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Il Costruttore di Stelle
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E-book345 pagine5 ore

Il Costruttore di Stelle

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Info su questo ebook

Un tranquillo inglese contempla il cielo stellato su una collina. In un attimo, si ritrova a volare nel firmamento, mente priva di corpo, e inizia così un incredibile viaggio nel cosmo, attraverso miriadi di mondi.
In un percorso che attraversa milioni di anni, il protagonista va alla ricerca del Costruttore di Stelle, che gli permetterà di cogliere l'essenza dello spirito primigenio.
Uno dei romanzi più ambiziosi della storia della fantascienza, apprezzato tra gli altri da Jorge L. Borges e Arthur C. Clarke.
LinguaItaliano
Data di uscita9 mag 2021
ISBN9791280243270
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    Anteprima del libro

    Il Costruttore di Stelle - Olaf Stapledon

    starmaker_cover.jpgCopertina

    #2

    Altair

    Collana di letteratura fantastica

    Olaf Stapledon, Il Costruttore di Stelle (Pellucidar vol. 1)

    1a edizione Landscape Books, maggio 2021

    Collana Altair n° 2

    © Landscape Books 2021

    Titolo originale: Star Maker

    Nuova edizione a cura di Vittorio Severini

    www.landscape-books.com

    ISBN 979-12-80243-27-0

    Realizzazione: WAY TO ePUB

    Olaf Stapledon

    Il Costruttore

    di Stelle

    Prefazione

    In un momento in cui l’Europa corre il pericolo di una catastrofe ancora peggiore di quella del 1914, un libro come questo potrebbe essere condannato come una distrazione dalla difesa, disperatamente urgente, della civiltà contro la moderna barbarie.

    Anno dopo anno, mese dopo mese, la tremenda situazione della nostra frammentaria e precaria civiltà si aggrava. All’estero il fascismo diventa sempre più sfrontato e crudele nelle sue avventure internazionali, più tirannico verso i propri cittadini, più barbaro nel suo disprezzo per la vita dello spirito. Perfino nel nostro paese abbiamo ragione di temere il rafforzarsi di una tendenza verso la militarizzazione e la riduzione della libertà civile. Inoltre, mentre trascorrono i decenni, nessun passo decisivo viene compiuto per alleviare l’ingiustizia del nostro ordine sociale. La nostra economia ridotta allo stremo condanna milioni di uomini alla frustrazione.

    In queste condizioni è difficile per gli scrittori seguire la loro vocazione con coraggio e, insieme, con ponderato giudizio. Alcuni si limitano a scrollare le spalle, si ritraggono di fronte alla sofferenza che è il fulcro della nostra epoca. Costoro, con le menti chiuse rispetto ai problemi imprescindibili del mondo, inevitabilmente producono opere che non solo non hanno alcuna profondità di significato per i loro contemporanei, ma sono anche leggermente ipocrite. Questi scrittori devono consciamente o inconsciamente fare in modo di persuadersi, o che la crisi della società non esista, o che sia meno importante della loro opera, o che comunque non sia affar loro. Ma la crisi esiste, è di suprema importanza e ci riguarda tutti. Come può un individuo appena intelligente e informato sostenere il contrario, senza ingannare se stesso?

