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Quasi al centro del mondo
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E-book464 pagine6 ore

Quasi al centro del mondo

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Info su questo ebook

Nella Sicilia interna della seconda metà del XVIII secolo, in un ambiente che, pur alla periferia dell’Europa, risente dei fermenti dell’Illuminismo, si svolge la storia, realmente accaduta, del conflitto tra il Conte Moncada, feudatario di Caltanissetta, e la nobiltà e la borghesia locale che cercano di liberarsi da un gravame che va loro sempre più stretto.
Protagonista principale della vicenda è la figura storica del Barone Lucio Aurelio Barile, onorato uomo di studio che, in un arco di tempo che va dal 1754 al 1795, lega strettamente le sue vicende personali a quelle della richiesta di restituzione della Città al Regio Demanio.
LinguaItaliano
Data di uscita8 mar 2016
ISBN9788882434113
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    Anteprima del libro

    Quasi al centro del mondo - Luigi Santagati

    Luigi Santagati

    Quasi al centro del mondo

    Luigi Santagati

    Quasi al centro del mondo

    Edizioni Lussografica

    © Copyright Marzo 2016

    Edizioni Lussografica

    Caltanissetta

    Tutti i diritti sono riservati

    ISBN 978-88-8243-411-3

    ISBN: 978-88-8243-411-3

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com)

    un prodotto di Simplicissimus Book Farm

    Indice dei contenuti

    Capitolo 1

    1

    2

    3

    4

    5

    6

    7

    8

    9

    10

    Capitolo 2

    1

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    10

    11

    12

    Capitolo 3

    1

    2

    3

    4

    5

    Capitolo 4

    1

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    6

    7

    8

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    10

    Capitolo 5

    1

    2

    3

    4

    5

    6

    7

    Capitolo 6

    1

    2

    3

    4

    Capitolo 7

    1

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    7

    8

    9

    Capitolo 8

    1

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    13

    14

    15

    Capitolo 9

    1

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    6

    7

    8

    9

    Capitolo 10

    1

    2

    3

    4

    5

    6

    7

    8

    Capitolo 11

    1

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    4

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    10

    11

    12

    Capitolo 12

    1

    2

    3

    4

    5

    Capitolo 13

    1

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    3

    4

    5

    6

    7

    Capitolo 14

    1

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    4

    5

    Capitolo 15

    1

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    4

    5

    6

    Capitolo 16

    1

    2

    3

    4

    5

    Appendice

    Capitolo 1

    1

    D’inverno, all’alba, il Salso è un grande lago bianco. Le colline d’intorno, allora, paiono rive verdi d’un fiume immenso.

    Piovendo, a volte il grande lago sale e copre nel nebbioso bianco la città: e perdi allora all’occhio case e cose. Dal ciglio del burrone di Sant’Elmo il fondo della valle è nella nebbia e l’ombra del monte San Giuliano tiene la Città, che non più dorme, ancora avvolta nelle brume della notte.

    A oriente il primo sole scopre il fianco al monte della Serra delle Croci: nell’aria fredda e tersa tocchi in fondo, tra il Monte Altesina e quello di Castrogiovanni, l’Etna cappucciato di neve. Il primo raggio sfiora la torre più alta del castello di Pietrarossa ruscellando luce sulle rocce: a sera sarà l’ultima pietra di Caltanissetta a salutare il sole. Il grande, tozzo tronco di Castrogiovanni chiude lo sfondo all’occhio e il monte Capodarso a mezzogiorno e Montagna di Marzo e l'abitato di Pietraperciata, in fondo, navigano immersi nelle spume delle nuvole. A occidente, poi, la serra di Gibilgabib apre allo sguardo Monte Formaggio sotto la mattutina aurora.

    D'intorno, la città resta, circondata di verde d'inverno e giallo d'estate. I boschi di lecci accarezzano, dapprima, i contorni della Collina delle Croci e dell'alto San Giuliano, scendendo poi alle pendici del monte Sant'Elia insieme agli alti carrubi sorgenti ai lati della strada grande per Girgenti e arrivando a coprire di verde con i bassi olivi, gli snelli mandorli, i grandi pistacchi e i poderosi pini mediterranei, i campi distesi salendo sino al passo di Babaurra, per poi precipitare in una sinfonia monotona di grano e solo grano verso la serra di Canicassè e la piana di Niscima. Presso gli acquitrini invernali del Pantano gli orti, godendo dello scolo dell'acque piovane del Canalicchio, coprono a dismisura, interrotti da ulivi e mandorli, la vista. In fondo, ancora in fondo, sul fianco destro della strada della Delia, luccica il grande lago della Mandrazza dalle sfuggenti anguille autunnali e colmo, al passo, di folaghe ed anatre selvatiche, di cigni bianchi e tortore candide, di nibbi e di rapaci veloci e ad ogni tempo di zanzare voraci e malaria. Infine, dalla parte del fiume Salso, vedi campi di grano e grosse roccie grigie e calanchi argillosi e montagne scabre. Pochi alberi rompono la monotonia del grano e del grigio chiaro delle rocche e l'occhio resta felice e stupito allora all'ocra pallido dei fianchi del monte tozzo di Sabucina lambiti dall’erbe verdi.

