La Panchina
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Anteprima del libro
La Panchina - Antonio Annunziata
Emanuela
CAPITOLO PRIMO
L’appartamento all’ultimo piano del palazzotto signorile del marchese Mancuso Virgilio Maria di Castelladdoria si affacciava sul lato ovest della piazza principale della borgata, mentre il lato est era rivolto interamente al mare.
Su questo lato erano le quattro camere da letto e nel centro, in corrispondenza della matrimoniale, c’era l’unica terrazza, ampia, colorata di fiori piantati in una ventina di vasi in terracotta: c’erano gelsomini, rose, glicini, gerani rampicanti, cactus e azalee.
Da quella terrazza Robert Di Maggio ogni mattina, al sorgere del sole, amava centellinare il primo caffè della giornata.
Robert, di professione scrittore, di anni sessanta, originario di New York, era ancora, nonostante la non più giovane età, un uomo alto, dalla corporatura robusta e muscolosa, dai capelli folti bianchi, dal viso abbronzato e con occhi di un blu intenso.
Si era trasferito in Sicilia immediatamente dopo il tour dell’isola fatto insieme ai genitori ed altri compaesani siciliani trapiantati negli States
.
Fu durante una sosta in un paesino in provincia di Siracusa che incontrò la giovanissima Emma Caruso.
Allora aveva venticinque anni lui, e diciotto lei; e fu il fatidico colpo di fulmine!
Fu amore a prima vista: un amore travolgente per il quale il giovane Robert decise di lasciare l’America per vivere in Sicilia.
Anche quando era un giovanotto piacevole e baldanzoso non era mai stato il tipo da poltrire tra le lenzuola.
Ora che era sessantenne si svegliava ancor prima delle sei del mattino e, dopo aver disbrigato le proprie faccende in bagno – operazione che durava mediamente dai venti ai trenta minuti – passava scalzo (con ancora indosso il solo accappatoio di spugna) alla cucina per prepararsi il caffè.
Appena vestito, usciva di casa di buon’ora per andare alla vicina edicola della piazza a comprare l’abituale quotidiano e scambiare quattro chiacchiere col vecchio Adamo, il giornalaio.
Con il giornale sottobraccio rincasava per infilarsi in cucina dove la solerte Olga gli faceva trovare sulla tavola apparecchiata la prima colazione consistente in: caffè nero, fette biscottate integrali con marmellata ai frutti di bosco e una spremuta di arance.
Olga era una trentenne dall’aspetto piacente, di media altezza, dal corpicino aggraziato e dalla carnagione bianca come il latte.
Amava portare i capelli lunghi corvini sciolti lungo le spalle.
Aveva occhi neri, labbra carnose e un sorriso ammaliante.
Era pazzamente innamorata di Robert, ma mai era riuscita a confessarglielo in tanti anni che era a servizio.
Terminata la colazione, quest’ultimo si trasferiva nuovamente sulla terrazza, si accomodava sulla sdraio preferita di tela grezza variopinta e iniziava a sfogliare il giornale commentando fra sé e sé le notizie più importanti dall’Italia e dal mondo.
Alle nove in punto, si infilava il giacchino di renna che il tempo aveva consumato e sbiadito e, una volta salutata la ragazza, raggiungeva gli amici di sempre al caffè trattoria Giacomino
poco distante dalla sua abitazione.
CAPITOLO SECONDO
La comitiva era composta da un centinaio circa di immigrati siculi.
Molti erano figli e nipoti di quella povera gente: calzolai, fornai, meccanici, idraulici, contadini, negozianti, che si erano trasferiti in America negli ultimi anni del XIX secolo alla ricerca di una nuova vita e di un lavoro.
Il novanta per cento di questi era arrivato a malapena alla quinta elementare e di questi la metà non sapeva leggere e scrivere.
Ma col tempo e la volontà di emergere, ognuno di loro si era costruito una posizione all’interno della Little Italy, famoso quartiere con popolazione italiana di New York situato nella Lower Manhattan.
Si erano rimboccati le maniche e rifatti una vita per poi lasciare i frutti della loro fatica ai figli e ai nipoti.
I genitori di Robert, Rosa e Salvatore, settantenni all’epoca del tour, avevano un negozio di pane e di dolci tipici siciliani (cannoli, frutti di marzapane, cassatine) che avevano aperto in Elizabeth Street con mille sacrifici.
Dopo tanti anni di lavoro si potevano ora vantare di avere un esercizio ben avviato, con buona clientela affezionata e un buon conto in banca.
Avevano fatto studiare Robert nel miglior collegio e qui si era laureato in lettere.
Ora non avevano più le valigie di cartone chiuse con lo spago ma bagagli in pelle; gli abiti girati e rigirati con le toppe ai gomiti avevano lasciato spazio a giacche e giubbotti dal taglio moderno ed elegante; le donne portavano pesanti e costose borse alla moda dai colori e dai disegni sgargianti, e gli uomini avevano al collo costose macchine fotografiche se non, addirittura, cineprese.
L’aereo decollato in perfetto orario da New York, in perfetto orario era atterrato a Roma.
All’uscita dall’aeroporto due bus li attendevano per trasferirli a Villa San Giovanni e da lì col traghetto a Messina, dove avrebbero pernottato all’Hotel Jolly una sola notte.
Il giorno dopo, alle nove in punto, i due bus erano stati sostituiti da un moderno e più comodo pullman a due piani, dove un certo Salvatore Esposito si presentò come la guida che avrebbe fatto loro da Cicerone
per tutta la durata del tour.
La guida era un ometto dalla corporatura bassa e dalla capigliatura spettinata. Indossava pantaloni di tela bianca e un giubbotto di jeans color azzurro slavato.
A guardarlo bene, era la copia esatta dell’attore italoamericano Danny De Vito ragion per cui fu immediatamente ribattezzato dai componenti del tour Little Danny.
Era lunedì quando da Messina partirono alla volta di Palermo (prima tappa).
Nel capoluogo siciliano pernottarono due notti al Majestic Hotel per avere il tempo di visitare la città in lungo e in largo, soffermandosi ad ammirare la Cattedrale, il Teatro Massimo, il Palazzo dei Normanni e i due mercati: quello di Ballarò e quello della Vucciria vicino al porto.
Il secondo giorno lo passarono quasi esclusivamente alla spiaggia