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Storia irriverente di eroi, santi e tiranni di Napoli
Storia irriverente di eroi, santi e tiranni di Napoli
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E-book939 pagine13 ore

Storia irriverente di eroi, santi e tiranni di Napoli

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Info su questo ebook

Una galleria di personaggi che hanno lasciato una traccia profonda nella storia della città

Che Napoli sia «un paradiso abitato da diavoli» è un adagio che dal Medioevo in poi ha goduto di vasta e ampia fortuna. Ai nostri giorni sembra che l 'antico detto stia più che mai ravvivandosi, specialmente per il degrado del vivere quotidiano, accompagnato da una sistematica inosservanza delle regole. A fare da contrappunto, la costante volontà di chi ancora vuole testimoniare la nobile e secolare storia della città e farne conoscere i complessi monumentali e gli incanti paesaggistici famosi nel mondo. Questo manuale si propone di raccontare la storia curiosa e insolita di tiranni ed eroi, di miserabili e santi di Napoli così da scoprire la trama intrigante e un poco pettegola della perfetta e potente immagine celestialmente infernale, talvolta burlona e boccaccesca, che la città ha assunto nel corso della sua storia. Una raccolta di agili, curiose e irriverenti biografie dei protagonisti della storia della città, che mostrano come Napoli non sia semplicemente vicoli, strade, palazzi, piazze, mare, ma anche e soprattutto le persone che vivendola le hanno dato vita.

Napoli emerge dalle storie di coloro che l’hanno vissuta

Tra i personaggi raccontati:

• Abbondanza, Marco. Nemo propheta in patria?
• Bassolino, Antonio. Il sindaco controverso
• Caravaggio, Michelangelo Merisi. L’inquietudine creativa
• Carosone, Renato. ‘O Sarracino della canzone napoletana
• D’Acquisto, Salvo. Il cuore grande di un carabiniere
• Federico II di Svevia. L’intelligenza e la saggezza al potere
• Pisacane, Carlo. Un eroe dimenticato e discusso
• Saviano, Roberto. Lo scrittore anticamorra
• Tommaso Aniello, detto Masaniello. Il tribuno della rivolta napoletana
• Vico, Giambattista. Il filosofo napoletano per eccellenza
Giovanni Liccardo
È archeologo e storico della tarda antichità. Oltre a studi per riviste («National Geographic», «Rivista di archeologia cristiana») e miscellanee, ha pubblicato vari saggi, tra i quali Vita quotidiana a Napoli prima del Medioevo. Per la Newton Compton ha scritto molti libri di napoletanistica, tra i quali Guida insolita ai misteri, ai segreti, alle leggende e alle curiosità di Napoli sotterranea; La grande guida dei musei di Napoli; Campania sconosciuta; Il grande libro dei misteri di Napoli e della Campania; Il grande libro dei quartieri di Napoli e Storia irriverente di eroi, santi e tiranni di Napoli.
LinguaItaliano
Data di uscita11 dic 2017
ISBN9788822715333
Storia irriverente di eroi, santi e tiranni di Napoli

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    Anteprima del libro

    Storia irriverente di eroi, santi e tiranni di Napoli - Giovanni Liccardo

    Introduzione

    Che Napoli sia un paradiso abitato da diavoli, in altre parole da uomini «di poco ingegno, maligni, cattivi e pieni di tradimento», è un aforisma che dal Medioevo in poi ha goduto di abbondante e ricca compiacenza; del resto, anche Benedetto Croce esortava i suoi contemporanei a un dovere che facesse tesoro della memoria storica perché quel detto fosse ritenuto sempre meno credibile. Ai nostri giorni, poi, sembra che l’antico adagio stia più che mai rianimandosi, innanzitutto per la sgradevole evidenza del degrado del vivere quotidiano, accompagnato da una sistematica inosservanza delle regole e dei valori, quindi da una incalzante invadenza dell’illegalità e dei costumi malavitosi; che fa da contrappunto alla costante volontà di gente dinamica che si impegna in tutti i modi per affermare e far conoscere le virtù della città, testimoniate da secoli di nobile e straordinaria storia e da una vita artistica e letteraria di prim’ordine, con complessi monumentali e incanti paesaggistici famosi nel mondo.

    Fermo restando, naturalmente, che la napoletanità è uno stato d’animo addizionale quanto persistente, come acutamente dice il sindaco Luigi de Magistris nell’Introduzione al denso libro Napoletani per sempre a cura di Paquito Catanzaro e Simona Vitale (Edizioni della Sera, 2017): «Uno stato d’animo anche perché Napoli è terra d’esilio, te la porti dietro in una valigia, mischiata a macchinette da caffè e conserve di melanzane, ne trattieni l’umore per rimanere riconoscibile, soprattutto a te stesso».

    Da qui scaturisce l’idea di questo libro che vuole ricostruire, con linguaggio e maniera di ampia divulgazione, la storia curiosa e insolita di tiranni ed eroi, di miserabili e santi di Napoli, o che con Napoli hanno avuto o hanno una stretta relazione, un forte legame. Ma anche considerare la biografia di personaggi poco noti, però protagonisti di azioni straordinarie, insolite, sorprendenti, ora nobili e generose, ora volgari e spregevoli; di persone che hanno reso grande Napoli, o che – all’opposto – dalla città-sirena sono stati traditi e avvelenati come figli illegittimi. Un testo che vuole scoprire la trama intrigante e un poco pettegola della perfetta e potente immagine celestialmente infernale, talvolta burlona e boccaccesca, di certo contraddittoria e illogica, che la città e i suoi abitanti e i suoi ospiti hanno assunto nel corso della sua storia.

    Dell’incapacità spesso dei cittadini e dei forestieri di leggere e interpretare la quotidianità; di esaltare frequentemente le carogne e gli infami e di attaccare i buoni e gli eroi; di confondere il bene e il male, soprattutto di piegare tutto a proprio vantaggio, come dimostra con un sorriso amaro il film Operazione San Gennaro con il grande Totò e Nino Manfredi; in particolare, nella scena finale quando Dudù (Nino Manfredi) trovandosi nel pieno della festa per la processione di San Gennaro tenta di sottrarsi alla folla con la borsa contenente il bottino (il Tesoro di San Gennaro), ma è scambiato da tutti come l’eroico salvatore del tesoro e non può far altro che restituirlo alla città!

    Una raccolta di curiosi e irriverenti profili di alcuni dei protagonisti che hanno fatto la storia di Napoli; vale a dire, di certi personaggi peculiari e unici, celebri e meno famosi. Di uomini poco noti o dimenticati, osannati prima e traditi poi, strani e singolari, legati ad avvenimenti e luoghi, a oggetti e temi, a parole e silenzi, a riti scaramantici e propiziatori. Un’opera che intende mostrare come Napoli non sia semplicemente vicoli, strade, palazzi, piazze, mare, ma tutto ciò insieme alle persone che vivendola o frequentandola per poco o per molto – talvolta in modo incoerente e contraddittorio – le hanno dato vita; un’opera che vuole raccontare come Napoli sia commistione di pietra e carne, di colli e viuzze, di mare e spiriti, di sole e di voci, un rapporto d’amore, ideale e passionale, un amore che come tutti quelli in cui sono coinvolte le viscere non è estraneo da tormenti e burrasche.

    Il libro ha intenzione di spiegare perché tanti napoletani sono stati rinnegati o sono andati via; oppure, al contrario, perché tanti figli prima adottati e amati, figli naturali e legittimi della città hanno avuto affibbiato poi l’epiteto spietato di core ’ngrato, di traditori, ovvero hanno «usato frode contro a colui che si fida», direbbe l’etimologia del termine sui vecchi vocabolari esposti sulle bancarelle di Port’Alba. Un libro dove si cerca di dimostrare che l’affermazione "Napoli è una città dai molti tradimenti" (per parafrasare un libro di Adolfo Scotto di Luzio), non è solo un’arroganza letteraria, ma è anche una sentenza che tratteggia uno scenario rimasto immutato nel tempo. «Maledetta la città e quegli stupidi che sostengono che per cambiarla basterebbero comportamenti semplicemente corretti, normali. Napoli vuole il sangue: criminali, complici o eroi», sentenzia uno dei protagonisti del libro Il sintomo (Marsilio edizioni) scritto a quattro mani da Francesco Fiorentino, docente di Letteratura francese a Bari, e da Carlo Mastelloni, procuratore della Repubblica a Trieste, titolare di numerose inchieste sul terrorismo italiano e internazionale.

    L’intenzione è quella di presentare un quadro di personaggi che hanno lasciato una traccia speciale nella storia politica, culturale e artistica della città; ma è anche quella di indagare la personalità di uomini e donne che ne hanno segnato la memoria popolare pur essendo, alternativamente, codardi e traditori, arroganti e volgari, famosi o disgraziati, fortunati o sventurati. Medici e scienziati, attori e lestofanti, preti e filosofi, poeti e letterati, uomini d’onore e violenti, eroi, santi e demoni… connessi tra loro in un impianto e in una cornice storica della città con le sue particolari tipicità tradizionali.