    Ciononostante, nutro una viva simpatia per alcuni di quegli intellettuali che ammettono di non poter dare alla lotta nessun utile contributo, e credono sia meglio non immischiarsene. In effetti, io sono uno di questi. E a nostra difesa vorrei dire che, anche se siamo inattivi o inefficaci come sostenitori diretti della causa, tuttavia non l’ignoriamo. Al contrario, essa tiene costantemente, ossessivamente fissa su di sé la nostra attenzione. Ma ci siamo convinti, in base a una lunga serie di prove ed errori, che il servizio più utile a noi possibile sia di tipo indiretto. Per altri scrittori la situazione è diversa. Gettandosi valorosamente nella mischia, essi si servono delle loro capacità per svolgere un’urgente opera di propaganda, o perfino prendono le armi a sostegno della loro causa. Se ne sono in grado, e se la causa in cui s’impegnano è realmente parte della grande impresa di difendere (o creare) la civiltà, essi possono naturalmente fare un lavoro valido. In più, acquisiranno una variegata esperienza e riscuoteranno grande partecipazione, aumentando così la forza letteraria delle loro opere. Ma l’urgenza stessa del loro impegno li rende ciechi riguardo all’importanza di mantenere ed estendere, anche in questa epoca di crisi, ciò che si potrebbe metaforicamente definire la coscienza autocritica della specie umana, ossia il tentativo di vedere la nostra vita in relazione alla totalità del reale. Ciò implica la volontà di guardare tutte le vicende, le teorie e gli ideali della nostra specie liberandoci per quanto possibile dei nostri condizionamenti. Chi è più invischiato nella battaglia inevitabilmente tende, anche se per una grande e giusta causa, a diventare partigiano. Queste persone nobilmente rinunciano in parte a quel distacco, a quella capacità di freddo giudizio, che è, dopo tutto, una delle facoltà umane più preziose. Nel loro caso, forse, è così che deve essere; poiché una lotta disperata richiede meno distacco e più partecipazione. Ma altri, che pure hanno a cuore la stessa causa, possono servirla sforzandosi di mantenere, insieme alla lealtà, uno spirito più spassionato. E forse il tentativo di guardare questa nostra turbolenta terra in uno sfondo di stelle può farci comprendere di più, non meno, l’importanza dell’attuale crisi umana. Così come può forse rafforzare la carità che dobbiamo avere gli uni verso gli altri.

    In questa convinzione, ho tentato di abbozzare un quadro fantastico dell’universo, terrificante ma vitale. So bene che risulterà ridicolmente inadeguato e per certi versi infantile, anche se visto dalla prospettiva dell’uomo contemporaneo. In un’epoca più calma e più saggia, potrebbe certo sembrare una follia. Ma, nonostante la sua poca raffinatezza, e malgrado raffiguri un mondo lontano dal nostro, non sarà forse del tutto irrilevante.

    A rischio di attirarmi i fulmini sia della Destra sia della Sinistra, ho occasionalmente utilizzato certe idee ed espressioni derivate dalla religione, sforzandomi di interpretarle alla luce dei bisogni dell’uomo di oggi. Parole sempre valide, per quanto molto abusate, come spirituale e venerazione, che sono diventate oscene per la Sinistra quasi quanto le care vecchie espressioni a sfondo sessuale lo sono per la Destra, intendono qui suggerire un’esperienza che la Destra è portata a pervertire e la Sinistra a fraintendere. Un’esperienza, direi, che implica il distacco da tutti le questioni private, sociali e razziali; non perché porti l’uomo a rifiutarle, ma ad apprezzarle sotto una nuova luce. La vita spirituale sembra consistere, essenzialmente, nel tentativo di scoprire e adottare un atteggiamento che sia davvero adeguato alla totalità della nostra esperienza, esattamente così come l’ammirazione è appropriata a un essere umano armoniosamente sviluppato. Questa impresa può portare a una maggiore lucidità e a una più fine consapevolezza, esercitando così un profondo e benefico effetto sul comportamento. In effetti, se questa esperienza supremamente umanizzatrice non produce, insieme a una sorta di devozione nei confronti del fato, anche e soprattutto la risoluta decisione di servire il risveglio della nostra umanità, non è che un inganno e una trappola.

    Prima di concludere questa prefazione, devo esprimere la mia gratitudine al professor L. C. Martin, a L. H. Hyers e a E. V. Rieu, per le loro critiche estremamente utili e vicine al mio sentire, in seguito alle quali ho riscritto molti capitoli. Perfino ora, tuttavia, esito ad associare i loro nomi a un’opera così stravagante. Giudicata in base ai criteri comuni del romanzo, essa è senza dubbio mal riuscita. Ma di fatto, non si tratta di un romanzo.

    Alcune idee sui pianeti fantastici mi sono state suggerite dall’affascinante libretto Il Mondo, la Carne e il Diavolo di J. D. Bernal, che spero non disapprovi troppo il modo in cui le ho trattate.

    Infine devo ringraziare mia moglie, sia per il lavoro da lei svolto sulle bozze, sia per essere quella che è.

    Al termine del libro ho incluso una nota sulla Magnitudine, che potrà essere utile ai lettori digiuni d’astronomia. Altri potranno ricavare un certo divertimento dalle mie rozze e semplicistiche scale temporali.

    O.S.

