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Il rumore del tempo
Il rumore del tempo
Il rumore del tempo
E-book186 pagine2 ore

Il rumore del tempo

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Info su questo ebook

Le vicende narrate nel romanzo si svolgono ad Agrigento, diversi anni dopo quel maledetto 19 luglio 1966, quando una frana investì parte della città, distruggendola. L’architetto Francesco Daverio, una brillante carriera avviata a Milano, viene incaricato di elaborare un progetto per il riassetto urbano; è un guanto di sfida che Francesco non esita a raccogliere, non solo per dare prova delle proprie capacità professionali, ma anche perché nel capoluogo siciliano ad attenderlo c’è Marta, suo grande e mai dimenticato amore. 
Ha inizio così questa intricata storia, d’amore ma non solo; Il rumore del tempo è molto più di un romanzo rosa, è un romanzo  che cambia colore inaspettatamente, tra le mani del lettore, trascinandolo in un giallo tutto da risolvere. La Sicilia che vi è raffigurata è terra di sogni e di speranze, ma anche di corruzione e oppressione; Francesco infatti dovrà affrontare l’opposizione al progresso, l’oscurantismo di biechi speculatori, per restituire alla città, che ancora grida sotto le macerie, la meritata libertà.

Mario Piro è nato il 14 ottobre 1940 ad Agrigento. Conseguito il diploma presso l’Istituto di Avviamento Professionale “Nicolò Gallo”, viene precettato dal Ministero della Difesa per svolgere il servizio militare; ha qui inizio la sua carriera all’interno delle Forze dell’Ordine, che si concluderà con l’assegnazione al 3° Reparto Celere di Milano.
Nel 2016 ha pubblicato il libro di poesie Le ali del cuore (EDB Edizioni). 
Questo è il suo primo romanzo.
LinguaItaliano
Data di uscita20 giu 2023
ISBN9791255370901
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    Anteprima del libro

    Il rumore del tempo - Mario Piro

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    Mario Piro

    Il rumore del tempo

    © 2023 Vertigo Edizioni s.r.l., Roma

    www.vertigoedizioni.it

    info@vertigoedizioni.it

    ISBN 979-12-5537-054-3

    I edizione giugno 2023

    Finito di stampare nel mese di giugno 2023

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.

    Il rumore del tempo

    La lontananza dal luogo natio è come un magnete che attira la nostra mente, avvolgendola nelle nuvole del passato, e ci fa sognare di tornare.

    I fatti, i personaggi e le vicende narrate in questo libro, tranne i luoghi della città, nei quali sono cresciuto, e gli avvenimenti franosi che la mattina del 19 luglio 1966 hanno colpito alcuni rioni, sono elementi liberamente ispirati dalla fantasia. Pertanto, ogni riferimento ad essi collegato è puramente casuale.

    Prologo

    Il cielo cominciava a congedare il buio della notte quando i tiepidi fasci di luce solare iniziavano a dare i primi splendori alla città che ancora sonnecchiava. I pochi lampioni che illuminavano le strade, vuote e silenziose, si spegnevano con un perfetto sincronismo; come a sentenziare che la notte era finita ed il nuovo giorno riprendeva il suo posto nel calendario della storia.

    Lungo le arterie, con una rara frequenza, s’udiva provenire, da qualche appartamento, l’eco del suono acuto e penetrante delle sveglie che, puntuale, incitava al risveglio ed accantonare nel letto tutti i sogni e le chimere che, durante la notte, avevano assediato la mente.

    Erano le sei del mattino quando un uomo, udito il suono vibrante della sveglietta, posta sul comodino accanto al suo letto, si svegliò di soprassalto. Con gli occhi assonnati, lanciò rapidamente il suo braccio sull’oggetto sonoro impedendogli di proseguire, altrimenti avrebbe svegliato tutta la famiglia. L’uomo, cinquantenne, smilzo, senza esitare, con le dita si stropicciò gli occhi e mogio abbandonò il suo talamo. Con cautela, provando a non fare rumore, afferrò la sua tuta posta sulla sedia poco distante dal letto e nell’oscurità della stanza, l’indossò. Quell’indumento largo, maleolente e rattoppato, per un attimo gli diede un ampio senso di disgusto ma , in ogni caso, doveva accettarlo perché rappresentava la sua livrea di netturbino.