    Ovviamente, chi scrive non ha l’ardire di ritenersi originale o nuovo, piuttosto sa di essere debitore di molti autori diversi e di molte ricerche che alimentano e/o corredano oggi gli infiniti siti tematici. Ugualmente, non ha l’immodestia e la presunzione di aver sviluppato completamente e per intero un argomento come questo che è, per definizione, inestinguibile, senza termine, senza conclusioni: l’indice dei nomi è dunque soggettivo, personale. Quella che si presenta è soltanto una combinazione di ritratti, una selezione parziale di profili: altri – pur degnissimi e illustri (per esempio, quelli di Eduardo e gli altri De Filippo, di Diego Armando Maradona, di Gerardo Marotta, del principe Totò, di Massimo Troisi, di Alessandro Siani, di Maurizio Valenzi, di Raffaele Viviani) – sono stati esclusi. Troppo note e conosciute sono le loro storie, le loro azioni: potrebbero costituire un libro a sé stante. Qui è la scelta solo soggettiva e personale di chi scrive, che ha preferito dire, per esempio, di sant’Agrippino e non di san Gennaro, di Aurelio Fierro e non di Massimo Ranieri, di re Ladislao i di Napoli e non di Ferdinando di Borbone. Qui si è scelto di studiare le vite di Eugippio, Quodvultdeus, Carlo Blasis, Carlo La Catena, certo poco popolari; allo stesso tempo, per assecondare la filosofia del libro, non sono state dimenticate figure più conosciute, come Lello Arena, don Peppe Diana, Masaniello. Pur con i suoi confini, questo libro vuole essere uno stimolo, chissà anche un minimo aiuto, per successive osservazioni e ricerche. Per ora…

    basta ca ce sta ’o sole,

    ca ’nce rimasto ’o mare,

    na nénna a core a core,

    na canzone pe’ cantà…

    Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto,

    chi ha dato, ha dato, ha dato,

    scurdámmoce ’o ppassato,

    simmo ’e Napule paisà!

    Storia irriverente di eroi, santi e tiranni di Napoli

    Abbondanza, Marco. Nemo propheta in patria?

    Lo studio e la ricerca in oftalmologia stanno vivendo in Italia un forte momento di crescita. In particolare, le indagini recenti hanno interessato il ruolo del diabete e dell’invecchiamento nell’insorgenza delle disfunzioni visive, lo sviluppo di nuovi metodi di prevenzione e diagnosi e le tecniche diagnostiche e chirurgiche in ambito oculistico, con riguardo alle metodiche innovative e tecnologicamente più avanzate per la diagnosi e la cura delle patologie oculari di maggiore impatto sociale, tema particolarmente sentito.

    Dalle ricerche recenti emerge quanto le nuove biotecnologie indagate portino efficaci miglioramenti a milioni di persone affette da disturbi visivi. Le attuali cure, infatti, hanno riformato le prognosi di molte malattie, sia ripetute, come l’alterazione maculare negli anziani o il glaucoma, che infrequenti, quali le distrofie retiniche ereditarie. In proposito, per l’accertamento di certe patologie si rivela efficace l’impiego clinico di nuovi biomarcatori basati sulla tecnologia ad ottica adattiva. L’impiego delle ultime terapie impostate sulle cellule staminali e sulla terapia genica, infine, sta dando buoni risultati terapeutici, che fanno sperare con ottimismo che in futuro la ricerca possa procedere ancora meglio, per il trattamento del deficit di cellule staminali limbari e delle distrofie retiniche.

    Nonostante tutte le difficoltà legate alla congiuntura economica attuale, anche le strutture sanitarie pubbliche si stanno distinguendo però per la capacità di fornire prestazioni mediche e chirurgiche all’avanguardia rispetto agli standard internazionali, per esempio con l’utilizzo di innovativa strumentazione diagnostica (microscopio confocale corneale, aberrometro, microperimetro ecc.), e chirurgica (facoemulsificatori di ultima generazione per la chirurgia mininvasiva della cataratta, intralase per la chirurgia corneale, sistema iol-vip per la riabilitazione del paziente ipovedente, e chirurgia conservativa per la cura di tumori oculari, innesto di colture di cellule staminali corneali per le patologie della superficie oculare, trapianti di cornea lamellari e perforanti per le patologie corneali, sistemi di drenaggio per la chirurgia del glaucoma ecc.).

    Tra i medici specialisti nella materia c’è certamente Marco Abbondanza, nato a Napoli il 27 giugno 1953, che tuttavia svolge lontano dalla città la sua professione. Eppure, non si può riferire a lui la locuzione latina che indica la difficoltà delle persone di emergere in ambienti a loro familiari; viceversa, esse vedono le proprie capacità e qualità apprezzate in ambienti estranei o stranieri. Più semplicemente, egli ha seguito una sua naturale inclinazione che lo ha portato a distinguersi lontano da Napoli. Abbondanza è figlio del noto ingegnere Osvaldo, capitano della Regia Marina e partecipe delle tristi vicende della seconda guerra mondiale. Partigiano, fu amico tra gli altri di Oddo Biasini e Libero Gualtieri; l’attività di lotta partigiana repubblicana gli valse, terminati i combattimenti, il riconoscimento per meriti speciali della marina militare italiana e il titolo di patriota controfirmato dal comandante in capo delle forze alleate in Italia, il generale Alexander. Nel dopoguerra divenne dirigente di grandi gruppi industriali e direttore generale dello stabilimento del Fusaro, sede centrale della Selenia.

    Dunque, potendo riferirsi a un simile modello di operosità e dinamismo, Marco Abbondanza si laurea in Medicina e chirurgia presso l’Università La Sapienza di Roma nel 1983, per poi specializzarsi nello stesso ateneo sia in Patologia generale sia in Clinica oculistica e Oftalmologia, indirizzandosi da subito allo studio della chirurgia dell’occhio. Nel 1988 ottiene l’idoneità ad eseguire interventi di epicheratoprotesi per cheratocono, miopia, ipermetropia elevata e afachia secondo la tecnica messa a punto dal dottor Kauffman, direttore della Louisiana University, Ophthalmic Center (usa). In seguito, è tra i pochissimi medici occidentali a poter frequentare l’istituto per la Microchirurgia dell’occhio di Mosca, dove mette a frutto ancor di più le sue esperienze, contribuendo a introdurre il laser a eccimeri in Italia.

    La chirurgia refrattiva con laser a eccimeri è una tecnica chirurgica sicura ed efficace grazie alla quale si possono correggere i difetti di vista applicando il trattamento sulla superficie corneale. La capacità del laser di rimuovere parti microscopiche con estrema precisione viene sfruttata per rimodellare la curvatura corneale, così facendo è possibile eliminare o ridurre difetti comuni della vista come la miopia, l’astigmatismo o ipermetropia.

    Nel 1994 elabora una nuova tecnica chirurgica, poi perfezionata nel 2005, denominata Mini Cheratotomia Radiale Asimmetrica (Mini Asymmetric Radial Keratotomy – mark), in grado di correggere l’astigmatismo e capace di curare il cheratocono. Si tratta di una malattia degenerativa della cornea che può essere nel corso degli anni fortemente invalidante. Colpisce 1 persona su 500, in modo più o meno grave, con un’incidenza maggiore tra giovani, adolescenti e bambini. Se non diagnosticata tempestivamente o non trattata in modo corretto, può portare al trapianto di cornea. Infatti, in una percentuale compresa tra il 20% ed il 25% dei casi, diventa necessaria questa soluzione, un intervento invasivo non privo di rischi, fra i quali si annoverano il rigetto e la limitata durata della cornea impiantata.

    È una patologia altamente invalidante in quanto colpisce pazienti con alta prospettiva di vita e che vedono bene. Le moderne strategie diagnostico-terapeutiche messe a punto in Italia consentono di diagnosticare la malattia precocemente e di bloccarne l’evoluzione e i conseguenti danni futuri a carico della vista, ma anche della qualità della vita del soggetto.

    Per evitare il ricorso al trapianto – e per migliorare la capacità visiva di chi è effetto da tale patologia – è stato sviluppato il Protocollo di Roma, ovvero un intervento che associa, a distanza di tempo, due operazioni diverse. La prima è la Mini Cheratotomia Radiale Asimmetrica (mark), appunto, mentre la seconda è il Cross-linking corneale (cxl), considerato dalla comunità medica come l’intervento più efficace nell’arrestare la progressione della malattia. Gli effetti di tale protocollo combinato sono riportati nello studio clinico dal titolo Combined Corneal Collagen Cross-linking and Mini Asymmetric Radial Keratotomy for the Treatment of Keratoconus, a firma di vari specialisti, tra i quali anche Marco Abbondanza, pubblicato su «Acta Medica International», rivista scientifica indicizzata dalla National Library of Medicine americana (nlm) e da Embase (Elsevier).