    Marzo 1937

    I. La Terra

    1. La partenza

    Una notte in cui ero pieno d’amarezza uscii di casa e salii in cima a una collina. L’erica scura mi ostacolava il passo. Sotto di me marciavano i lampioni delle strade suburbane. Le finestre, con le tende tirate, erano occhi chiusi, rivolti interiormente sulla vita dei sogni. Oltre l’oscurità del mare un faro pulsava. In alto, l’oscurità. Distinguevo la nostra casa, la nostra minuscola isola tra le tumultuose e amare correnti del mondo. Là, per quindici anni, noi due, così intimamente diversi, eravamo cresciuti traendo l’uno dall’altro sostegno e nutrimento, in intricata simbiosi. Là progettavamo di giorno in giorno le nostre numerose iniziative, o rifacevamo il conto delle stranezze e vessazioni quotidiane. Là si accumulavano lettere in attesa di risposta e calzini da rammendare. Là erano nati i nostri figli, quelle improvvise vite nuove. Là, sotto quel tetto, le nostre due esistenze, talvolta recalcitranti tra loro, erano sempre (e di ciò dovevamo esser grati) una sola, più ampia, più cosciente di quanto ciascuna sarebbe stata senza l’altra.

    Tutto questo, certo, era bene. Tuttavia c’era dell’amarezza. E questa non c’invadeva soltanto dall’esterno; sgorgava anche dentro il nostro cerchio magico. Poiché era stato l’orrore per la nostra futilità, per la nostra irrealtà, e non soltanto il delirio del mondo, a condurmi fuori, in vetta alla collina.

    Non facevamo che affrettarci da un piccolo compito urgente all’altro, ma il risultato era inessenziale. Avevamo forse sbagliato tutta la nostra esistenza? Vivevamo su false premesse? E, in particolare, quella nostra unione, quel fulcro in apparenza così ben fondato della nostra attività nel mondo, non era dopo tutto che un piccolo mulinello di compiacente e incarnita domesticità, che vorticava sulla superficie del gran flusso, senza avere in sé nessuna profondità di essere, e nessun significato? Ci eravamo forse ingannati? Dietro quelle finestre assorte avevamo noi pure, come tanti altri, vissuto soltanto un sogno? In un mondo malato anche i sani sono preda della malattia. E noi due, che filavamo la nostra piccola esistenza per lo più meccanicamente, di rado con chiara cognizione, di rado con un saldo intento, eravamo i prodotti di un mondo malato.

    Eppure quella nostra vita non era tutta soltanto una sterile fantasia. Non era forse intessuta con le fibre concrete della realtà, raccolte con tutto quell’andirivieni dentro e fuori della nostra porta, tutti quei traffici con il sobborgo e la città e altre città più lontane, fino ai confini della terra? Non stavamo forse tessendo insieme un’espressione autentica della nostra natura? E dalla nostra vita non uscivano ogni giorno fili più o meno solidi d’esistenza attiva, che s’inserivano nella rete sempre crescente, nell’intricata, eternamente proliferante trama dell’umanità?

    Mi posi dunque a considerare noi due con un calmo interesse e una specie di divertito timore. Come descrivere anche a me stesso il nostro rapporto senza sminuirlo o insultarlo con gli orpelli del sentimentalismo? Poiché quel nostro delicato equilibrio di dipendenza e indipendenza, quel freddamente critico, sagacemente ironico, ma amoroso contatto era senza dubbio un microcosmo di comunità vera, un esempio vivente e concreto, pur nella sua semplicità, di quel fine superiore cui tutto il mondo mira.

    Tutto il mondo? Tutto l’universo? Sopra di me, la tenebra svelò una stella. Una tremula freccia di luce, scoccata chissà quante migliaia d’anni prima, ora penetrava nei miei nervi come visione e nel mio cuore come paura. Poiché, in un simile universo, che significato poteva avere la nostra fortuita, fragile, evanescente comunità?

    Ma allora irrazionalmente s’impadronì di me uno strano senso di venerazione, non certo per la stella, mera fornace, che soltanto la distanza falsamente santificava, bensì per qualcos’altro, che il tremendo contrasto fra la stella e noi significava al mio cuore. E tuttavia cosa, quale poteva essere il suo significato? L’intelletto, scrutando al di là dell’astro, non scopriva alcun Costruttore di Stelle, ma soltanto oscurità; nessun Amore, nemmeno alcun Potere, semplicemente il Nulla. E ciò nondimeno il cuore adorava.