    Prima di uscire, entrò nella stanza dove rivolse lo sguardo ai cinque figli, tutti fanciulli: la primogenita era una femmina di nove anni mentre gli altri si differenziavano di circa due anni ciascuno, che dormivano in coppia, in un’unica stanza, sui materassi di crine, tranne il più piccolo che era accolto in quello matrimoniale, accanto alla madre. Ebbe un attimo di vergogna per non avere potuto donare a ciascuno un proprio letto ed una autonoma dignità; si chinò su quei corpi candidi ed appesantiti dal sonno, li baciò sulla fronte calda, mentre un focolaio d’umidità dipingeva i suoi occhi scuri e mesti; subito dopo varcò la soglia di casa trascinandosi dietro i suoi rancori, rincorrendo tra le ombre le sue speranze future con il suo volto che, raramente, vedeva le sue labbra dilatarsi. Con la moglie, in presenza dei figli, cercava sempre di evitare di parlare del suo scarno salario perché voleva che essi, un giorno, potessero accontentarsi di quello che potevano ottenere e non fossero schiavi di esso; insomma, desiderava vederli felici per ciò che la vita gli offriva, perché sapeva che anche la miseria, talvolta, può essere sinonimo di ricchezza, di orgoglio, ma mai di vergogna. Quando fu nella strada vide il suo carrello, con i due grandi bidoni zincati posti al centro degli assi, ubicati nello stesso luogo in cui l’aveva lasciato la sera precedente, oculatamente legato con una catena ad uno dei pali della luce. Faceva sempre così per timore che qualcuno potesse rubarglielo per ricavare una manciata di denaro dalla vendita del prezioso metallo, come, di fatto, una volta gli era successo. L’uomo prese il carrello e, con passi lenti, iniziò a spingerlo, con le ruote che cigolavano, dando corso al suo lavoro di netturbino, provando a reperire, tra i rifiuti che i mercanti abbandonavano sul ciglio delle strade, qualcosa che potesse apparire utile per sé e per la famiglia. Mogio, procedeva solitario assiepato dai pensieri mirati alle persone che aveva lasciato a casa; avrebbe voluto che quel sonno in cui versavano diventasse un letargo, sino a quando non sarebbe riuscito ad offrirgli una vita dignitosa ed un piatto di pasta ogni giorno, ma, malgrado ciò, ringraziava il Padreterno per quello che, quotidianamente, otteneva. Con molta frequenza avvertiva delle manifestazioni di disapprovazione per il suo umile e modesto lavoro perché ne avrebbe preferito un altro che fosse diverso e più gratificante; comunque, il suo mestiere lo faceva con un’ampia rassegnazione ed una dignitosa professionalità. Mentre raccoglieva, porta a porta, i rifiuti, ebbe un improvviso capogiro, il braccio gli restò sospeso a mezz’aria con un sacchetto che aveva appena impugnato; i suoi piedi vacillarono senza che avessero un nesso logico. Improvvisamente udì uno scricchiolio sotto i suoi piedi, la terra tremare e l’asfalto lesionarsi estendendosi rapidamente e paurosamente lungo il proseguo della strada: era la frana che s’impadroniva del terreno, facendolo scompattare e scivolare a valle. Egli rimase immobile, atterrito, incredulo da ciò che stava vivendo sino a quando non si rese conto della realtà. Con gli occhi dilatati vide alcuni cornicioni delle case precipitare a terra e molte pareti lesionarsi, con la rapidità di una scossa sismica. Senza esitare ulteriormente iniziò ad urlare ed a premere ogni pulsante dei citofoni e battendo con i pugni pesanti e violenti i portoni delle case: «Scinniti! Scinniti! Prestu! Scappati! U’terrenu stà franannu! C’è u’ terremotu!» urlava a squarciagola. Era solo, nessuno poteva concorrere ad aiutarlo; in quell’istante, il suo modo di agire era l’unico che poteva attuare per provare a salvare molte vite dallo smottamento del terreno, che ampliava il suo violento movimento creando un repentino dislivello del suolo, facendo già crollare alcuni edifici. In un batter d’occhio molte finestre si spalancarono e la gente si affacciava con sguardi curiosi. I portoni cominciarono a sviscerare persone, di ogni età e sesso, ancora in pigiama (e anche in mutande) che fuggivano terrorizzate recependo il coraggio di mantenere la loro integrità fisica. Molti, colti da una crisi di paura e di disperazione, urlavano al terremoto, altri al giorno dell’apocalisse, altri a conferma della frana, come esternazioni scenografiche tinte di paura. Quello spazzino (così venivano chiamati, in gergo, gli addetti alla raccolta dei rifiuti) come il Nazzareno che aveva salvato la peccatrice dalla lapidazione, salvò una donna dalle macerie. Fu così che molte persone ebbero l’occasione di rinviare la loro comparizione al Giudice Divino. La frana, in poco tempo, aveva raso al suolo un intero quartiere di periferia e posto l’aspetto di una desolante visione apocalittica.