    Ancora d'intorno e più lontano ancora, per miglia e miglia, campi su campi spesso incolti e non un fonte, una casa, una masseria ma qualche albero sparso, aloe e fichidindia fino all'orizzonte disteso in ampie gobbe collinose rotte da creste d'arenaria, spesso per giorni di cammino.

    2

    Una delle prime mattine fredde di primavera, il lunedi 11 marzo del 1754, prima ancora dell'alba, don Luciano Aurelio Barile de’ Marsi dei Baroni di Turolifi scese, ancora pieno di sonno, lo scalone del palazzo avvolto in uno scapolare nero di lana fina di capra.

    Catino ... Catino! La voce scendeva roca e pel gran freddo sentiva gelarsela in gola. Michelina ... Rocca! Ma dove ve ne andaste stamattina!

    Voscilenza aspetta, qua sono.

    È pronto il latte, Michelina? Muoviti, che facciamo tardi. Il tono s'abbassò.

    Voscilenza si, vado. La vecchia scomparve in un fruscio di gonne quasi sgattaiolando a testa china, così com'era venuta, verso la cucina.

    Luciano ...

    Mamma, che è?

    La baronessa veniva lenta dalla scala, sostando quasi a ogni gradino. Feci un brutto sogno stanotte, Lucianino. D'avere paura.

    Si mi dice, mamma.

    Sognai del Principe, figlio mio. È un uomo meschino, Luciano, ti può fare del male.

    Ascoltate ... il Principe è un uomo come me e voi. Sono sicuro che si rende conto ... Perchè non dovrebbe capire?

    Luciano ... quella è gente abituata a comandare da sempre ... che è capace di rovinare qualcuno solo per il piacere di farlo ... pure di fare morire un uomo a bastonate se gli dà soddisfazione ... Tanto ci hanno il cuore duro, loro, Luciano. Ci vuoi pensare, ah? Vuoi restare?

    E così dicendo s’avvolgeva stretta nello scialle, nero come l’altre vesti indosso, e la cui unica nota chiara dell’intera figura era il volto pallido e sofferto. Portava, come costume delle donne del suo tempo, l’abito nero degli innumeri lutti della vita: per sempre pel Padre, per sempre per la Madre, per sempre per il Suocero e la Suocera e per sempre, nell'abito e nel cuore, il lutto per un figlio morto a tre anni e d'allora pianto tra le preci biascicate al mattino e all’imbrunire. Sposata giovanissima, come costume del tempo, a Nicola Barile e Calefato, Filippa Frangiamore di nobile e antica famiglia nissena, andava consumando il suo bel volto che a tanti ricordava una madonna del Gagini, tra il Rosario della sera, le preghiere del mattino, la paura della notte, il timore del giorno, la visita alle zie, alle sorelle e alle cugine sepolte nel monastero della Città e il pianto continuo per i timori dei figli e le cure alle figlie, possibili condannate anch'esse ad una vita conventuale futura. E con l'anima mistica e la consapevolezza di una esistenza condotta a maggior gloria di Dio, a neanche cinquant’anni d'età ne andava dimostrando, dopo una vita di Mea culpa e Miserere, almeno sessanta. E andava piagnucolando le sue lamentele per le tante stanze del Palazzo grande dei Barile affacciato sulla Piazza Grande e sulla via del mercato, a tre passi dalla chiesa di Santa Maria la Nova, Madrice della Città. Poi, là divideva le cure della sua anima assecondando i grandi disegni del Canonico Arciprete don Antonio Morillo e, a breve distanza dal Palazzo, andando a pregare per la salute spirituale di tutta la famiglia con l'anime candide delle parenti sue, recluse a vita tra le anguste pareti del Monastero della Santa Croce appena al margine orientale della Città, verso il burrone di Sant'Elmo.

    3

    Doveva quella mattina, il Barone, partire per Palermo. E l’immensità del viaggio lo scorava.