    Con impazienza respinsi quella follia, tornando dall’imperscrutabile, al familiare e al concreto. Allontanata da me la venerazione, e la paura anche, e l’amarezza, decisi d’esaminare più freddamente quel rimarchevole noi, quel fatto sorprendentemente incisivo, che per il nostro essere restava un dato fondamentale dell’universo, sebbene in rapporto alle stelle sembrasse così poca cosa.

    Ma, anche considerati senza riferimento allo schiacciante sfondo cosmico, noi apparivamo insignificanti, forse ridicoli. Eravamo una realtà così comune, così banale e rispettabile. Semplicemente una coppia sposata, che si arrangiava a vivere insieme senza una tensione eccessiva. Nel nostro tempo, il matrimonio era sospetto. E la nostra unione, con la sua comunissima origine romantica, appariva doppiamente tale.

    Quando ci vedemmo per la prima volta, mia moglie era una bambina. I nostri occhi s’incontrarono. Lei mi osservò per un momento con calma attenzione; e anche, come immaginai nel mio romanticismo, con un oscuro, profondo riconoscimento. Io comunque riconobbi in quello sguardo (o almeno così mi persuasi nella febbre dell’adolescenza) il mio destino. Sì, quanto predestinata ci era parsa la nostra unione! Eppure adesso, retrospettivamente, quanto accidentale! Certo, come coppia sposata da molto tempo, ci adattavamo abbastanza precisamente l’uno all’altra, al modo di due alberi vicini i cui tronchi siano cresciuti insieme come un unico fusto, distorcendosi, ma anche sostenendosi a vicenda. Freddamente, ora stimavo la mia compagna una semplice aggiunta, utile, ma spesso irritante fino al furore, dala mia vita personale. Eravamo nell’insieme due compagni intelligenti. Ci lasciavamo l’un l’altro una certa libertà, e in tal modo riuscivamo a sopportare la nostra stretta vicinanza.

    Questo dunque era il nostro rapporto. Certo, così definito, non sembrava molto significativo per la comprensione dell’universo. Ma nel mio cuore io sapevo che lo era. Nemmeno le gelide stelle, nemmeno l’intero cosmo con le sue inani immensità riusciva a convincermi che quel nostro prezioso atomo di comunità, imperfetto com’era, di breve durata come doveva essere, non avesse significato.

    Ma poteva quell’indescrivibile unione di due individui avere un senso al di là di se stessa? Dimostrava, per esempio, che la natura essenziale dell’uomo è l’amore, invece che l’odio e la paura? Era una prova che tutti gli uomini e le donne del mondo, sebbene potessero esserne impediti dalle circostanze, erano in fondo capaci di sostenere una comunità mondiale, unita dall’amore? Di più, essendo tale unione un prodotto del cosmo, dimostrava che l’amore era fondamentale per il cosmo stesso? E, grazie alla sua eccellenza intrinseca, sentita dal cuore, dava qualche garanzia che noi due, suoi fragili sostegni, dovevamo in qualche senso avere una vita eterna? Provava, in effetti, che l’amore è Dio, e che Dio ci attende nel suo cielo?

    No! La nostra domestica, amichevole, esasperante, risibile, dimessa eppure preziosissima comunità di spirito non dimostrava nessuna di queste cose. Non era garanzia certa di nulla, se non della propria imperfetta validità. Non costituiva altro che una minutissima, brillantissima epitome di una fra le tante potenzialità dell’essere. Ricordai gli sciami di stelle cieche. Ricordai il tumulto d’odio, paura e amarezza che è il mondo dell’uomo. E pensai che ben presto avremmo dovuto svanire, come l’increspatura prodotta dalla brezza su un’acqua immobile.

    Di nuovo ebbi la percezione dello strano contrasto esistente fra noi e le stelle. La potenza incalcolabile del cosmo misteriosamente aumentava il valore della nostra fugace scintilla di comunità e della breve, incerta avventura dell’uomo. Mentre queste, a loro volta, animavano il cosmo.

    Mi sedetti sull’erica. Sopra di me, la tenebra era adesso in piena rotta e, alla sua retroguardia, la popolazione liberata del cielo balzava fuori dal suo nascondiglio, una stella dopo l’altra.