    I risultati principali sono l’appiattimento medio della cornea di 3,7 diottrie, la forte diminuzione delle aberrazioni corneali che impediscono una visione nitida e, fattore molto importante in caso di patologie degenerative, la stabilizzazione del cheratocono. Questi dati sono stati rilevati dopo un periodo di osservazione minimo di quattro anni dopo l’ultimo intervento.

    Lo studio conclude che «la chirurgia mark, abbinata al trattamento Cross-linking, offre un miglioramento significativo della capacità visiva e una riduzione dell’astigmatismo corneale, assieme al rinforzo della cornea fornito dal Cross-linking», precisando inoltre che «la disponibilità di nuovi trattamenti per il cheratocono, che blocchino efficacemente la sua evoluzione, ha cambiato l’approccio alla patologia». A tal proposito si ricorda, alla fine dello studio, quanto sia importante effettuare regolari visite di controllo, allo scopo di poter avere una diagnosi precoce del cheratocono.

    Autore di decine di pubblicazioni scientifiche e membro di prestigiose associazioni di ricerca, ancora ai nostri giorni, il dottore è impegnato a rendere la vista un diritto più accessibile per tutti.

    Agrippino. Vescovo e santo, dimenticato e ignorato

    L’antico e diffuso detto napoletano a creature nu prumettere e a santi nun fa voto, cioè non fare promesse vane ai bambini (perché ne soffrirebbero, potrebbero avere traumi e, soprattutto, potresti perdere la loro stima e il loro affetto) e non far voto o giuramento ai santi (perché non dimenticheranno la tua intenzione solenne e se non la mantieni te la faranno pagare…), sembra paradossalmente rovesciato per sant’Agrippino. Poiché a lui veramente secoli addietro i napoletani si sono votati, si sono promessi, si sono impegnati, ma non hanno avuto riscontro, non sono stati esauditi: la loro preghiera non è stata accolta. Dunque, a giusta ragione hanno poi preferito san Gennaro.

    Che cosa è accaduto? Chi è questo sant’Agrippino chiamato con il diminutivo del nome di Agrippa? Le scarsissime informazioni che possediamo sembrerebbero fissare tra la fine del ii e la metà del iii secolo la sua vita: fu il sesto vescovo e primo patrono di Napoli. Governò probabilmente la diocesi napoletana al tempo dei papi Callisto i (218-222) e Urbano i (222-230), o forse al tempo di papa Ponziano (230-235), certamente quando erano imperatori Eliogabalo (218-222) e Alessandro Severo (222-235).

    Secondo alcuni studiosi, Agrippino fu sepolto nelle catacombe (che poi si chiamarono di San Gennaro) perché lì era la tomba della sua famiglia, gli Agrippinenses. L’ipotesi è suggestiva, ma difficile da provare, anche se bisogna ricordare che dal suo primitivo sepolcro – nei pressi di un vestibolo gentilizio – si sviluppò il piano inferiore delle catacombe: è impensabile che un tale insigne chierico sia stato seppellito in quel luogo senza averlo mai frequentato, né fatto frequentare dai cristiani allo scopo di renderlo adatto a divenire luogo sacro e cimitero cristiano.

    La Cronaca dei Vescovi di Napoli, un’importante opera che offre una ricostruzione della storia della Chiesa napoletana fino al ix secolo, ne tesse gli elogi: «Innamorato della patria, difensore della città, egli non cessa di pregare ogni giorno per noi, suoi servitori. Egli accresce assai l’esercito di coloro che credono nel Signore, e li riunisce in seno della Santa Madre, la Chiesa. A causa di ciò, merita di udire le parole: Coraggio, bravo servitore; poiché sei stato fedele nelle piccole cose, io ti darò autorità sul molto; entra nella gioia del tuo padrone». Parole, queste ultime, ispirate a una parabola evangelica assai popolare, quella dei talenti consegnati da un padrone ai suoi due servi: da uno fatti fruttare, dall’altro nascosti senza effetto. Certo, l’elogio di Agrippino è alquanto astratto, e svela come anche l’antico autore sapesse ben poco di preciso su questo personaggio, però è il solo dei primi vescovi così lodato ed esaltato, forse a buon diritto, perché la leggenda gli attribuisce il merito di avere dato solide basi alla Chiesa cittadina, soprattutto di avere debellato il «culto degli dei e delle superstizioni pagane». Di tanti altri santi-vescovi si poteva dire che erano stati innamorati della loro patria, difensori della loro città, tuttavia nelle parole dell’ignoto scrittore si nota un particolare calore, un intento di lode che dimostra come la memoria di sant’Agrippino, pur in assenza di particolari più precisi, avesse particolare risalto tra quello di altri vescovi napoletani. Si capisce, insomma, come la venerazione di questo santo fosse, un tempo, eccezionalmente fervida. Tra l’altro, la basilica cimiteriale che sorse vicino alla sua tomba, databile al iv secolo, ne conferma la diffusione del culto in età antica.

    Di sicuro più tardi il vescovo Giovanni iv detto lo Scriba trasferì nella basilica Stefania il suo corpo insieme a quelli di molti altri santi vescovi napoletani, perché non venissero profanati, come avvenne già ad opera del longobardo Sicone, che rubò le reliquie di san Gennaro.

    Ad Agrippino fu dedicata anche una chiesa a Forcella. La sua prima costruzione risale al v secolo; in seguito, il luogo di culto fu ricostruito nel xiii secolo, grazie all’opera di quattordici nobili famiglie appartenenti al Seggio di Forcella (i seggi erano dei consigli composti da alcuni rappresentati delle famiglie nobili della città che, sin dal Duecento, svolgevano funzioni amministrative, giuridiche e giudiziarie), che ne permisero la riconsacrazione tra il 1265 e il 1268 da parte di papa Clemente iv. Nel 1615 l’edificio fu affidato ai monaci basiliani che, nel 1758, affidarono un’opera di restauro all’architetto Nicola Tagliacozzi Canale che realizzò la decorazione in stucco della navata ed elevò il livello del pavimento.

    Al suo interno, di notevole valore storico-artistico e schiettamente di stile romanico maturo è il Crocifisso di Sant’Agrippino del xiii secolo, da considerarsi nell’orbita della cultura spagnola pirenea, più antico anche se più scadente rispetto al Crocifisso del Duomo di Napoli. Ancora del xviii secolo è un olio su tela che raffigura una Scena di vita quotidiana del Santo Basilio. Arnaldo Venditti a riguardo dell’impianto absidale, mettendo in rapporto i fornici della chiesa di Sant’Agrippino con quelli di Sant’Eligio al Mercato ed i contrafforti delle chiesa ai Mannesi con quelli della chiesa Donnaregina Vecchia a Settembrini, riesce a datarlo all’ultimo quarto del Duecento.

    Prima della sua parziale distruzione, la facciata presentava stipiti intagliati rappresentanti sant’Agrippino, san Gennaro, sant’Agnello, sant’Aspreno, san Severo, sant’Eusebio (tutti patroni di Napoli) e sull’architrave era incisa la Y, simbolo del Seggio di Forcella. Il portale, risalente al xv secolo, è attribuito a Antonio da Chelino, ultimo allievo di Donatello, già attivo in città con la scultura dell’Arco di Trionfo di re Alfonso i d’Aragona del Maschio Angioino. L’interno presenta ancora affreschi ed elementi di architettura gotica.

    Successivamente, in una età non precisabile, ma forse già dal Cinquecento, il culto di sant’Agrippino si diffuse anche ad Arzano, dove poi è stato eletto patrono della città: la sua festa ricorre ancora il 9 novembre. Molte sono anche le pitture, eseguite tra vi e ix secolo, e le iscrizioni antiche che lo menzionano.

    Grande diffusione, almeno dall’viii-ix secolo, ebbero i racconti dei suoi miracula, alcuni dei quali scritti da Pietro suddiacono nel x secolo. Il termine miracula, in verità, è usato in questo caso in modo improprio, poiché in realtà si tratta piuttosto di encomi, cioè di panegirici, derivati dalla tradizione e dalla letteratura bizantina sacra e profana; a Napoli fu un genere piuttosto diffuso, soprattutto dal ix secolo in poi, quando in città fioriva un circolo di traduttori dal greco: tra i più interessanti si ritengono, oltre a questi di sant’Agrippino, quelli dedicati a sant’Eufebio, a san Severo e a san Gennaro. Altre notizie si possono ricavare dalla Vita S. Attanasii, del x secolo, dalla Vita S. Severi del ix e da una più recente Vita dei sette santi protettori di Napoli di Paolo Regio, della metà dell’Ottocento, ma anche dall’ottocentesco volume Memorie storiche dei vescovi e arcivescovi della Chiesa di Napoli di Lorenzo Loreto.