    Nella capitale andava ad incontrarsi, annunciato da amici comuni, col Marchese Francesco Maria Emanuele e Gaetani di Villabianca, latore di un messaggio scritto dell'Accademia de' Notturni, ma soprattutto per conferire col Principe Moncada, feudatario di Caltanissetta, portando un messaggio stavolta non scritto dei Nobili della Città, perchè si addivenisse ad un compromesso onorevole per tutti, che portasse gli animi ad una pacificazione forzata. Da troppi anni ormai covava una guerra intestina tra i Nobili di Caltanissetta ed i Moncada, ed ora la guerriglia sotterranea rischiava di diventare uno scontro aperto. Ma con l'antico detto e costume siciliano che " tutto si può comunque aggiustare ", Barile andava a Palermo per accomodare le cose.

    Era Caltanissetta, allora, cittadina di sconosciuta storia, incastonata tra gli ultimi monti del Val di Mazara e quasi sospesa sul fiume Salso ai confini del Val Demone e del Val di Noto.

    Fondata, dicevano taluni, dai Greci antichi che le diedero chissà che nome e gran Città sotto di essi e tra i Romani, ebbe ignoto destino sotto i Bizantini e soffrì, forse, sotto i Saraceni infedeli. Cresceva, al nostro tempo, più di 14.000 abitanti, e restava sotto la Serra delle Croci a Sant’Anna che la copriva, e copre ancora dai venti del Settentrione, aprendosi a Mezzogiorno verso il fiume Salso, l’antico Himera Meridionalis dei Latini, vecchia via di conquista di Sicani, di Elimi e di Siculi e poi delle genti greche e romane infino ai Bizantini e agli Arabi.

    Giaceva la Città in un sonno antico da cui s’era raramente svegliata. La tenne sotto il suo tallone per oltre due secoli l’Arabo infedele, e anni dopo i suoi cronisti all'Accademia de' Notturni, colmi di meraviglia nel leggere le favolose storie del Libro del Consiglio d’Egitto dell’impostore Abate Vella, inventore di fatti mai accaduti, ne andavano tessendo antiche inaccadute glorie all’ombra di fiabeschi minareti.

    Terra di pascolo per capre e rifugio per secoli di fuggitivi schiavi scappati dalle coste nel turbinio delle conquiste, s'affannò sotto i Re Normanni, tornò a ristare nel suo tiepido dormiveglia sotto gli Angioini e sotto i Vicerè Spagnoli e sotto, poi, del primo dei Conti Moncada che l’ebbero in cambio del Contado d’Augusta nell’anno del Signore 1407. Immobile e quieta andò ingrassando tra i pingui pascoli primaverili delle giogaie d’intorno e nei campi biondi del grano di giugno. Tranquilla e insonnolita ingrassò e ristette nel bruciore dell’estati secche percorse da impetuoso scirocco e nel freddo degli inverni degli altipiani interni spazzati dal vento freddo di Grecale. Immutata e immutabile ristette nei secoli, vendendosi anche le mura inservibili ad una offesa che non sarebbe mai venuta, scordando, se mai n'avesse avuti, destini di gloria e di piena virtù, ingrassando preti, arricchendo nobili palermitani rapaci e mercanti senza cuore, vendendo grano e puttane nei tempi buoni e sangue, bestemmie e puttane nei tempi grami come pareva che falsamente dicesse il suo bel nome arabo, Angolo delle belle donne , e mai svegliandosi che a tratti dal sonno, come colui che crede d'essere nel giusto. E navigò per secoli tra l'ombre tenui di un sereno crescere seguitando a coltivare preti, monache, nobili e meno nobili e, soprattutto, morti di fame.

    Così l'aveva ritrovata al principio dell’estate del 1739 il giovane Don Luciano Aurelio Barile de' Marsi dei Baroni di Turolifi tornando dai suoi fruttuosi studi palermitani che l’avevano portato a prendere i voti minori del magistero sacerdotale presso i Gesuiti di Casa Professa a Palermo. E così la lasciò in una fredda mattinata del Marzo del 1754 per ritornare a Palermo ancora.

