passeggeri per poi incendiare i veicoli. Ecco perché era importate viaggiare di giorno. Vigeva, di fatto, una sorta di coprifuoco informale nelle ore notturne che chi poteva cercava di osservare. Quella notte era più buia del solito a causa di una coltre di nubi che impediva alla luna di riverberare la luce riflessa del sole dal suo corpo celeste sulla terra. Ad un certo punto, mentre stavamo per imboccare un vecchio ponte di ferro arrugginito sul Rio Matola, l’autista pigiò con forza il piede sul pedale del freno facendo arrestare bruscamente il veicolo, suscitando la nostra apprensione. Aveva intravisto un’ombra voluminosa che occupava il centro del ponte. Accese le luci abbaglianti per vedere di che cosa si trattasse. Era un furgone fermo che occupava l’intera carreggiata del ponte con alcune persone che gli giravano attorno.

    Vedemmo apparire dei veicoli anche dalla parte opposta del ponte, che si fermarono anch’essi in attesa di verificare cosa stesse succedendo. Dopo un pò ci rendemmo conto che il furgone aveva forato un pneumatico e cercavano di sostituirlo. Rimanemmo quasi mezz’ora in attesa che completassero l’operazione, prima di riprendere il viaggio. Arrivammo al campo espatriati della Cmc a Boane che era ormai mezzanotte. Durante il viaggio avevo saltato la cena. Accettai con piacere un piatto di ottima frutta esotica che conteneva papaya dal colore rossastro, mango e fette di ananas, tutta saporitissima.

    Mi capitò spesso di incrociare dei carri armati con l’egida dell’Onu che continuavano a vigilare lungo le arterie stradali. In quegli anni di transizione dalla guerra alla pace, c’erano ancora degli elementi di instabilità da tenere sotto controllo. L’arrivo di 1.120 alpini era iniziato in marzo 1993, nell’ambito dell’operazione di pace "Albatros", sotto l’egida delle Nazioni Unite. Si trattava di un corpo di spedizione che comprendeva anche alcuni altri - pochi - paesi europei (Slovenia, Croazia, Albania e Malta), del Nord Africa (Egitto, Marocco e Libano), del Medio Oriente (Siria, Iran, Kuwait e Sahara Occidentale), dell’Africa Sub-Sahariana (Somalia) e del continente asiatico (regione indiana del Kashmir e Cambogia).

    Viaggiando lungo la strada che da Boane conduceva a Naamacha, cittadina di confine con lo Swaziland, c’erano, ai lati della strada, numerose vetture carbonizzate. Erano state vittime di aggressione, alcune negli anni addietro e altre incendiate più di recente. Era una strada in dissesto totale, con profondi solchi accentuati dai pneumatici dei camion durante la stagione delle piogge. Occorreva una guida particolarmente attenta per evitare di rimanere arenati. Ci chiedevamo perché nessuno raccogliesse quella enorme quantità di ferro vecchio. Cosa che iniziò a verificarsi solo dopo il completamento della riabilitazione della strada con un manto bituminoso, l’anno seguente. La strada in terra battuta che conduceva da Maputo a Macaneta, a nord, sulla costa dell’oceano Indiano era in condizioni migliori e solo in alcuni avvallamenti si formavano delle buche. Cerano diversi gruppi di ragazzini lungo il percorso che le ricoprivano utilizzando dei badili e attendevano le auto e i camion di passaggio per chiedere una ricompensa. I genitori li mandavano ogni giorno a ricoprire le buche che avevano già coperto il giorno prima, per guadagnare qualche soldo, privandoli così dell’istruzione scolastica. Quando ci avvicinavamo porgevano le mani per elemosinare qualche monetina. A noi bianchi si rivolgevano con il termine «Patrão. Um dineiro por favor». Rimasi molto sorpreso da quella definizione, "padrone", risalente al periodo coloniale e ancora in uso dopo oltre quindici anni dall’indipendenza dal Portogallo. La sentii pronunciare anche da alcune persone anziane analfabete che riservavano ancora ai bianchi questo sostantivo, benchè del tutto fuori luogo. Si tratta di un termine attribuibile a chi detiene la proprietà di un bene patrimoniale o di un’impresa ma non certo e, fortunatamente, non più utilizzato per una distinzione di carattere razziale.