    Eppure, pur godendo di tanta popolarità, ad un certo punto Agrippino fu soppiantato nel culto popolare da san Gennaro, che da allora cominciò ad assumere il rango di patrono principale della città. L’ascesa irresistibile del megalomartire Gennaro avvenne nel 472, intorno al 5 di novembre. In quei giorni il Vesuvio era protagonista di una apocalittica eruzione; con caratteristiche di energia sovrapponibili a quella del 79 che distrusse Pompei, Ercolano e Stabiae. Marcellino Comes, storico al servizio del principe ereditario Giustiniano sotto Giustino i (518-527), annota nel suo Chronicon, redatto verso la metà del vi secolo: «Il Vesuvio, arso monte della Campania ribollente di fuochi interni, vomitò viscere bruciate, incombendo tenebre notturne durante il giorno, coprì di sottile polvere tutta la superficie dell’Europa. A Bisanzio annualmente ricordano questa polvere il 6 di novembre».

    Alcuni cittadini per scampare alla morte certa trovarono allora rifugio nelle catacombe; probabilmente si rivolsero a lui perché fermasse la distruzione. Nel drammatico racconto dell’agiografo medievale si dice che gli ambulacri delle catacombe «risuonavano di gravi voci virili e degli acuti ululati delle donne imploranti venia e aiuto nella calamità». L’onnipotente Iddio, scrive l’autore dell’omelia, era adirato per le nefandezze degli uomini e a loro castigo stava permettendo che il Vesuvio fosse scosso dal terribile terremoto ed eruttasse globi di fuoco, devastando con le cocenti ceneri le città circostanti. La gente di Napoli «dimorante purtroppo per necessità ai piedi del flagrante vulcano, non potendo fidare negli uomini, con preghiere e lacrime tendeva le mani al cielo, ma su di loro, per la fitta pioggia delle ceneri, nemmeno il cielo si riusciva a vedere; si cadeva sul suolo infocato privi di ogni aiuto».

    Evidentemente, però, l’azione di sant’Agrippino fu in quella circostanza inefficace. Proprio accanto al suo sepolcro c’era quello di san Gennaro; a lui i napoletani ricorsero spaventati con continui gemiti e preghiere, implorando perdono per i peccati: fu così che l’eruzione del Vesuvio miracolosamente si estinse per l’intercessione del beato martire Gennaro. Allora, avendo avuto salva la vita, i fedeli lo eressero santo patrono: in altre parole, il povero sant’Agrippino dovette abbandonare la leadership.

    Nondimeno, anche se non più santo patrono, sant’ Agrippino continuò ad essere venerato dai napoletani e su iniziativa della marchesa di Lemos a lui venne dedicata una chiesa nel cuore di Forcella.

    Quanto a san Gennaro e alle successive emissioni magmatiche del Vesuvio, è noto che l’origine del miracolo della liquefazione del sangue il 16 dicembre di ogni anno risale esattamente al 1631, quando un’eruzione del Vesuvio minacciava di arrivare fino a Napoli. La lava era ormai alle porte della città, quando i napoletani, appellandosi al loro patrono, portarono in processione le sue insegne fino al ponte dei Granili. Il sangue si sciolse e il magma, miracolosamente, si arrestò.

    La Deputazione, l’antica istituzione laica che dal 13 gennaio 1527 per un voto della città fece realizzare la Cappella del Tesoro di san Gennaro, nel 1631 rinnovò quindi il patto col patrono. Per ringraziarlo dello scampato pericolo, fece innalzare nel 1637 lo splendido obelisco progettato da Cosimo Fanzago, che ancora oggi svetta in largo Riario Sforza.

    Albino il traditore. E altri subdoli infedeli

    È a molti noto che fin dall’epoca della sua fondazione, v secolo a.C., Napoli è stata protetta da mura. La città era relativamente piccola; essa veniva naturalmente favorita a nord dalle colline e da un profondo vallone, oggi corrispondente a via Foria, ad ovest dal corso del fiume Sebeto ora scomparso, attuale via Costantinopoli, a sud dal mare e ad est da una estesa zona paludosa, ancora detta Sant’Anna alle Paludi. Quindi, come osservò Lucio Santoro nel denso saggio Le mura di Napoli (1984), «il colle sul quale sorgeva era stato circondato con opere di fortificazioni, rinforzando le difese naturali, delimitando così un’area già naturalmente definita, entro il perimetro della quale doveva potersi assicurare una vita autonoma ed autosufficiente». Le mura furono costruite con blocchi di tufo del tipo a doppia cortina, con elementi trasversali di collegamento e con materiale di riempimento tra le cortine. Di tale cinta alcuni tratti sono ancora visibili, come quelli tuttora scoperti a piazza Calenda, a piazza Bellini, a via Mezzocannone e ai piedi della salita Maria Longo.

    Secondo il parere di Mario Napoli, in un documentato saggio apparso nel primo volume della Storia di Napoli (esi, 1967), queste prime mura della città furono rinforzate e assunsero un carattere continuo e più solido «intorno alla metà del quarto secolo a.C., sotto la duplice spinta di una difficile situazione politica in Campania e delle perfezioni tecniche militari, che rendevano più efficienti gli assalti ad un centro munito e, pertanto, non più valide e sicure le vecchie mura della città». Invece, nonostante qualche studioso di cose napoletane abbia in passato scritto di ampliamenti delle mura durante il periodo romano, è certo che dopo la conquista di Roma «le mura, che erano state rafforzate e perfezionate secondo una estesa zona paludosa, ancora detta Sant’Anna alle Paludi». Quindi, aggiunge Santoro, «il colle sul quale sorgeva era stato circondato con opere di fortificazioni, rinforzando le difese naturali, delimitando così un’area già naturalmente definita, entro il perimetro della quale doveva potersi assicurare una vita autonoma ed autosufficiente». Le mura furono costruite con blocchi di tufo del tipo a doppia cortina, con elementi trasversali di collegamento e con materiale di riempimento tra le cortine. Di tale cinta alcuni tratti sono ancora visibili, come quelli tuttora scoperti a piazza Calenda, a piazza Bellini, a via Mezzocannone e ai piedi della salita Maria Longo.

    Dunque, contro il parere di chi in passato ha scritto di ampliamenti delle mura durante il periodo romano, Ettore Lepore – nel suo contributo Napoli greco-romana. La vita politica e sociale nella Storia di Napoli – è persuaso che dopo la conquista di Roma «le mura, che erano state rafforzate e perfezionate secondo le più aggiornate tecniche […] non subirono ampliamenti. Esse avevano impedito la presa della città, e solo la collaborazione degli elementi oligarchici ne aveva potuto assicurare la capitolazione; inutili in tempo di pacifiche relazioni in Campania, esse si rivelarono ancora baluardo non simbolico di Neapolis indipendente nelle due crisi belliche che metteranno a dura prova Roma e i suoi alleati agli inizi e alla fine del terzo secolo a.C. In quelle occasioni, e anche in altra meno vantaggiosa per Roma, potranno dimostrare la capacità di isolamento di Neapolis, con il suo porto e la costa, dal retroterra campano e perfino dal suo stesso territorio, all’occorrenza».

    Eppure, la stupefacente efficienza difensiva delle mura della città fu messa alla prova al tempo della conquista di Belisario, nel 537, il quale riuscì a penetrare in città con un sotterfugio senza espugnarle, durante la prima fase della guerra gotico-bizantina, secondo il racconto degno di fede che offre Procopio di Cesarea. Giunti in Campania, lo storico greco racconta che i greci «incontraronsi in una città marittima, di nome Napoli, forte per natura del luogo e con molti Goti di guarnigione. Belisario ordinò che le navi si ancorassero nel porto, che trovasi fuori tiro».

    Invano il generale bizantino cercò di attaccare la città, ogni volta respinto con la perdita di molti soldati. «Infatti le mura di Napoli, parte a causa del mare, parte per talune asprezze del luogo, non erano di facile accesso ed, oltre al resto, erano così declivi da non potervisi penetrar di sorpresa». Secondo una tecnica militare assai usata, «neppure tagliando il condotto che mena l’acqua alla città, Belisario diede gran noia ai Napoletani, poiché i pozzi, che trovavansi entro le mura e fornivano il necessario, facevano che di ciò appena si accorgessero».