    4

    Più tardi Don Luciano Aurelio Barile si ritrovò nell'androne del suo Palazzo circondato dai servi vocianti e avvolto dal fruscìo delle gonne materne. Il Barone padre, scendendo austero lo Scalone, portò il silenzio. I servi fecero largo insolitamente attenti e Luciano si volse al padre fissandolo in silenzio. Vi furono le ultime raccomandazioni, i soliti consigli, l’abbraccio e le lacrime della Madre e delle serve, il sorriso furbo di Catino che per la prima volta in vita sua usciva da Caltanissetta, coinvolto e stordito dal pensiero di vedere Palermo, il ragliare dei muli della piccola carovana, gli ultimi baci lacrimosi e le parole del Signor Barone al figlio: Ricordati che sei un Barile e tieni alto l'onore della tua Casa. Fagli vedere che quelle cose ce l'abbiamo anche noi a Caltanissetta. Tossì, si schiari la voce, sputò per terra. Diglielo che l'onore anche noi ce l'abbiamo. Che tutto possiamo perdere ma quello a noi ci resta. e tutto questo tra lo sgomento della Baronessa e i risolini delle servette d'intorno subito ammutolite da uno sguardo del vecchio Barone.

    Il gruppo guidato dal Baronetto uscì dal portone svoltando verso la Piazza Grande. La via era già percorsa, visto il cielo sgombro e un sole che andava annunciando lo sperato tepore diurno, da uomini intabarrati negli scapolari, da ragazzi e bambini indaffarati a nulla e da donne dai neri scialli, avvolti alle spalle, con le brocche ora vuote ora già piene d'acqua tenute in instabile equilibrio sulle teste. Una piccola folla di giornalieri se ne stava sparsa per la Piazza aspettando una possibile chiamata per una giornata di lavoro, mentre i mendicanti andavano prendendo posto sui gradini delle Chiese in attesa della prima Sacra Funzione della giornata. Nell'angolo verso la beccheria, da cui arrivava l'odore del sangue degli animali macellati il giorno prima, ogni artigiano aspettava la chiamata alla giornata esponendo come uno stendardo gli attrezzi del mestiere: chi una pezza e il filo, chi il rasoio e la bacinella e, prima d'andarsi a cercare i clienti per le strade, chi una cazzuola, chi la zappa o il piccone, ma tutti con la sorte dannata segnata in fronte d'aspettare chi cercasse i loro servigi e permettesse loro di portare anche quel giorno quattro tarì di pane a casa. La solita confusa folla che ristagnava nella Piazza andava prendendo i posti prefissati da lunghi anni d'abitudini e copriva il selciato, spazzato dalle sgargianti lunghe gonne delle donne intente a riempire le brocche alla fontana ottagonale al centro della Piazza, e ancora lavato con le stesse lunghe gonne ora bagnate. I preti solennemente a lutto sciamavano verso le cinque Chiese poste ai margini della Piazza: su tutte Santa Maria la Nova dalla grezza facciata coprente il sole del mattino, San Sebastiano addetta a coprire d’estate il sole del meriggio, poi il Carmine a Settentrione del cantone della Strada Grande, per i penitenti e rifugio dei potenti, e infine San Paolino e il Salvatore, minuscole chiese quasi cappelle, destinate ai gelosi culti delle congregazioni religiose a chiudere la Piazza verso Santa Croce. Qualche carretto frusciante di innumeri orpelli e pannelli colorati, con a cassetta un uomo ed uno o due ragazzi ancora fradici di sonno ed un cane ringhioso trotterellante sotto il mozzo, andava stridendo attraverso l'ancora rada folla, colmo di indecifrabili cose, tirato da un mulo o da un asino già stanco mentre, venuto dalla campagna, qualche contadino andava a prendere il posto verso il Piano del Canalicchio, davanti alla via dell'Albergarie, per esporre la mercanzia: primizie di piselli ancora grondanti di rugiada notturna, fave dolcissime appena colte, mele cotogne bianche e piccole pere verdi, grossi cavolfiori viola, lunghe cocuzze verdazzurrine e piccoli ravanelli rossi, cipolle venate di violetto, finocchi biancoverdi, mazzetti di fini asparagi selvaggi, grossi mazzi di lattuche della Mandrazza, piccole carote marroncine e qualche fascio di cardi, ormai rinsecchiti, da posare accanto all'erbe amare raccolte il giorno avanti dai Fogliamari tra i campi e adatte a insaporire la povera minestra della povera gente e, giusto per bagnarci anche un tozzo di pane, appena condita da un goccio d'olio aspro d'oliva.

    Tra i piedi s'andava anche aggirando qualche cane, ancora intorpidito del freddo della notte passata accucciato nell'incavo di un portone, che s'andava strusciando tra la gente cercando pane e conforto, all'improvviso scartando accompagnato dai calci di qualcuno, e poi tornando muso a terra a fiutare la scia e il letame dei quadrupedi, di nuovo messo sull'avviso dal tintinnante suono della campanella di una mezza dozzina di capre dalle mammelle gonfie di latte da mungere direttamente davanti all'uscio delle case, tra di loro legate a redina e condotte a lunghi passi cadenzati dal capraio.