    Fu così che si presentò l’alba del 19 luglio del 1966 ad Agrigento. Quel catastrofico episodio franoso, che cambiò parte della vita dei residenti, rimarrà perpetuamente nella memoria di coloro che l’hanno vissuto e potuto raccontare ai posteri.

    Per fortuna non ci furono morti ma fu tanto il terrore che la gente dovette subire. Alcuni dovettero lasciare per sempre le loro case che, in seguito, vennero abbattute. Ora, dove c’erano case, c’erano le macerie; dove c’erano macerie, c’erano i ricordi e le angosce; dove c’erano spazi liberi, c’erano le tendopoli che accoglievano gli sfollati.

    Mai più nessuno potrà prosciugare quel lungo fiume di lacrime o lenire il dolore degli scampati in quel tragico momento estivo. Proprio quella mattina in cui quel netturbino, a tutto poteva pensare, tranne che rendersi un casuale personaggio eroico. Come altri edifici, anche quello della sua abitazione crollò quasi interamente ed i suoi congiunti, che lui aveva lasciato addormentati, furono miracolosamente estratti dalle macerie dagli improvvisati soccorritori.

    A quell’uomo, che si era reso improvvisato protagonista allarmante, come il suono sgradevole di una sirena, gli elogi e gli encomi non mancarono. Diverse furono le offerte di nuovi lavori, ma la voglia di continuare a sognare nel suo semplice lavoro ebbe la sopravvenienza, con l’unico rammarico che, per sempre, custodirà nel suo cuore: quello di non avere potuto avvertire o soccorrere lui stesso in tempo i suoi cari, trovandosi, in quell’attimo, lontano dalla sua abitazione.

    I.

    Alcuni anni dopo…

    Il sole, già alto, radiava con la sua luce meravigliosa l’ameno litorale di San Leone, distante pochi chilometri dal suo capoluogo: Agrigento. L’arenile, già dalle prime ore del mattino, si gremiva di gente - corredata da sdraio e ombrelloni - al solo fine di trascorrere alcune ore in intima spensieratezza.

    Lungo la strada che fiancheggiava le dune di sabbia, le auto iniziavano ad intensificare sempre di più il traffico alla ricerca di un idoneo posto in cui parcheggiare. Quel giorno, l’ultimo di un’afosa settimana di luglio, nella mente delle persone balenava un solo pensiero: poterlo trascorrere distese e spensierate sulla sabbia dorata. Per la gente, proveniente anche dai paesi limitrofi, occupare quel lembo di mare era un’adunanza remota, che si trasmetteva di generazione in generazione, dove si era in prima fila anche quando si era ultimi, come fosse l’unica possibilità di dare al proprio corpo una variegata abbronzatura.

    Quella mattina Marta Olivieri, appena svegliatasi, aprì gli occhi cerulei e rimase supina sulle lenzuola madide di sudore ad osservare la luce del sole che penetrava dalle fessure degli infissi basculanti e si depositava sul pavimento, mista al pulviscolo atmosferico, formando una fascia argentata simile a frammenti di stelle che danzavano, straordinari e silenziosi, nella stanza buia. Improvvisamente udì provenire dalla cucina un continuo borbottio della sua domestica, che provava e riprovava ad aprire il rubinetto del lavello per fare scorrere l’acqua, ma come succedeva spesso ogni tentativo risultava vano. La donna, un’anziana vedova di 85 anni, si chiamava Celestina Baccoli ed era al suo servizio da parecchi anni. Lanciando qualche altro segno di disperazione, si chinò, afferrò una bottiglia d’acqua preconfezionata, custodita in un adiacente mobiletto, e svuotò parte di essa nella caffettiera.