    Finalmente, come racconta Procopio di Cesarea (La guerra gotica, Rizzoli, Milano 1994), trascorsi venti giorni dall’inizio dell’assedio fu possibile penetrare in città:

    Uno degli Isauri ebbe desiderio di osservare la struttura dell’acquedotto ed in qual modo la città venisse fornita dell’acqua necessaria. Entratovi in luogo lontano dalla città, là dove Belisario avealo fatto tagliare, senza alcuna difficoltà vi s’inoltrò, poiché, sendo quello rotto, era vuoto d’acqua. Giunto che fu presso alle mura […] non giudicò impossibile che l’esercito penetrasse in città qualora venisse reso alquanto più grande il foro […] quindi entrati tutti i soldati, si avviarono alle mura e trucidarono le guardie, che del guaio non si erano punto accorte, in due torri della parte settentrionale della cinta […] E fu allora grande strage; imperocché, furibondi tutti, specie quanti avessero perduto nell’assedio qualche fratello o parente, chiunque incontrassero, senza alcun riguardo all’età, uccidevano, e penetrando nelle case, fanciulli e donne menarono schiavi e gli averi saccheggiarono […] e trucidavano.

    Conquistata la città, Belisario nominò duca di Napoli un tale Conone per sovrintendere su tutta la regione e gli affidò le mansioni di un magister militiae. Ma la guerra non era finita. Infatti, la città fu assediata dai Longobardi nel 581 e nel 592; nel 599 fu rifugio di quanti dall’interno della Campania vollero sfuggire ai conquistatori che si erano fortificati a Benevento. In questa fase il potere era in realtà nelle mani dei vescovi, ma quando i cittadini di Ravenna si ribellarono all’esarca, Napoli fu spinta ad imitare questa risoluzione e si diede un governo autonomo con a capo un certo Giovanni Consino: gloria effimera in quanto ben presto l’imperatore d’Oriente nominò un nuovo esarca, che riprese possesso delle due città ribelli.

    Fu appunto in questo tempo, come si legge in un’omelia del ix secolo, che un certo Albino, eccitato da uno spirito diabolico, mentre progettava di tradire la città e consegnarla ai Longobardi che l’assediavano, ebbe la visione di san Gennaro che terribilmente lo minacciò non solo di recedere dall’indegno proposito, ma di renderlo di fatto anche pazzo e incapace di progredire e attuare l’insano progetto. Così, almeno in questa circostanza, la città fu salva.

    Tuttavia, spesso la storia si ripete. Circa mille anni dopo, Alfonso d’Aragona, detto il Magnanimo, il 12 giugno 1432 entrò a Napoli probabilmente dallo stesso punto da cui era entrato Belisario: ma la storia stavolta ci ha tramandato il nome del traditore.

    Il re assediava la città da molto tempo, però non riusciva a vincere la resistenza della guarnigione, malgrado vi fossero alcuni che manifestamente si erano schierati a suo favore. La popolazione era sfinita dal lungo assedio e dalla sterile lotta che non la toccava direttamente; fu allora che non la fortuna, ma la doppiezza di un pozzaro, un tale Aniello Ferraro, gratificò la costanza del re e condusse i soldati aragonesi, guidati da Diomede Carafa, attraverso il formale che passava sotto Porta Santa Sofia, con pozzo di uscita nella casa di fronte alla chiesa omonima.

    Il napoletano infedele svelò che ancora esisteva un passaggio segreto attraverso il vecchio acquedotto abbandonato, così trovatolo, i soldati catalani lo percorsero di notte, nel silenzio, per sorprendere la città addormentata. Appena dietro le mura, nella parte attigua a quel campo che serviva per bruciare la spazzatura e che perciò era detto Carbonara, presso la chiesa di Santa Sofia e la chiesa dei Santi Apostoli, il cunicolo terminava in un pozzo, proprio al centro dove era la casa del sarto Citiello e della moglie Ceccarella e dei loro due figli Elena e Leone. Arrampicatisi, probabilmente anche con la complicità del proprietario, per le truppe di Diomede Carafa, gran capitano di Alfonso, fu assai facile bloccare e sconfiggere le sbigottite guardie della guarnigione e conquistare la città. La leggenda racconta che al buon sarto, e prima di lui al cavamonte spione, fu regalata una casa nuova e molto denaro, tale da farlo vivere nell’agiatezza per il resto della vita.

    Quanto ad Alfonso, tra le altre azioni, fece subito ricostruire, dopo le distruzioni delle guerre per il dominio del regno, Castel Nuovo, nuovo per distinguerlo da quelli più antichi dell’Ovo e Capuano, e chiamato anche Maschio Angioino, dal nome dei suoi primi fondatori; il sovrano chiamò artisti catalani e artisti toscani che lavorarono alle diverse parti dell’opera, ciascuno secondo i modi della propria scuola, però con mutue influenze. Della costruzione angioina restano oggi la Cappella Palatina o di Santa Barbara e altri elementi architettonici minori.

    Le costruzioni militari intraprese in epoca aragonese regalarono alla città un sistema difensivo moderno e di tutto rispetto: le mura e le torri furono portate più avanti rispetto agli impianti anteriori; nel 1484, inoltre, Ferrante d’Aragona promosse un ampliamento orientale della cortina difensiva. La città si presentava con un perimetro visibilmente allargato e provvisto di ventidue possenti torri cilindriche: partendo dal forte dello Sperone, al Carmine, proseguiva l’odierno corso Garibaldi combaciandosi con la nuova Porta Capuana; la cinta continuava ad estendersi sull’attuale via Cesare Rosaroll e circondava a nord San Giovanni a Carbonara; rivolta ad occidente, infine, si delineava a Porta San Gennaro. Una costruzione imponente e perentoria che adesso si presenta come una sommessa carcassa sopraffatta da degrado e fatiscenza.

    Arditi, Michele. Erudito d’altri tempi

    Ancora oggi nel solco di una nobile tradizione familiare, gli Arditi sono architetti, medici, scrittori, insomma umanisti. Famiglia salentina già dal Cinquecento, la più illustre che Presicce, una ridente cittadina in provincia di Lecce, abbia mai avuto; fa parte però della antica nobiltà napoletana, risalente almeno al Duecento. Da qui venne Michele, nato il 12 settembre 1746 da Gaspare e da Francesca Villani, mandato dal padre a Napoli, ove ebbe un maestro illustre: Antonio Genovesi. Si dedicò allo studio del diritto e quindi all’attività forense, segnalandosi presto pubblicando una colta trattazione latina presentata a Napoli nel 1767 (De obligatione pupilli. Sine tutoris auctoritate contrahentis), ben presto esaurita e ristampata quindi nel 1772. La sua attività nel campo giuridico si svolse secondo le linee tradizionali, trattando argomenti di diritto nobiliare e feudale e controversie locali (Degli abusi dei parrochi e dei vescovi, Napoli 1773), con la tendenza a trasferire sul filone della dottrina l’esperienza del foro.

    Si interessò presto anche di storia e di archeologia, sollecitato dalle notizie che arrivavano dai primi scavi di Ercolano e di Pompei; decisiva, inoltre, fu la sua amicizia con l’abate Giacomo Martorelli. Nominato il 15 aprile 1787 membro della Accademia Ercolanense, Arditi iniziò un periodo di intenso lavoro, dividendo i propri interessi fra l’illustrazione dei reperti di Ercolano e lo studio di alcuni aspetti dei costumi romani e affiancandovi ricerche sull’ambiente umanistico napoletano, di frequente però iniziate e non terminate.

    La sua azione e il suo impegno non passarono inosservati, furono presto notati in molti ambienti accademici. Così, già nel giugno 1790 fu nominato membro dell’Accademia di scienze e belle arti di Napoli, e nel luglio, fu eletto nella Giunta di antichità. Ma le vicende del Regno di Napoli nel 1799 rallentarono la sua operosità, soprattutto per la sua non celata adesione ai Borbone; durante la rivoluzione partenopea tornò nella sua amata Presicce e vi rimase sino al luglio del 1801. Tornato a Napoli, poté tranquillamente lavorare durante il periodo francese e murattiano; con decreto del 18 marzo 1807 fu nominato da Giuseppe Bonaparte direttore generale del Museo di Napoli e sopraintendente degli scavi di antichità, cariche nelle quali fu poi confermato dal re Ferdinando il 2 aprile 1817. Nella stessa data fu nominato direttore generale di tutti i depositi letterari, antiquari e di belle arti, mentre dall’agosto dell’anno precedente aveva diretta anche la prefettura della Reale Biblioteca.

    In questi compiti fino alla morte si occupò dell’ordinamento e della conservazione dei materiali archeologici, numismatici e letterari; si dedicò al loro studio, si impegnò nell’organizzazione di scavi, nella preparazione degli elementi per una storia letteraria e politica del periodo aragonese, in modo particolare studiò le vicende dell’Accademia Pontaniana e dei suoi più importanti rappresentanti.