    (1)     Proprio su quella strada, quattro mesi prima, alla vigilia di natale del 1993, persero la vita un magazziniere ravennate della Cmc, Dario Morigi e la sua compagna Roberta Candia, mentre viaggiavano in auto per raggiungere la capitale, scontrandosi violentemente contro un camion in panne abbandonato sulla strada nell’oscurità, senza alcuna segnalazione visibile a distanza.

    DALLA LOTTA DI LIBERAZIONE ALLA GUERRA CIVILE

    Il Mozambico era passato dalla guerra di liberazione alla guerra civile, senza conoscere la pace. Il Sud Africa e la Rhodesia non gradivano un Mozambico alleato con i movimenti anti-apartheid e finanziarono la formazione ribelle della Renamo, sostenuta anche dagli Stati Uniti nella loro strenua contrapposizione con il blocco sovietico a cui il Mozambico era alleato. Gli obiettivi militari della Renamo, nei primi anni `80, miravano ad indebolire le comunicazioni, distruggendo gran parte delle principali infrastrutture (ponti, ferrovie, tralicci di alta tensione, scuole e ospedali) costruite durante la dominazione coloniale portoghese. Il paese, che uscì povero dalla dominazione coloniale ma con infrastrutture efficienti, si trovò così decimato ed ancora più povero alle soglie del nuovo millennio. Gli aiuti dell’Unione Sovietica si erano concentrati principalmente nelle città, nel campo dell’edilizia pubblica (sedi governative, case popolari, ecc.), nell’addestramento dell’esercito e nella fornitura degli armamenti. In cambio ottenne la concessione della pesca nelle ricche acque pescose dell’Oceano Indiano lungo la costa mozambicana. Nel 1984 Samora Machel sottoscrisse con il leader sudafricano P. W. Botha, l’accordo di Nkomati che stabiliva la fine delle ostilità in cambio della espulsione dal Mozambico dei membri in esilio del movimento anti-apartheid sudafricano dell’Anc (African National Congress). Samora Machel tenne fede all’accordo, ma il Sudafrica continuò a finanziare i ribelli della Renamo.

    Samora Machel, leader della Frelimo, rimase al potere dal 1975 fino al 19 ottobre 1986, giorno in cui trovò la morte in un incidente aereo, a bordo di un Tupolev Tu-134 di fabbricazione sovietica, mentre rimpatriava da un incontro internazionale in Zambia, nei pressi del confine con il Sudafrica. Un incidente su cui si innestarono molte congetture senza riuscire a svelarne le circostanze, che rimase avvolto nel mistero. Samora Machel era un leader carismatico, rigoroso ed intransigente, insensibile alla corruzione che, dopo di lui, dilagò. Per esprimere un concetto sulle ingiustizie che perpetravano le condizioni di povertà, sosteneva un motto: «Al cane di un uomo ricco vengono dispensati più vaccini e medicine e cure mediche che agli operai dal cui lavoro deriva il benessere dell'uomo ricco». Anche i suoi più accaniti avversari gli riconoscevano la coerenza di appartenere ad una famiglia povera di contadini, rimasta povera anche dopo la sua morte. Caso abbastanza raro in Africa.