    «Qui si va di male in peggio» esordì sconsolata, ad alta voce, rivolgendosi a Marta che stava nella sua camera da letto.

    «Non disperarti, probabilmente si sarà svuotato il serbatoio» rispose, «e poi, lo sai benissimo che qui l’acqua è preziosa come l’oro, purtroppo non possiamo farci niente. Abbi pazienza Celesti’». disse provando a rasserenarla, «tu lo sai meglio di me, purtroppo dobbiamo fare buon viso a cattiva sorte; questa è una crisi che proviene fin dalla tua infanzia» constatò rassegnata.

    In città l’erogazione dell’acqua avveniva razionata per un paio di ore, e per un giorno soltanto durante la settimana, per cui era necessario riempire ogni contenitore che potesse contenerla e usarla con molta parsimonia. A quei tempi molte abitazioni erano dotate di un idoneo serbatoio, posizionato nei balconi, nelle terrazze o in un soppalco della cucina, al fine di garantire una necessaria provvista, da utilizzare durante i giorni della mancata erogazione. Purtroppo quella carenza idrica era reale e quindi bisognava affrontarla con rassegnazione.

    Non si faceva molta fatica nel comprendere il motivo di una simile carestia, che proveniva sin dalla Seconda Guerra Mondiale, visto che le sorgenti davano una bassa garanzia e ponevano in difficoltà molte famiglie nonché gli esercizi pubblici che, frequentemente, ricorrevano a fare provviste, a pagamento, mediante esercenti privati dotati di autobotti.

    Improvvisamente Marta udì provenire dalla cucina il rumore della caffettiera, dove il caffè gorgogliava sprigionando un penetrante aroma da invaderle le narici. Lei si lasciò sedurre da quell’odore stimolante; arricciò il naso e inalò profondamente il sapore di quella nuvola aromatica, che aleggiava invisibile nell’aria.

    «Celesti’, Celesti’, allora questo caffè arriva o no?» urlò sollecitando il desiderio di sorbire quel delicato infuso.

    «Arriva, arriva! Abbi un po’ di pazienza!» rispose con voce sconsolata la domestica.

    Un attimo dopo vide Celestina varcare la soglia della stanza da letto reggendo il vassoio contenente la tazzina del caffè ed un toast farcito di marmellata.

    «Buongiorno pigrona» esordì la domestica mostrando un lieve sorriso, «come fai a dormire così tanto con questo caldo? E poi anche con la finestra chiusa, hai forse paura dei ladri?» commentò con un senso di ironia ed un lieve sorriso.

    «Dai, fai la brava! Non sfottermi, sapevi già che ero sveglia ancor prima che tu mugugnassi. A proposito, che ore sono?» rispose impetuosa.

    «Quasi le nove» precisò, «ero venuta un’ora fa per svegliarti… ma ho visto che dormivi a sonno pieno e ti ho lasciata proseguire; alzati mia cara, fuori c’è il mondo che ti aspetta. Non farlo attendere» suggerì con tono confidenziale. «Solleva le tue chiappe, pigrona…» ripeté, «se non vuoi fare colazione e pranzo contemporaneamente. Ai miei tempi ci alzavamo al canto del gallo, mentre oggi non vi basta neanche il suono delle campane» mugugnò avviandosi ad aprire la finestra per il cambio dell’aria e fare entrare la luce del sole che avrebbe illuminato la stanza.

    Marta, un’avvenente quarantenne indigena da parte materna ma di sangue nobile da parte del padre settentrionale - entrambi defunti - scrollò la testa, esprimendo un segno di disapprovazione, mentre con la coda dell’occhio seguiva l’anziana donna. Dopo, al termine della colazione, si alzò vedendo l’immagine del suo corpo riflesso dallo specchio fissato su un’anta dell’armadio, un mobile vetusto ed intarsiato. Appena la serva sparì dalla sua vista, lei chiuse la porta; poi, con un atteggiamento smorfioso, si pavoneggiò davanti lo specchio, come a volerlo interrogare ed emettere una sentenza sulle grazie del suo fisico da perfetta modella. La sua pelle manteneva ancora il candore ed il calore della sua giovinezza. I suoi quarant’anni sembravano latitare e rifugiarsi

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