    La sua poliedrica ed eccezionale fantasia creativa può essere esemplificata in un lavoro commissionatogli dalla Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti in Napoli, di cui era socio. Come ha raccontato con dovizia di particolari A. V. Nazzaro nella Lectio inauguralis dell’Anno Accademico 2016, anno ccviiii dall’Istituzione della Società Regale da parte di re Giuseppe Napoleone Bonaparte (20 maggio 1808), gli fu dato incarico ad un certo punto dell’illustrazione dell’impresa accademica, intendendo per impresa la stretta unione di una figurazione simbolica (il corpo) e di un motto (l’anima), che si illuminano a vicenda. La Società Regale, articolata agli inizi dell’Ottocento nelle tre Accademie di Storia e Belle Lettere, di Scienze, e di Belle Arti aveva deliberato che ciascuna sezione battesse un gettone con un proprio emblema. E l’Accademia di Storia e Belle Lettere affidò il compito di creare la propria impresa al socio Michele Arditi, che, sulla scorta di gemme e monete, propose l’immagine dell’Hercules Musarum con il motto oraziano Neglecta redire virtus audet. La proposta fu approvata e Giovanni Tagliolini, sotto la sua direzione, eseguì il disegno in cera dell’impresa. La Società Regale cambiò però idea, ritenendo che il gettone dovesse essere unico per tutte e tre le accademie, e rinnovò al cavaliere Arditi l’invito a dare esecuzione alla nuova delibera. Il cavaliere Arditi, pur riluttante, propose allora come emblema l’Ermatena e motivò la proposta con una Memoria, che insieme con i disegni fu sottoposta all’attenzione del sovrano, che l’approvò il 17 agosto 1816. Così il ministro dell’Interno scriveva a monsignor Carlo Rosini, presidente interino della Società Regale: «Ha S. M. approvata l’idea del Gettone proposta dal Cav. Arditi e ne ordina la esecuzione, come anche la pubblicazione della dotta Dissertazione scritta dal medesimo su tale oggetto. Nel real nome le comunico questa sovrana determinazione, trasmettendole all’uopo la Dissertazione del cav. Arditi, affinché gli ordini del Re siano eseguiti».

    La Dissertazione di settanta pagine dal titolo L’Ermatena ossia la impronta da darsi al gettone della Regale società vide la luce sei anni più tardi in Memorie della Regale Accademia Ercolanese di Archeologia, vol. I, Napoli, Stamperia Reale 1822. Da quest’ampia ed erudita memoria si possono attingere alcune interessanti informazioni. Accogliendo solo in parte il suggerimento del consocio Melchiorre Delfico, che avrebbe voluto effigiare sul rovescio del gettone l’immagine di Minerva, la dea protettrice delle lettere e delle arti, il cavalier Arditi propone l’iconografia dell’Ermatena, cioè la doppia erma di Ermes (Mercurio) e Atena (Minerva) effigiata sulla sommità di un pilastro o colonna quadrata. Anche Mercurio, come Minerva, era infatti considerato protettore delle lettere e delle arti: la mitologia classica gli attribuiva l’invenzione delle lettere, della scrittura e dei nomi, dell’aritmetica, della geometria, delle proporzioni musicali, dell’astronomia, dei pesi, delle misure e del commercio in generale, dell’orologio ad acqua e della clessidra.

    Le tre figlie avute da Ecate simboleggiavano le tre parti della Filosofia, e cioè la Fisica, la Morale e la Logica. La proposta dell’Arditi s’ispira a un’iconografia utilizzata frequentemente nella statuaria da giardino di età romana. Ma non essendo riuscito a prendere visione dell’Ermatena, conservata nella stanza della Miscellanea del Museo Capitolino, segnalata da Ennio Quirino Visconti, l’Arditi è costretto egli stesso a ideare l’Ermatena che, incisa da Raffaele Estevan, appare nella tav. 1 della sua Dissertazione: su un pilastro quadrato abbiamo, sulla sinistra, la testa di Mercurio con il consueto pètaso alato e, sulla destra, la testa di Minerva con il cimiero sul quale striscia una serpe; tra l’estremità del collo e l’inizio del petto della dea si intravede una porzione dell’egida. Dal lato di Minerva, l’Arditi aggiunge una civetta, che stringe tra le unghie un ramoscello di ulivo, e, dal lato di Mercurio, un gallo che nel rostro tiene il cadùceo, in vece della tradizionale spiga.

    Il valore simbolico dei dettagli iconografici aggiunti dall’Arditi sono chiari: la serpe simboleggia la vigilanza e la prudenza; la civetta e l’ulivo sono l’uccello e l’albero sacri a Minerva, chiamata talvolta pacifera e considerata la protettrice delle Lettere e delle Arti; il gallo e il cadùceo sono simboli di Mercurio. Per il motto dell’Ermatena, che allude all’intera conoscenza umana, sia razionale, sia ermetica, Arditi, lavorando su testi di autori latini, propone commvni stvdiorum foedere ivncti (ovvero, Congiunti dal comune vincolo degli studi) e commenta: «Questo motto, nel tempo stesso che la relazione a’ due numi espressi nell’Ermatena, può riguardare eziandio i membri illustri, dei quali la Società Regale è composta».

    L’Ermatena, come impresa della Società e delle tre accademie che la compongono, compare già nell’antiporta dello Statuto della Società Reale Borbonica, Napoli, Stamperia Reale 1822. Il disegno di Ermes, con il cadùceo e il gallo, e di Atena, con la civetta e l’ulivo, è inciso da Marco di Pietro.

    Ad ogni modo, nella dimensione culturale di questo straordinario personaggio, rientra anche la sua sensibilità musicale. Già nella giovinezza, riecheggiando la moda del Piccinni e del Paisiello, aveva composto una sinfonia Gioas re di Giuda. Scritta nel 1767 su testo di Metastasio, Gioas re di Giuda è una straordinaria performance musicale, ma non l’unica; successivamente seguendo gli insegnamenti di N. Jommelli, musicò il xii salmo di Davide (1769) e compose una Sinfonia di intermezzo (1770); ancora nella tarda età mise in musica brevi componimenti sacri e profani. «Dalle sue opere possiamo desumere il suo brillantissimo estro musicale, pari a quello di letterato, filosofo, giurista e storico che fanno di lui uno dei personaggi di spicco dell’Illuminismo meridionale», dichiara Sergio De Blasi, nel saggio L’intelligenza musicale di Michele Arditi (Congedo edizioni, 1997).

    Arditi fu una figura di grande prestigio e riferimento nel campo degli studi di storia e archeologia, nonché in quello delle organizzazioni pubbliche culturali. Un moderno umanista, un innovatore se guardiamo alla cultura intesa, oggi si direbbe, come strumento di sviluppo.

    Il riferimento è agli anni che vanno dal 1760 al 1833; dagli studi giuridici a Napoli, come era consuetudine allora, all’archeologia e alla filologia classica. Avvocato del foro napoletano, fondatore del Reale Museo Borbonico, direttore per circa trent’anni, soprintendente agli scavi archeologici. Forte personalità, genuino e completo signore, divenne a Napoli una figura di riferimento, ben oltre i confini della sua terra e del Mezzogiorno d’Italia; apprezzato e sollecitato dai più vari ambienti culturali nazionali e stranieri, dialogava con tutti i sovrani d’Europa. Gli artisti avevano in lui un interlocutore attento e autorevole; la sua era una parola che pesava, così come il suo silenzio. Nel descriverne l’effigie riprodotta nel suo palazzo salentino così si esprime Carmelo Sigliuzzo, in Castelli normanni in terra d’Otranto (in «Rassegna di scienze, lettere ed arti», 1960): «Osservate che fronte alta, che occhi vivi e intelligenti, e quel petto fregiato da meritate non mendicate decorazioni! È il vero ritratto dell’aristocrazia del pensiero, la sola che valga a rendere veracemente nobile un uomo di illustre casato! Che lezione per la moderna aristocrazia del blasone, il più spesso fatua e ignorante!».

    Alle elevate doti intellettuali unì quelle non meno elevate di un cuore caritatevole: il 23 marzo 1831 fece una rilevante donazione all’Augustissima Arciconfraternita della SS. Trinità dei Pellegrini e Convalescenti, che lo ricordò con una scultura in marmo bianco, apposta sulla parete destra del corridoio delle lapidi; il ritratto, come riporta A. V. Nazzaro, è seguito dalla seguente iscrizione:

    michele arditi

    dei baroni di san valentino marchese di castelvetere

    più nobile per le lodate opere dell’ingegno

    e le pie mani stese a sollievo d’ogni miseria

    meritò meglio che le varie insegne di cavaliere

    dentro e fuori d’italia

    l’ammirazione e la gratitudine dei contemporanei

    e per continuarle nei posteri

    l’augusta nostra arciconfraternita

    a cui singolarmente benefico

    elesse di essere ascritto

    gli decretava il xvii marzo mdcccxxxi

    l’onore di questo monumento

    senza diritto di eredi.