    Il Barone percorse i pochi metri che separavano il Palazzo dalla Madrice salutato dai Voscilenza benedica e Baciamo le mani delle persone che, rispettosamente, s'andavano scostando al suo passaggio. Evitò con cura le pozzanghere nel terreno, passò la soglia del sagrato ai cui bordi stendevano le mani poveri di professione e poveri di necessità, ognuno mostrando chi un braccio piagato, chi un arto storpio, i più solo il volto emaciato di una abitudinaria fame e una rassegnazione antica con cui avevano sempre convissuto. Passò il portone ancora semichiuso ed entrò dalla porticina di sinistra, anch'essa accostata. All'interno saliva il fumo denso delle candele di sego a insaporire i colori ancora pieni dei begli affreschi che il figlio del Borremans andava rifinendo sui ponteggi verso l'incompleto transetto e ad appassire l'odore dolciastro di cadavere che veniva salendo da una tomba appena aperta sul pavimento della navata di sinistra. Un paio di preti, col cappello in testa, andavano percorrendo velocemente la navata di destra scansando le sedie impagliate accatastate alla rinfusa. Il Barone si segnò, ristette qualche minuto inginocchiato sui piccoli mattoni ottagonali rossobruciati del pavimento, passò verso la navata centrale per inginocchiarsi in corrispondenza del Santissimo e poi uscì, segnandosi come all'ingresso, con le dita leggermente inumidite nell'acquasantiera.

    Fuori l'aspettava Catino che teneva il mulo per le redini davanti della portantina del Barone. Gli altri del gruppo l'andavano aspettando alla via dei Fondachi, parallela alla via dell'Albergarie, sulla strada per Palermo lungo il Canalicchio da cui prendevano corpo i convogli diretti ai caricatori dell'Alicata e di Girgenti per trasportare il grano conservato nei grandi depositi della Città. E dalla Via dei Fondachi, su cui s'andavano aprendo le prime botteghe e venivano appese ai ganci esterni corde di canapa, catene di ferro, basti e bardelle, redini di cuoio, sacchi di tela grezza e selle lavorate, s'andava snodando a sinistra una lunga redina di muli ed asini imbardati, portanti ognuno due sacchi colmi di grano, ogni animale legato a quello che lo seguiva e lo precedeva nella fila e guidati da alcuni bordonari disposti in testa, al centro ed alla coda, il cui incessante tintinnio dei campanelli legati alle bardature avrebbe accompagnato ogni attimo del viaggio. Sarebbero occorsi anche due giorni, se il tempo lo permetteva e tre se fosse peggiorato, per arrivare al caricatore prendendo dallo stradone dei Cappuccini, puntando sulla Delia e poi verso Sommatino e Alicata o a destra verso Canicattì, Castrofilippo, Favara e poi Girgenti. Lì il grano sarebbe stato ammassato nelle fosse d'arenaria o forse caricato direttamente sulle barche, se il mare lo consentiva, portato con le barche alle navi alla fonda lontano dalle rive sabbiose, e da lì sarebbe partito per Tunisi ed Algeri o per tutta l'Italia ed il resto d'Europa.

    La portantina del Barone raggiunse gli altri due servi che stavano fermi ad aspettare, con i due campieri di scorta, in fondo alla Via dei Fondachi vicino al ponticello in pietra bianca di Gibil Gabib, sul Torrente della Madonna delle Grazie che scendeva dal Monte San Giuliano portando acqua d'inverno agli orti del Canalicchio e d'estate polvere e mosche verso il resto della Città. Il torrente s'incassava per diversi metri creando un solco netto a chiudere Caltanissetta dalla parte della contrada di Sallemi. Di là dal ponte, sulla destra, il convento e la Chiesa della Madonna della Grazia, impiccicati al fianco ripido del vallone, sorvegliavano chi arrivasse e chi partisse.

    5

    Della Città così scriveva alcuni anni dopo, nel 1780, lo stesso Luciano Aurelio Barile nell'opera di Cesare Orlandi Delle città d'Italia e sue isole adiacenti ed ancor prima, nel 1756, sotto il nome di Francesco Peccheneda in Ragioni a prò della reintegrazione di Caltanissetta al regio demanio umiliate alla maestà del re Nostro Signore: Caltanissetta, in latino Calatanixetta, è ragguardevole città di Sicilia, situata nella parte meridionale dell'isola, nella Valle di Mazara ....