    La guerra civile aveva stremato il paese causando un milione di morti ed oltre un milione e mezzo di profughi, inducendo il Fondo Monetario Internazionale ad approvare nel 1987 un vasto programma di aiuti internazionali. La fine della guerra fredda che privò ogni motivazione di sostegno degli Stati Uniti alla Renamo, il crollo del regime di Ian Douglas Smith in Rhodesia e, soprattutto, la transizione in corso in Sud Africa che portò alla fine dell`apartheid, privò la Renamo dei suoi sostenitori finanziari e fornitori di armi, creando i presupposti per una trattativa di pacificazione, nella quale la diplomazia italiana, con l`apporto della Comunità di S. Egidio, giocò un ruolo fondamentale, pervenendo agli accordi di pace di Roma del 4 ottobre 1992 sottoscritti dal presidente mozambicano Joaquim Chissano e dal leader della Renamo Afonso Dhakama. L’accordo prevedeva una nuova costituzione che sancì la nascita di una democrazia multipartitica, con la fissazione di elezioni politiche nel 1994. Le Nazioni Unite dispiegarono una missione peacekeeping denominata Onumoz (United Nations Operation in Mozambique) con lo scopo di controllare il rispetto degli accordi e facilitare il processo di pacificazione, fino al 1994, dopo le elezioni presidenziali ed amministrative vinte dal Frelimo, con la Renamo all’opposizione. Il processo di democratizzazione istituzionale avviato con la vittoria elettorale del Frelimo si accompagnò ad una graduale apertura al libero mercato, che favorì l’ingresso di investimenti stranieri, in primo luogo dal vicino Sudafrica, considerata una potenza emergente per l’economia dell’Africa australe. La numerosa comunità dei "Monier", immigrati indo-pakistani di religione islamica che avevano lasciato le zone di origine durante la guerra civile tra due religioni rivali, trovarono l’occasione propizia per accrescere il loro ruolo dominante nella gestione della rete commerciale al dettaglio, diffusa capillarmente in ogni centro abitato del Mozambico.

    LO SCANDALO ONUMOZ

    Il contingente degli alpini italiani nella missione Onumoz aveva la sua base a Chimoio, nella provincia di Manica, a un migliaio di chilometri da Maputo. Un rapporto dell’Onu presentato da Graça Marchel sull’impatto dei conflitti armati sui bambini rivelò che soldati delle Nazioni Unite avevano reclutato adolescenti come prostitute e che "molto spesso gli ufficiali avevano chiuso un occhio per i crimini di violenza sessuale dei propri subordinati". L'inchiesta metteva sul banco d'accusa i caschi blu italiani, in missione in Mozambico dal 1993 al 1994. L'inchiesta sottolineava che il contingente di 3.600 soldati del Battaglione Albatros, giunto in Mozambico, nelle province di Manica e Sofala, avviarono un vero «mercato e traffico di bambine reclutate nelle scuole a 12 anni e poco più, coinvolte in attività di pornografia con la circolazione di video e foto nei ranghi del battaglione». L'inchiesta sottolineava inoltre che «i soldati italiani preferivano le bambine perché c'era maggior divertimento e minore pericolo di contrarre l'Aids. Le tariffe variavano da un dollaro per prestazioni con preservativo a 20 dollari per prestazioni senza preservativo. Vennero creati dei veri e propri bordelli nel raggio di 400 chilometri da Chimoio, dove erano di base. L'organizzazione della prostituzione infantile da parte dei soldati e superiori del Battaglione Albatros aveva creato una fioritura di 'protettori' locali per compiacere i desideri sessuali dei caschi blu (in missione di pace) italiani, con la creazione di club privati, l'affitto di locali dove avvenivano gli incontri. Spesso la polizia a Tete, Beira e Inhambane faceva irruzioni in bar dove arrestava le ragazzine alle quali venivano somministrate combinazioni di alcol e droghe pesanti» (1). Le condizioni di estrema povertà erano tali da indurre persino alcune famiglie ad accettare la prostituzione delle proprie figlie per racimolare qualche vantaggio economico.

    Lo scandalo aveva assunto proporzioni tali che divenne insostenibile per le autorità del governo di Maputo. Le prime denunce dell'Onu furono pubblicate dai media locali e riprese dalle agenzie internazionali. In Italia, precisava il rapporto Onu che il governo italiano, l'ambasciatore italiano in Mozambico, il generale Fontana (comandante del contingente italiano e responsabile della Regione militare) replicarono alle denunce della commissione d'inchiesta sostenendo che tali accuse erano false, offensive e dettate dal puritanesimo. In aprile 1994 il contingente di 3.600 uomini arditi del battaglione Albatros fu fatto rientrare in Italia. La motivazione ufficiale adottata dal governo italiano fu lo scarso bilancio riservato alla missione italiana in Mozambico.