    Arditi morì a Napoli il 23 aprile 1838. Oggi si potrebbe dire che fu uno scopritore di talenti: tra tutti, Antonio Canova artista, suo protetto e amico affezionato, autore della sua tomba nella chiesa di San Ferdinando di Palazzo, a Napoli. Anche questo ritratto, ricorda A. V. Nazzaro, (identico a quello dei Pellegrini) è seguito dalla seguente iscrizione:

    ad onore del chiarissimo signor michele arditi

    degli antichi baroni di valentino

    marchese di castelvetere

    commendatore del real ordine di francesco i

    e di altri distinti ordini sia nazionali che esteri insignito

    il quale non contento colla stampa

    di molte sue opere

    e coll’onorario esercizio di più cariche letterarie

    di aver dato un saggio non dubbio di sua erudizione

    ha di più unito alle doti del suo culto ingegno

    anche quelle del suo benefico cuore

    aprendo di continuo la mano in soccorso degl’infelici

    e questa reale arciconfraternita più di una volta

    ha fatto sperimento della di lui

    cristiana generosità

    ora nello aver egli promosso la pia opera

    dell’esequie dè poveri

    ora nello aver dato soccorso alle orfane donzelle colla istituzione di maritaggi

    ora nello aver contribuito al miglioramento dè locali

    di questa confraternita stessa ed è perciò

    che l’eccellentissimo governo

    per dargli un nuovo tributo di grata riconoscenza

    hal col voto generale di tutti i fratelli

    implorato dall’augusto sovrano e superiore perpetuo

    e per decretazione de xx di ottobre mdcccxxxiv

    ha ottenuto di ergersi qui un mausoleo

    nel cui seno si raccogliessero un dì le pie ceneri

    del suddetto signor marchese

    tanto ha il governo voluto accennare in questa lapida

    onde la memoria della sua gratitudine

    verso questo fratello

    così benemerito e la memoria insieme

    della grazia speciale e senza esempio

    ora per la prima volta da sua maestà conceduta

    giugnessero di pari passo sino alla più tarda posterità.

    La Reale Arciconfraternita di cui si parla nell’iscrizione è quella della Beata Vergine dei Sette Dolori, che il 10 dicembre 1806 re Giuseppe Bonaparte dalla chiesa del Gesù Nuovo aveva trasferito alla chiesa di San Ferdinando.

    Arena, Raffaele, detto Lello. L’eterno secondo

    Raffaele Arena, meglio conosciuto come Lello, è nato a Napoli il primo novembre 1953. Attore straordinario e caratterista di rango, protagonista di film celebri e popolarissimi, interprete raffinato di teatro, regista e autore egli stesso, dovrebbe vivere di luce propria… Eppure. Eppure sempre, sempre, il pensiero di tutti è accostarlo, avvicinarlo, ricordarlo con Massimo Troisi. Un destino il suo segnato da eterno secondo, con un passato che torna a galla da solo. Chissà come ci si sente a sentirsi un eterno secondo. Prevarrà la felicità di aver lavorato con il primo o la frustrazione di non essersi realizzati da soli? Di sicuro, spente le luci della ribalta, ogni artista secondo è colto e travolto da un raptus ancora più pericoloso, quello di non essere dimenticato.

    Veramente, la targhetta dell’eterno secondo si può collegare ad una varietà di situazioni e soggetti anche molto differenti tra loro, ha commentato Nicola Piccinini, presidente dell’Ordine Psicologi Lazio, in un’intervista a life, Radio rai, il 17 agosto 2016:

    Prima di tutto l’eterno secondo non è da intendersi necessariamente come il secondo per numerazione cardinale, ma come colui che, consapevolmente o meno, si trova a rincorrere continuamente qualcun altro. All’eterno secondo così inteso manca il guizzo, l’originalità, il genio del primo della classe. Ci sono tantissime altre persone che, pur essendo idealmente numeri 2, 3 o 4 non sono seconde a nessuno perché hanno comunque una leadership. Da ciò ne discende, secondo aspetto, che molto dipende da come la singola persona vive la sua condizione di eterno secondo. Possono esservi infatti casi di consapevole accettazione e di grande resilienza della persona. Possono esservi cause situazionali, di contesto, e/o cause individuali, personali. Più in generale, la persona che si vive – in modo scomodo e frustrante – come eterno secondo ha bassa autostima, tende più frequentemente a sentirsi debole e insicura, a sfuggire ad un ambiente che sente come ostile o non meglio gestibile. In alcuni casi si possono verificare veri e propri stati depressivi e senso di forte solitudine. Altre volte, per tutelare un sé coeso, per salvarsi la faccia, l’eterno secondo può crearsi una corazza difensiva ponendosi magari con superiorità, arroganza, aggressività.

    Sono numerosi i casi che si possono menzionare. In quella stessa intervista, lo psicologo romano ricordava Neil Armstrong: tutti lo celebrano come il primo uomo sceso sulla Luna, del secondo – Buzz Aldrin – invece, nessuno si rammenta. Senza tener conto che fu lui, Aldrin, a guidare la navicella sino alla Luna e addirittura a ripararne un guasto che ne avrebbe impedito il ritorno sulla Terra. Aldrin è stato il vero eroe dello sbarco dell’uomo sulla Luna, ciò nonostante è passato alla storia come eterno secondo. «La storia di Aldrin è la storia di un eterno secondo», spiega Piccinini, «ma anche di un vero numero primo, dell’eroe rimasto celato e forse, per certi versi, rappresenta la storia di tutti noi, che almeno una volta nella vita siamo entrambi questi personaggi. Non è un caso che la Pixar abbia ripreso la sua figura trasformandola nel mitico Buzz Lightyear di Toy Story».

    Certo, a sentire Lello Arena non è stato difficile lavorare con Troisi. In varie interviste, durante le quali immancabile torna la domanda non le ha mai pesato il legame con Troisi?, il nostro ha sempre risposto, più o meno, che «è una grande gioia anche oggi. Oh, lui era Massimo! Essere secondo? A lui ben venga, forse non è chiaro di chi stiamo parlando».

    In ogni caso, Lello Arena a giusta ragione deve essere menzionato tra i cabarettisti, attori e doppiatori italiani più affermati e di valore, esponente della nuova comicità napoletana. Figlio di due impiegati alla manifattura tabacchi, si trasferì all’età di dodici anni da Napoli a San Giorgio a Cremano. Affascinato già da bambino dall’arte, non fu inizialmente felice del trasloco: «Sono appena dieci chilometri di distanza, ma nel primo periodo li ho maledetti, li ho accusati di egoismo, di volermi rovinare la vita, di volermi assassinare, da quello che consideravo il centro, mi portavano in periferia. E invece stavano costruendo il mio futuro, un futuro di passioni, ideali, cinema. Che non sarebbe mai stato possibile se non avessi avuto la possibilità di incontrare Massimo». L’incontro con l’amico fu a tredici anni, durante uno spettacolo teatrale nel teatro parrocchiale della chiesa di Sant’Anna. Lo avrà raccontato mille volte, in mille interviste diverse. Così in quella rilasciata ad Alessandro Dell’Orto su «Libero» il primo settembre 2016:

    Uno degli attori si ammala. Il regista dice: Perché non prendiamo quel ragazzo che abita qui dietro? Quello che si lamenta sempre perché alle assemblee nessuno sta serio quando parla. Chi è? Massimo, che è iper-attivo politicamente, è in tutti i comitati di scuola e interviene sempre. Però ogni volta che apre bocca, per quel suo stile strampalato di spiegarsi, gli altri ridono anche se sta esprimendo concetti importanti. E alla fine è sempre abbacchiato: Ma che vita mi aspetta se la gente ride quando dico cose serie? Troisi accetta la sostituzione anche se non ha mai recitato. Gli spiego che la scena è semplice, deve impersonare un salumiere che elenca i prodotti tenuti nel cestino: Puoi dirli nell’ordine che vuoi. Il giorno dopo c’è lo spettacolo: Lello, ho studiato il copione a memoria, so l’ordine preciso. Entra in scena e inizia: Ci sta ’o salame, poi ’o capocollo e poi… Anzi no. Mi guarda. Sssscusate, aggio sbagliato. Cioè, prima ci sta ’o capocollo e poi ’o salame. O forse no…. E via così. Il risultato è che, ostinandosi nel cercare di dire l’esatto ordine del copione, la scena che doveva durare 20 secondi dura 20 minuti… Un successo strepitoso. Massimo mi guarda: Ssscusa Lello, ma questo è ’o teatro?. E io: Più o meno. Lui: Posso venire qualche altra volta?. Certo, sono in via Recanati". E lavorate insieme? Macché. Per otto mesi sparisce finché alle due di un pomeriggio di agosto, caldo soffocante, citofona: Ti ricordi di me? Posso salire?. Gli dico: Hai scelto il momento sbagliato per tornare: non si respira!. E lui: Ero sicuro che saresti stato in casa.