    Era in quell'epoca Caltanissetta la più grossa e certo importante Città dell'interno dell'Isola che solo allora, dopo il breve ma decisivo periodo del regno piemontese, iniziava a uscire dal sonno profondo a cui l'avevano condannata i suoi Signori. E lontana e vicina dormiva un lungo sonno l'antica Enna, allora Castrogiovanni, dimenticata patria d'eroi e di dei, Calascibetta erta sul colle dirimpettaio, Piazza Armerina di novella gloria ed i vecchi paesi sparsi per i monti. Il Val di Mazara chiudeva nella sua immensità il territorio della Città e la distanza grande che la tagliava dal mare, due giorni per Girgenti, tre giorni se non quattro per Palermo ed altrettanti per Catania, impedivano a idee e cose di introdursi nella mente della gente. Caltanissetta cresceva su se stessa, unica città dell'interno della Sicilia, come presenza anomala, un grande punto nel cuore dell'Isola circondato da puntini piccoli piccoli che, radi sulle coste, s'andavano ancor più diradando verso l'interno.

    Era quasi un mistero come fosse divenuta la quinta città dell'Isola per numero d'abitanti dopo Palermo, Messina, Catania e Siracusa, così lontana dai traffici siciliani, dagli imbrogli di corte, ma anche dai terremoti, volendo, e dall'insidie dei vulcani e delle cose terrene che andavano agitando le altre Città.

    Eppure anche lì si muoveva qualcosa. Qualcosa che quantomeno agitava i pensieri e i sogni di qualcuno.

    6

    La piccola carovana percorse le poche centinaia di metri che portavano, a sinistra del Ponticello della Grazia, nella contrada Sallemi, verso la Chiesa di San Michele, vicino alla grotta di contrada Calcare dove il venerato Arcangelo aveva fatto trovare al santo frate cappuccino Francesco Giarratana, avvertito in sogno, l'appestato che avrebbe potuto, diffondendo il triste contagio nell'anno del Signore 1625, decimare l'intera popolazione della Città. Da allora il 29 Settembre di ogni anno, e fino al 2 del mese d'Ottobre, la Grande Fiera di San Michele diventava il principale avvenimento dell'anno. Qui si davano appuntamento da ogni parte dell'Isola i ricchi commercianti di grano e allora andavano scadendo le tratte e i pagherò di un anno vissuto sperando nell'aiuto di Dio.

    Dopo un breve percorso pianeggiante segnato a destra dalla roccia biancastra della parete del colle ed a sinistra da un pendio scosceso di trubo bianco misto ad arenaria chiara, lasciata a sinistra la grande vasca gonfia d'acqua da cui una condotta portava al salto del Mulino Salvati giusto al bivio per la Chiesa, la strada, ora divenuta Via regia, si inerpicava verso la lontana chiesuola di Santa Petronilla correndo tra due muri di pietra rotta tenuta da gesso, alti quasi una canna, tanto che un uomo a cavallo faceva fatica a toccarne la cima; prima ancora del bivio per il paese di San Cataldo la strada a tratti mostrava campi coperti dal grano verde già spuntato, trafitto da alberi di mandorlo ormai sfioriti dei fiori bianchi, e carrubi e pistacchi e ancora peri e pruni tuttora spogli di foglie. Gli ulivi sempreverdi formavano a volte macchie consistenti di verde brunato e a volte boscaglie ancora più consistenti fino a sembrare boschi. Dalla piccola chiesa di Santa Petronilla la strada, lasciata la contrada Ciccianera, andava scendendo lentamente fino alla chiesetta di San Filippo Neri iniziando poi, da lì, la lunga china verso la masseria di Mimiano ed ancora la lunga risalita verso il borgo dei Manchi.

    Da San Filippo Neri in giù il panorama s'andava pian piano allargando sul Vallone. E andava l'occhio allora scorgendo tra le colline basse del centro dell'Isola le case di Mussomeli, aggrappate ai forti fianchi del suo monte, quelle di Santa Caterina a destra giacenti in una stretta valle e poi ancora San Cataldo, a sinistra e, lontana, qualche masseria sparsa e persa per la campagna. Di lato, discosta ma singolare nella sua natura, Sutera Finissima. Colpisce, del monte San Paolino, la sagoma a sorgere dalle affollate giogaie dei colli scabri del Vallone. La forma, una scheggia di roccia appena smussata alla puntuta estremità dove staglia la sagoma del Santuario, greve di roccia grigia e brulla non rotta dal verde d'alberi e d'erba, suonava strana, anomala, diversa nella linea secca e dura, estranea ai colli e ai monti a volte dolci o morbidi a perdita d'occhio. Ai piedi del Monte sorge Sutera, Città demaniale d'antica data, tenacemente aggrappata alla roccia, quasi a temere un distacco che la precipiti tra le rocce di San Marco più in basso.