    Il quotidiano "Noticias" salutò la partenza del contingente Onu con una vignetta di ampie proporzioni in prima pagina che raffigurava i militari mentre salivano sull’aereo Onu e una moltitudine di ragazze mozambicane con in braccia un bambino che li salutavano con le lacrime agli occhi. Una vignetta che denunciava ironicamente una realtà imbarazzante. Ciò che mi colpì, in quella circostanza, fu la dichiarazione rilasciata alla stampa dall’arcivescovo mozambicano della chiesa cattolica di Beira, Jaime Pedro Gonçalves, con la quale cercò di gettare acqua sul fuoco, giustificando il comportamento dei militari con la tendenza diffusa al sesso precoce da parte delle adolescenti mozambicane. Lo stesso arcivescovo che ottenne da Papa Woytila, in occasione della sua visita pastorale a Beira nel 1988, i fondi per la costruzione di una basilica che non fu mai costruita.

    (1)     Bordello Italia, Il Manifesto 5 gennaio 1997

    Ragazza con il viso coperto da una crema protettiva ricavata dal legno di una pianta di Mussiro utilizzata tradizionalmente nella provincia di Nampula, nel nord del Mozambico (foto P. De Carli, Pemba agosto 1991)

    DEUS È BRANCO

    La Branch della cooperativa Cmc di Ravenna in Mozambico gestiva diverse attività, dalla costruzione della diga di Boane, all’acquedotto di Pemba, al progetto multisettoriale di sviluppo rurale nella provincia di Maputo, alla costruzione di opere portuali, infrastrutture stradali e diverse opere di ingegneria civile. Occupava un centinaio di espatriati e un migliaio di lavoratori mozambicani. L’apporto della Cmc in Mozambico non era quello generalmente attuato dalle imprese di procacciarsi degli appalti, ma anche quello di lasciare un segno tangibile nel segno della continuità, investendo in Mozambico gran parte dell’utile ricavato e formando un numero elevato di manodopera senza alcuna professionalità in forza lavoro qualificata, impiegati tecnici e amministrativi, muratori, carpentieri, ferraioli, cementisti, meccanici, autisti di mezzi pesanti, guardiani, addetti alle pulizie e ai servizi logistici. Ogni anno veniva rinnovato un contratto aziendale con i rappresentanti sindacali che stabiliva incrementi retributivi e premi di produzione. Le retribuzioni del contratto aziendale erano discretamente più elevate rispetto a quelle mediamente vigenti nel mercato del lavoro locale nel settore delle costruzioni e, soprattutto, prevedevano una regolamentazione dei diritti e delle tutele. Molti di essi divennero un prezioso patrimonio di professionalità per il loro paese. Il rapporto dieci a uno tra personale locale e espatriato a cui i datori di lavoro devono attenersi in Mozambico fu introdotto, di fatto, dalla Cmc prima ancora che divenisse legge dello stato. L’unica grave eccezione di elusione di questa norma sarebbe avvenuta negli anni successivi con la Cina, consentendo alle loro imprese di impiegare solo personale cinese.