    Così, messa in disparte la sua vocazione di rugbista, si dedicò anima e corpo al teatro e con Troisi da grandi avrebbero fatto gli attori; si erano nutriti dei testi di Francesco Mastriani, il verista napoletano, e delle parodie di Eduardo Scarpetta, il drammaturgo e artista borghese della commedia napoletana di fine Ottocento, conoscevano la fortuna e la fame disperata dei posteggiatori e dei cecati, insuperati protagonisti della canzone popolare napoletana di fine Ottocento, avevano studiato sui testi di Ferdinando Russo, poeta e autore di popolari canzoni napoletane, e Raffaele Viviani, il geniale attore, commediografo e poeta di Napoli. Una volta Massimo Troisi confessò: «Mescolavamo teatro sperimentale e Eduardo, Fo e Viviani, un bel minestrone. Ma ci è stato utilissimo, per farci le ossa».

    Le vicende successive sono state poi raccontate svariate volte. Con Massimo fondano il piccolo teatro Centro Teatro Spazio, in angusti spazi sottostanti un palazzo di San Giorgio a Cremano, iniziando a mettere in scena pulcinellesche, caratteristiche rappresentazioni del teatro di Napoli. Ovviamente, erano azioni spesso improvvisate e non accademiche, assai semplici e senza guadagni economici; Troisi in calzamaglia nera o, in ogni caso, con un look modesto, con scenografie e costumi ridotti al minimo. Eppure, in quelle recite ci mettevano l’anima, costretti a confrontarsi, in quella Napoli d’arte e di musica degli anni Settanta, con La Nuova Compagnia di Canto Popolare di Roberto De Simone, con Edoardo Bennato e Pino Daniele. In ogni caso, da qui ebbe origine, maturò e progredì, percorrendo varie condizioni e variando di frequente titolo e formazione, il gruppo di Lello Arena e di Massimo Troisi.

    Troisi però non sta bene e nel 1976 va negli usa per farsi operare al cuore. Quando torna, ai due si unisce Enzo Decaro che portò in dote il bel canto e una bella presenza: Purcaro, così è il suo vero cognome, era infatti tra gli studenti più corteggiati al liceo classico Flacco di Portici. Il loro primo gruppo si chiamava I Saraceni, divenuto in seguito La Smorfia; esordì prima al teatro San Carluccio di Napoli, grazie all’improvviso forfait di Leopoldo Mastelloni, poi approdò al noto cabaret romano La Chanson e alla trasmissione radiofonica Cordialmente insieme. Infine, i tre vennero notati da Enzo Trapani e da Giancarlo Magalli, ed esordirono nel programma televisivo Non stop.

    Con travolgente comicità il trio mise in scena molti sketch in cui vennero esibite le deformazioni, magistralmente costruite, dei più diversi tipi umani e sociali. Usando battute giocate sull’espressività di più linguaggi, da quello verbale a quello mimico-gestuale, e facendo dell’ironia su tutto, dalla religione alle tematiche sociali più svariate, La Smorfia cercò di allontanarsi dal luogo comune di Napoli per ottenere consensi dal profondo, giocando sui pudori, sulla timidezza, su quello che in realtà sulla scena veniva sottinteso, piuttosto che detto. Ciò determinò il grande successo del trio che, dopo il debutto da Non stop, approdò anche a Luna Park, il programma del sabato sera condotto da Pippo Baudo, prima di sciogliersi definitivamente agli inizi degli anni Ottanta. Del trio resta memorabile lo sketch dell’Annunciazione, quando Arena vestiva i panni dell’arcangelo Gabriele che entrava in scena, in maniera molto teatrale, con il celebre tormentone Annunciaziò, annunciaziò.

    Intense e multiformi sono state finora le partecipazioni in film di grande successo, dal leggendario Ricomincio da tre, nel 1981, al No grazie, il caffè mi rende nervoso, nel 1982, nel quale è protagonista assoluto e dove interpreta Michele, un giornalista che, condizionato da un raptus, dovuto al totale rifiuto di una Napoli da allontanare dai soliti stereotipi, inizia ad uccidere i partecipanti del Primo Festival Nuova Napoli (tra cui Massimo Troisi e James Senese). Il film, divenuto un vero e proprio cult, appassionò molti spettatori e Arena, nel 2014, ha annunciato l’esistenza di una sceneggiatura per un seguito, tuttora non ancora concretizzatosi nelle sale. Nello stesso anno partecipò come comparsa al docufilm Morto Troisi, viva Troisi, in cui quest’ultimo inscena la sua morte prematura, recitando nei panni dell’angelo custode del defunto attore.

    Nel 1983 prese parte al secondo film di Troisi, Scusate il ritardo, dove incarnò le manie e le nevrosi di chi è stato abbandonato dalla compagna; ottenne per questo ruolo il David di Donatello come miglior attore non protagonista. In seguito ha affiancato come coprotagonista grandi big del cinema italiano come Alberto Sordi, Ugo Tognazzi e Carlo Verdone; quindi si è messo alla prova nella regia e nella sceneggiatura con Chiari di luna, nel 1988, nella televisione con Il principe azzurro e, dopo un periodo di inoperosità cinematografica, a seguito della prematura morte dell’amico e compagno d’arte nel 1994, prese parte alla pellicola Facciamo paradiso, e più tardi, nel 1997, condusse insieme a Massimo Lopez ed Elenoire Casalegno la quinta edizione di Scherzi a parte, che ottenne grandi risultati d’ascolto.

    Nel 1993, intanto, pubblicò il libro I segreti del sacro papiro del sommo Urz, miscuglio di ragionamenti sulla vita mascherate nelle sue traversie personali. Nel 2003 ha partecipato come doppiatore, dando la voce a Pulcinella, al film d’animazione Totò Sapore e la magica storia della pizza e l’anno successivo, mentre al teatro recitava in Georges Dandin di Molière, prese parte alla fiction su Luisa Sanfelice, in cui interpretò lo sbirro della regina Maria Carolina.

    Lello Arena non ha mai mancato di far sentire la sua voce polemica, di far valere il suo pensiero. Qui non è secondo a nessuno. Così, per esempio, nel 2012 si rifiutò di partecipare al programma di rai 1 in memoria del compagno di viaggio. Le sue riserve furono le stesse di Aldo Grasso che sul «Corriere della Sera» aveva definito lo show «uno spettacolo di rara tristezza». Troisi avrebbe meritato ben altro, commentò con decisione Lello Arena: «Una serata antologica, Massimo doveva essere messo in condizione di recitare ancora. Lui resta fonte di ispirazione non ricordo asettico. Vive tra la gente. Sarebbe stato importante veicolare le testimonianze di cittadini comuni che spesso incrocio: mi abbracciano, si commuovono soltanto perché ho avuto la fortuna di lavorare con lui, di vivere il quotidiano con lui. Ecco, questa sarebbe stata la vera commemorazione di un personaggio unico e intramontabile».

    Non le manda a dire, Lello Arena. Su molte cose. A quelli che gli chiedono cosa guarda oggi in televisione e se gli piace Gomorra, risponde senza mezzi termini: «Mi sono imposto di non guardarlo. Non voglio pensare che l’immagine della mia città sia venduta nel mondo solo così: violenza e criminalità. Ora anche i comici napoletani stanno lavorando per farne una parodia: ma è così difficile essere un po’ alternativi come lo eravamo noi?». Giudizio forte, vigoroso. Lo stesso atteggiamento nei confronti di alcuni suoi colleghi. «A proposito di artisti partenopei: Alessandro Siani le piace?» gli è stato domandato in una recente intervista: «Lo conosco per quello che fa e mi sembra stia girando un po’ a vuoto. È un grande manager e ha ottime capacità, ma nun tiene ’o coraggio di dire la sua, farci capire da che parte sta, prendere posizione su Napoli, sulla comicità, su se stesso. È il problema di chi vuole per forza piacere a tutti».

    Superati oramai i sessant’anni Lello Arena ha tutto il tempo per capire, prendere la matita rossa o blu, a seconda dei gusti, tracciare una linea, sbrogliare matasse di ricordi. Quindi guardare dentro se stesso, dare sfogo all’io imperante, un io esposto sul palco da quaranta e più anni. Anche e soprattutto per chi, come lui, tra un ricordo e un altro ha un richiamo costante, suo, eterno secondo, che custodisce con rispetto, da testimone consapevole: Massimo Troisi.

    Baccher de Gasaro, Placido. Un prete reazionario del Re di Napoli

    Mercoledì 30 marzo 2016 le agenzie di stampa hanno battuto una notizia per i fedeli di Napoli terribile: furto sacrilego nella basilica del Gesù Vecchio dell’Immacolata: i ladri hanno sottratto un’antica collana d’argento e pietre dure dalla statua della Madonna benedetta. Questa statua dell’Immacolata è da secoli oggetto di devozione di migliaia di fedeli dopo notizie di sue apparizioni e di grazie concesse in particolare a donne in attesa di figli. Il papa Pio ix volle celebrare nella basilica in suo onore una messa nel 1849. «Quella collana era lì da sempre», commentò don Alfonso Punzo, l’affranto rettore, «e, a parte il valore materiale, ciò che più addolora è il

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