    La carovana percorse l'intera mattinata quasi in religioso silenzio, solo concedendosi una fermata verso l'ora terza per una frugale colazione di formaggio di capra e pane fresco d'orzo, grano e fave e per i bisogni degli uomini e badare ai muli, scendendo verso il fondovalle percorso dal fiume Salito e portandosi verso la masseria di Mimiano. La strada, divenuta ora trazzera, larga quanto una catena di diciotto canne tanto da permettere a due greggi di pecore e capre d'incontrarsi senza mischiarsi, andava inerpicandosi con pendenze a volte ripidissime se non scoscese. Girava attorno, dentro, attraverso e sopra il feudo Piscazzi Soprani e, al fondovalle, al feudo Piscazzi Sottani, attraversando altri feudi dai nomi ai più sconosciuti: Marcato della serra, Mustumusciàru, Deri, Antimello e, costeggiando o intravedendo lontano, altri dai nomi arabeggianti noti e ancor meno noti come Giffarrone, Mustigarufi e, lontano, ancora Montecanino e, ancora più lontano, verso le case di Santa Caterina Villahermosa appena intravista al fondovalle, Garlatti, la Fagarìa e la Milìcia Vecchia e Nuova.

    Un paio di volte si scorse tra i radi alberi del fondovalle un daino, a volte si vide l'impronta fessa di un cinghiale o di un porco selvatico accompagnata dai puzzolenti escrementi, una volta sola sembrò d'intravedere lontanissimo un cervo già paludato di grandi palchi di corna, ma soprattutto furono i campi dapprima coltivati a grano per centinaia di salme di terreno e poi lasciati a pascolo naturale verso Mimiano e raramente percorsi da stecchi alberi d'ulivo e di mandorlo, a rallegrare l'occhio. Il siciliano è profondamente radicato a questa terra spesso brulla, solo a tratti percorsa da grandi alberi chiomati. Il secco clima estivo dell'interno e poi il freddo spesso asciutto dell'inverno aiutano poco gli alberi nel loro crescere. Ma, quando, alla piovosa primavera, la Natura sollecita, è allora un'esplosione, una sinfonia, un caos di forme e colori. Il verde grano primaverile diventa rosso di papaveri, viola di iris, giallo di asfodeli e narcisi e vedi ovunque lo scoppio del borragine celeste e del cappero verde e il luccichio degli agrumeti e il verde cangiante degli uliveti, il verde grigio dei carrubi e quello immenso dei pistacchi. Ma soprattutto, all'interno, scorgi, inaspettato, il verde sacro delle querce e degli allori, il gialloverde delle ginestre inerpicate sui fianchi ripidi dei monti, il marrone dei noccioli e dei castagni e poi il colore dei platani e dei sorbi e i fiori del tamarindo ed il ficodindia appassionato di settembre e il pino nodoso, il melograno verde e rosso, il mirto santo, l'aloe solitaria e altissima dall'unico violento fiore, il corbezzolo ed il larice ed ancora il faggio e il noce e l'albicocco, il ciliegio, il pruno, il fico e il lentisco odoroso. E questa diventa la grande sinfonia fragrante della terra e Tu siciliano, anche se vuoi, non puoi staccartene.

    7

    Pian piano il paesaggio si fece meno brullo. Un grande bosco d'ulivi centenari staccava una macchia immensa di verde sull'ondulata piana, lentamente inerpicandosi per salme e salme di terreno verso il monte a coprirne sino alla cima. La carovana si inoltrò verso la masseria di Mimiano di proprietà, come l'intero feudo, della Casa Moncada. La giornata inaspettatamente calda aveva sino allora aiutato a rendere meno duro il cammino.

    Qualche miglio prima avevano attraversato nel fondovalle la grande Trazzera delle Vacche che, partendo da Mazzara del Vallo e Selinunte come Via di Jenchi, passando per Salemi, Prizzi, Castronovo e, poi, Enna e la Piana di Catania, traversa da ponente ad oriente l’intera Isola sino a giungere, abbandonata la pianura in corrispondenza di Catenanuova, a Capizzi e Cesarò insino agli alti stazzi estivi dei Nebrodi. La trazzera, in quel punto, è tanto larga da sembrare un fiume verde, ricca d’erba lasciata sempre incolta per servir da pastura agli armenti in transito.