    Da ogni parte il mare invisibile, appena immaginato, e le colline dense d’ombre si stendevano a perdita d’occhio. Ma l’immaginazione, con le sue ali di falco, le seguiva via via che piegavano sotto la linea dell’orizzonte. Ebbi la percezione di trovarmi su un tondo granello di roccia e metallo, fasciato da una sottile pellicola d’acqua e atmosfera che girava tra il buio e la luce del sole. Sulla superficie di questo granello tutte le moltitudini degli uomini, generazione per generazione, avevano vissuto nella fatica e nella cecità, con qualche intervallo di gioia, qualche momento di lucidità spirituale. E la loro intensa storia, con i suoi deliri popolari, i suoi imperi, le sue filosofie, le sue scienze orgogliose, le sue rivoluzioni sociali, la sua crescente fame di comunità, non era che un attimo entro una giornata della vita delle stelle.

    Avessimo potuto sapere se tra quella moltitudine scintillante esistevano altri granelli di roccia e metallo abitati dallo spirito, se la zoppicante ricerca umana della saggezza e dell’amore era un unico insignificante brivido, o invece parte d’un movimento universale!

    2. La Terra fra le stelle

    Sopra di me l’oscurità era scomparsa. Da orizzonte a orizzonte il cielo era un’ininterrotta distesa di stelle. Due pianeti mi fissavano, senza ammiccare. Le costellazioni più appariscenti asserivano la loro individualità. I piedi e le spalle quadrate di Orione, con la cintura e la spada, l’Orsa Maggiore, la figura a ziz-zag di Cassiopea, le intime Pleiadi, tutte si disegnavano doverosamente sul nero. La Via Lattea, vago cerchio di luce, attraversava il cielo.

    L’immaginazione aggiunse quello che la semplice vista non poteva raggiungere. Abbassando gli occhi, mi parve di guardare attraverso un pianeta trasparente, attraverso l’erica, la solida roccia, i cimiteri sepolti di specie scomparse, giù, giù, oltre la colata di basalto fuso, fino al cuore di ferro della Terra; e poi di nuovo su, sebbene sembrasse ancora verso il basso, attraverso gli strati meridionali fino all’oceano e alle terre dell’emisfero opposto, oltre le radici degli alberi della gomma e i piedi dei capovolti abitanti degli antipodi, attraverso l’azzurro tendone dorato dal loro sole accecante, fuori, nella notte eterna, dove il sole e le stelle stanno insieme. Poiché là, a una vertiginosa distanza sotto di me, come pesci nella profondità d’un lago, c’erano le costellazioni inferiori. Le due volte del cielo si erano fuse in un’unica sfera, popolata di stelle, buia anche accanto al globo accecante del sole. La giovane Luna era una curva di filo incandescente. Il cerchio completo della Via Lattea circondava l’universo. In preda a una strana vertigine, cercai sicurezza nelle piccole finestre illuminate della nostra casa. Erano ancora là; e così l’intero sobborgo, e le colline. Ma le stelle risplendevano attraverso ogni cosa. Era come se tutte le cose terrestri fossero fatte di vetro, o di una più limpida, più eterea vitreosità. Debolmente la campana della chiesa suonò la mezzanotte. Lievemente, arretrando, echeggiò il primo rintocco.

    La mia immaginazione venne allora stimolata a una nuova, strana forma di percezione. Guardando da stella a stella, non vedevo più il cielo come un soffitto e un pavimento incastonati di gioielli, ma come profondità dietro le profondità risplendenti di soli. E sebbene per lo più le grandi e familiari luci del cielo fossero lì davanti come i nostri vicini più prossimi, certi astri brillanti apparivano in realtà lontani e potenti, mentre alcune deboli lampade erano visibili unicamente perché così vicine. Da ogni parte, la media distanza era affollata da sciami e correnti di stelle. Ma anche queste adesso apparivano vicine; perché la Via Lattea era arretrata a una profondità incomparabilmente maggiore. E attraverso squarci nelle sue parti meno remote si susseguivano panorami dietro panorami di nebbie luminose, e profonde prospettive di popolazioni stellari.