    L’Oim (Organization for Migration) affiliata all’Organizzazione Internazionale del Lavoro si adoperò per la reintegrazione nella società civile, attraverso l’inserimento nell’attività lavorativa, dei miliziani che appartenevano alla formazione della Renamo, per promuovere la pacificazione nazionale ed evitare i pericoli di destabilizzazione che avrebbero potuto altrimenti derivarne. L’Oim contribuiva ai costi salariali nella misura del 65% per un training della durata di sei mesi. Nonostante ciò erano pochi gli imprenditori che accettavano di assumere persone che avevano nell’attività prevalente del loro curriculum un passato di belligeranza e una eccessiva dimestichezza con le armi. La Cmc si rese immediatamente disponibile ed io mi occupai dei rapporti con l’Oim per provvedere all’assunzione di un numero, inizialmente limitato e poi assai più consistente, di 75 "desmobilizados". La maggior parte di essi venne impiegato nella riabilitazione della strada che da Boane conduceva a Ressano Garçia, al confine con il Sud Africa, in direzione del Kruger Park. Trascorsi i sei mesi contrattualmente previsti, in attesa di disporre di nuovi cantieri in cui impiegarli, ebbe luogo la scadenza del contratto di lavoro e furono informati che in base a quanto previsto dal contratto gli spettava una indennità di licenziamento. Essi non contestarono il licenziamento, ma l’entità dell’indennità di licenziamento, pretendendo il triplo del dovuto. Per far valere maggiormente il loro potere contrattuale occuparono il cantiere e sequestrarono tutti i mezzi (escavatori, camion, betoniere, ecc.), incuranti del fatto che si trattasse di azione illegale. Ne parlai con l’Oim e convenimmo di evitare di rivolgerci alle autorità, che avrebbero riacceso rivalità latenti, cercando di risolvere il contenzioso negoziando una soluzione consensuale. Il responsabile amministrativo aveva intuito che era un contenzioso difficile da dirimere e quindi se ne lavò le mani affidandomi l’incarico di risolvere il problema. Era evidente che non avevamo a che fare con lavoratori qualsiasi. Erano persone temprate dalla guerra civile. Accettai, ma ad una condizione, di avere il mandato di condurre le trattative con potere decisionale. Non era una trattativa in cui fosse possibile dilazionare le decisioni. Portai con me un collaboratore mozambicano dell’ufficio personale, Borges, che a malincuore mi accompagnò. Quando giungemmo al cantiere trovammo tutti i dipendenti assiepati nel cortile della base logistica dove stazionavano i macchinari e dov’erano situati i container in cui venivano conservati gli attrezzi da lavoro e le scorte del materiale, come taniche di gasolio e cemento. Osservando i loro sguardi emergeva un palese atteggiamento di ostilità, lievitata dopo la decisione di occupazione del cantiere e l’eccitazione che ne era scaturita. Erano molto arrabbiati perché non era stata accolta la loro richiesta. Nessuno mi venne incontro per presentarsi come interlocutore in rappresentanza di tutti loro e questo rendeva più difficile negoziare una soluzione. Esordii rivolto a tutti dicendo: «Sono qui per trovare una soluzione condivisa». Le reazioni verbali si sovrapponevano e chi urlava di più prevaleva sugli altri. Uno di essi urlò: «Non c’è nulla da discutere, vogliamo quello che abbiamo chiesto». Un altro assunse un tono minaccioso: «Chiudiamolo in un container e vedrai che si decide ad accogliere quel che vogliamo». Erano giornate molto calde, il sole scottava sulla pelle ed era evidente che all’interno dei container la temperatura era soffocante come in un forno. La proposta venne ben presto caldeggiata anche da altri che urlarono: «Si, si, chiudiamolo in un container». Notai con la coda dell’occhio che Borges, in silenzio, si dileguò lasciandomi solo, attorniato da una settantina di persone particolarmente eccitate e con dei trascorsi che li avevano abituati alle estreme conseguenze di una violenza alimentata dall’odio di una guerra fratricida. L’unico modo per non fare un passo falso era quello di mantenere la calma e di non dimostrare la paura che, in qualche misura, in una situazione simile, poteva facilmente affiorare. Continuai a sostenere che volevo sapere chi era tra loro la persona che li rappresentava per trovare una soluzione ragionevole. Nessuno indicò chi avesse quel ruolo. Continuarono a mormorare toni minacciosi, ma notai che diversi di loro lanciarono occhiate a uno di essi seduto su un ceppo di legno che non aveva pronunciato ancora alcunché, mantenendo il silenzio. Mi feci largo tra loro e avanzai verso di lui mentre tutti gli altri improvvisamente zittirono. Alzò gli occhi verso di me e profferì poche parole con un tono pacato: «Qual è la sua proposta?» Gli dissi che la Cmc era disponibile a riconoscergli il 50% in più di quel che gli spettava per chiudere consensualmente la vertenza. «Se lei è qui per trattare» – mi rispose – «vuol dire che possiamo trattare, ma quel che lei ci propone non ci basta». Gli dissi che il limite massimo che ero stato autorizzato a negoziare era il doppio di quel che avevano chiesto e nulla più. In caso contrario avrei dovuto riparlarne con la direzione. Mi osservo. Forse dubitò, a ragione, della tattica che avevo adottato di disporre un mandato limitato, ma neppure lui voleva rischiare di trascinare la vertenza all’infinito. Rimase in silenzio per un attimo, gettò uno sguardo fugace sui volti tesi degli altri lavoratori che ci circondavano, e poi esclamò: «Allora che ne dite? - rivolgendosi agli altri – Io direi che possiamo concordare con il doppio dell’indennità che ci spetta. Però sia ben chiaro, ci dev’essere pagata subito». Un mormorio di voci si levò per manifestare il loro dissenso, avrebbero voluto ottenere quel che avevano reclamato, il triplo dell’indennità prevista dal contratto e l’atteggiamento del loro rappresentante gli sembrava una resa. A quel punto si alzò in piedi ed esclamò agli astanti: «Quante volte siete stati al mercato? Avete mai accettato il prezzo del negoziante? O avete cercato di trattare un prezzo più vantaggioso? Quando si fanno delle trattative si cerca di ottenere un vantaggio, l’unica soluzione è che vada bene ad entrambe le parti. Io credo che questa sia una soluzione ragionevole e accettabile». Il mormorio diminuì ed io colsi al balzo la situazione vantaggiosa: «Domani potete venire a riscuotere il vostro salario e l’indennità che abbiamo concordato». Qualcuno continuò a manifestare il proprio disappunto e lui, pacatamente, sentenziò la conclusione delle polemiche con una frase enigmatica: «Deus è branco» (Dio è bianco). Un’affermazione difficile da interpretare, ma che appariva come una sorta di complesso di inferiorità o di subalternità culturale. Provai a supporre che la spiegazione fosse in qualche modo dovuta all’unico credo soprannaturale di origine atavica, l’animismo, in cui il 26% della popolazione in Mozambico continuava ad identificarsi, secondo il quale tutte le cose sono animate da spiriti benefici o malefici, dotate di un’anima, credute divine e degne di culto. Ma non ne ero affatto certo.