    Avvicinandosi alla grande masseria sentirono a distanza l'abbaiare dei cani di guardia. Poco dopo ne videro spuntare un paio dalla curva della strada nascosta dagli ulivi, seguiti da due cavalieri al trotto con lo schioppo a tracolla. Il gruppo si fermò e don Luciano, sceso dalla portantina, avanzò di un paio di passi verso i nuovi arrivati.

    Il primo cavaliere, vestito di una giubbaccia e pantaloni di fustagno, camicia un tempo bianca aperta sul collo sotto un panciotto di panno nero, lunghi stivali di cuoio sopra il ginocchio e una berretta floscia a calza con una nappa rossa che gli penzolava sul lato destro del collo a coprire i capelli ormai ingrigiti ed un'orecchia adorna, come l'altra, d'un cerchietto d'oro, era il soprastante della masseria, Pietrino Fiandaca, seguito da un ragazzo di 12 o 13 anni che, appena a vederlo, grande e grosso, pareva il ritratto sputato di suo padre.

    Il soprastante s'avvicinò, piano, facendo scivolare lo schioppo dalla spalla senza lasciare le briglie alla cavalcatura ma, appena vicino, riconobbe il Barone uscito dalla portantina. Baciamo le mani signor Barone disse, scendendo da cavallo, e a passi rapidi, dopo essersi tolta la berretta, andando a baciare la mano destra che il Barone gli tendeva.

    Ti saluto Pietrino. Il barone prese il tono autoritario da usare con gli inferiori. Vorrei fermarmi per desinare e riposare. Il viaggio è assai pesante oggi e la strada per i Manchi è pure lunga assai.

    È un onore per me Barone. Si voltò sulla sua sinistra Questo è mio figlio Francesco. facendo cenno al ragazzo di avvicinarsi. Saluta sua eccellenza.

    Voscilenza benedica. disse il ragazzo scendendo da cavallo, togliendosi la berrettaccia scura che gli copriva la testa e chinandosi a baciare anch'egli la mano del Barone.

    Santo, figlio rispose il barone.

    Scusatelo Barone, ma è un animale selvatico. Qua non vediamo mai nessuno e mi sta crescendo come una bestia di bosco, lui e le sue sorelle. Non salgono mai alla robba grande e stanno diventando selvaggi Barone, selvaggi ... Tra le mani stringeva un grosso bastone d'ulivo lavorato dal manico consunto dal tempo; non bello come quello di Iachino Pirrera, capobastone dei capibastone di tutti i bordonari di Caltanissetta, usato in cento zuffe e tenuto stretto quand'era il momento di dimostrarne il valore, ma certo era anch'esso un bastone da soprastante capobastone adatto a farsi assaggiare da qualche schiena più recalcitrante quand'era il momento.

    Lascia perdere Pietrino. Basta che vengono come te, che te ne devi fare. Persone di conto lo saranno lo stesso. Si guardò d'attorno come per accertarsi che qualcuno li spiasse. Io sto andando a Palermo ad incontrarmi col tuo padrone. C'è niente di nuovo?.

    Padrone nostro, Eccellenza, e anche vostro, purtroppo. Ma non so nulla di quello che mi chiedete. So solo che venne qui, quindici giorni fa, per le Ceneri, sua eccellenza il Segreto del Signor Conte per riprendere possesso della robba insieme agli sbirri dell'Alta Corte. E c'era pure don Felice Alajmo, il Capitano di Giustizia. Ora che è ritornato tutto a loro, ci dobbiamo divertire Eccellenza.

    Che vuoi dire Pietrino?

    Quello che voglio dire Voscilenza mi capisce. Finirono i tempi buoni Eccellenza. Quando torna il Padrone dobbiamo starci muti e lavorare sodo che il pane, a noi poveri disgraziati, non ce lo regala nessuno. E dobbiamo lavorare e stare muti ... lavorare e stare pure muti ... Puhh! E sputò per terra il tabacco che stava masticando, asciugandosi la bocca con la manica della giubba.

    8

    Il Barone risalì sulla portantina e la piccola carovana, ora ingrossata dai nuovi venuti, andava di buon passo percorrendo la strada che si staccava dalla via pubblica sin’allora percorsa, e attraversava ad ampie curve l'antico bosco d'ulivi di Mimiano da almeno trecentocinquant'anni

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