    L’universo in cui il fato mi aveva posto non era una camera piena di lustrini, ma un vortice percepibile di flussi stellari. No! Era di più. Poiché scrutando fra una stella e l’altra, nell’oscurità più remota, vedevo anche, come semplici chiazze e punti di luce, altri vortici simili, altre galassie sparse nel vuoto, sempre più in profondità, così lontane che perfino gli occhi dell’immaginazione non potevano trovare confini a quella cosmica galassia di galassie, che abbracciava tutto. L’universo mi appariva ora come un vuoto in cui fluttuavano radi fiocchi di neve, ognuno dei quali era un universo.

    Fissando i più deboli e remoti fra quegli sciami d’universi, mi parve, per immaginazione ipertelescopica, di vedere una popolazione di soli; e accanto a questi soli un pianeta, e sulla parte oscura di quel pianeta un colle, e su quel colle io stesso. Perché i nostri astronomi ci assicurano che nella sconfinata finitudine da noi chiamata cosmo le linee rette della luce non portano all’infinito, ma alla loro stessa origine. Quindi mi sovvenne che se la mia visione fosse dipesa dalla luce reale, invece che da quella dell’immaginazione, i raggi che così mi raggiungevano girando intorno al cosmo avrebbero rivelato non me stesso, ma eventi che si erano conclusi assai prima che la Terra, e forse perfino il Sole, si fossero formati.

    Ma ora, volendo nuovamente sottrarmi a quelle immensità, cercai di nuovo le finestre velate della nostra casa, che, sebbene trapassata dalle stelle, restava ancora più reale per me di tutte le galassie. Ma la nostra casa era svanita, e con essa il sobborgo, le colline e il mare. Il suolo stesso su cui stavo seduto non esisteva più. C’era, invece, molto al di sotto di me, un insostanziale chiarore. E io stesso sembravo privo di corpo, perché non potevo vedere né toccare la mia carne. Quando volli muovere le braccia e le gambe, non accadde nulla. Non avevo arti. Le familiari percezioni interne del mio corpo, e l’emicrania che mi aveva oppresso fin dal mattino, avevano ceduto il passo a un vago senso di leggerezza e euforia.

    Quando mi resi conto appieno del mutamento avvenuto in me, mi domandai se non fossi morto e non stessi entrando in un’esistenza nuova e del tutto inattesa. Una possibilità così banale sulle prime mi esasperò. Poi, con improvviso sgomento, capii che se quella era davvero la morte non sarei più tornato al mio prezioso, concreto atomo di comunità. La violenza della mia angoscia mi sconvolse. Ma ben presto mi confortai al pensiero che dopo tutto probabilmente non ero morto, ma in una specie di trance, da cui potevo svegliarmi da un momento all’altro. Mi risolsi, dunque, di non allarmarmi indebitamente per quel misterioso cambiamento. Con interesse scientifico avrei osservato tutto quello che mi sarebbe accaduto.

    Notai come l’oscurità che aveva preso il posto del suolo si stesse restringendo e condensando. Oltre quell’oscurità, le stelle più basse non si vedevano più. Ben presto la terra sotto di me divenne come un’enorme massiccia tavola circolare, un largo disco di tenebra circondato di stelle. Apparentemente, stavo sfrecciando via dal mio pianeta nativo a incredibile velocità. Il Sole, prima visibile all’immaginazione nella parte più bassa del cielo, era di nuovo materialmente eclissato dalla Terra. Ormai dovevo trovarmi a centinaia di miglia dal suolo, eppure l’assenza d’ossigeno e di pressione atmosferica non mi disturbava. Provavo solo una crescente eccitazione e una deliziosa effervescenza nella mente. Lo straordinario splendore delle stelle mi esaltava. Forse perché non c’era aria a oscurarne la vista, o perché i miei sensi erano più acuti, o per entrambi questi motivi, il firmamento aveva assunto un aspetto inconsueto. Ogni astro pareva infuocato, con una magnitudine più alta. I cieli sfavillavano. Gli astri più grandi sembravano fari di un’automobile lontana. La Via Lattea, non più lambita d’oscurità, era un rotondo, granulare fiume di luce.