    IL LINCIAGGIO NEGLI USI E COSTUMI LOCALI

    La Cmc si era dotata di un proprio posto medico aziendale con uno stock di medicinali continuamente rifornito che sopperiva, almeno in parte, alle esigenze del territorio circostante. Un medico mozambicano che si era laureato a Lisbona, assunto dall’azienda, prestava assistenza sia al personale espatriato che a quello mozambicano e ai loro familiari. Ogni giorno un numero nutrito di persone, in prevalenza donne e bambini, affollava l’entrata sotto la tettoia del posto medico per le cure di cui abbisognavano. Per far fronte a situazioni di emergenza la Cmc disponeva anche di un elicottero, la cui guida era affidata ad un pilota sudafricano, per trasferire i malati e le vittime di infortuni sul lavoro per i quali si poneva la necessità di disporre di un’assistenza ospedaliera specialistica, a Nelspruit, la città più vicina dopo il confine con il Sud Africa. Il pilota guidava l’elicottero, evitando il percorso più breve in linea retta, optando per seguire il greto di un fiume che sorvolava volando a bassissima quota per impedire di essere avvistato a distanza dalle bande di ex guerriglieri che si erano date alla macchia e diminuire così le probabilità di essere intercettati, approfittando del fattore sorpresa. Il rumore dell’elicottero si udiva a distanza ma lo si avvistava solo all’ultimo momento quando sorvolava velocissimo per poi scomparire subito dopo tra le chiome degli alberi che fiancheggiavano il fiume. L’ospedale civile di Maputo era privo di competenze mediche specialistiche e di apparecchiature medicali idonee. L’unica struttura sanitaria più affidabile a Maputo, nei primi anni ’90, era la clinica privata sudafricana Sommerschield,

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