    In quel momento, lungo l’orlo esterno del pianeta, ora molto al di sotto di me, apparve una debole linea luminosa; la quale, mentre mi libravo, si scaldava qua e là di rosso e arancione. Evidentemente viaggiavo non solo verso l’alto, ma anche verso oriente, compiendo una parabola in direzione del giorno. Ben presto il sole tornò in vista, divorando con il suo splendore la grande falce crescente dell’alba. Ma, poiché aumentavo di velocità, il sole e il pianeta scivolavano di lato, mentre il filo dell’alba s’ispessiva in una confusa fascia di luce. Questa aumentò, come una luna visibilmente crescente, finché metà del pianeta fu illuminata. Tra le aree del giorno e della notte una cintura d’ombra, di colore caldo, grande come un sub-continente, segnava ora la zona dell’alba. Mentre continuavo a innalzarmi e a viaggiare verso oriente, vidi le terre scivolare a ovest assieme al giorno, finché fui sul Pacifico e in pieno mezzogiorno. Ora la Terra appariva come un enorme globo luminoso, centinaia di volte più grande della luna piena. Al suo centro, un’abbagliante chiazza di luce era l’immagine del sole riflesso nell’oceano. La circonferenza del pianeta appariva come un’area indefinita di nebbia luminosa, che a poco a poco svaniva nell’oscurità circostante. Gran parte dell’emisfero settentrionale, un po’ inclinato verso di me, appariva come una distesa di nuvole e neve. Riuscii a individuare parte dei contorni del Giappone e della Cina, con i loro vaghi bruni e verdi che si frastagliavano tra i verdi e gli azzurri dell’oceano. Verso l’equatore, dove l’aria era più limpida, il mare s’incupiva. Un piccolo turbine di nubi risplendenti era forse la faccia superiore di un uragano. Le Filippine e la Nuova Guinea si distinguevano con precisione, come su una mappa. L’Australia invece svaniva nel nebbioso orlo meridionale.

    Lo spettacolo davanti a me era stranamente commovente. L’ansia personale era soffocata dalla meraviglia e dall’ammirazione; poiché la bellezza del nostro pianeta mi riempiva di stupore. Era un’enorme perla, disposta su uno sfondo d’ebano disseminato di minuscoli diamanti. Era un globo madreperlaceo, un opale. Anzi, era molto più mirabile di qualunque pietra preziosa. I suoi variegati colori erano più delicati, più eterei. Avevano la dolcezza e lo splendore, la complessità e l’armonia di una cosa viva. Strano che nella mia lontananza io sembrassi sentire con un’intensità senza eguali la presenza vitale della Terra, come una creatura viva ma immersa in una trance, che ardentemente desiderasse risvegliarsi.

    Riflettei che non uno fra i tratti visibili di quella gemma celeste e vivente rivelava la presenza dell’uomo. Distesi davanti a me, sebbene invisibili, c’erano alcuni dei centri più congestionati della popolazione umana. Laggiù, immense regioni industriali annerivano l’aria con il loro fumo. Eppure tutto quell’accalcarsi di vite e d’imprese umanamente importanti non aveva lasciato segno sulla faccia del pianeta. Da quell’alto punto di vista, la Terra non sarebbe apparsa diversa prima dell’alba dell’uomo. Nessun angelo in visita, nessun esploratore da un altro pianeta avrebbe potuto supporre che quel blando globo brulicasse di parassiti, di bestie dominatrici, auto-torturatrici, incipientemente angeliche.

    II. Il viaggio interstellare

    Mentre così contemplavo il mio pianeta natale, continuavo a librarmi attraverso lo spazio. La Terra rimpiccioliva a vista d’occhio e, via via che procedevo verso oriente, sembrava ruotare sotto di me. Tutti i suoi tratti giravano verso ovest, finché sull’orlo orientale apparvero il tramonto e il centro-Atlantico, e poi la notte. In quelli che mi parvero pochi minuti, il pianeta era diventato un’immensa mezzaluna. E ben presto fu una confusa falce calante, vicino a quella minuscola e nitida del suo satellite.

    Con sbalordimento mi resi conto che dovevo viaggiare a una velocità fantastica, impossibile. Così rapido era il mio corso, che mi sembrava di passare attraverso una grandinata costante di meteore. Queste restavano invisibili finché non le avevo quasi al fianco perché, brillando soltanto di luce riflessa del sole, apparivano per un unico istante come vividi raggi, come lampioni visti da un treno espresso. Con molte mi scontrai frontalmente, ma non provai nessuna sensazione. Un enorme e irregolare blocco di roccia, grande come una casa, mi terrificò alquanto. La massa illuminata si gonfiò davanti al mio sguardo, mostrò per una frazione di secondo una superficie scabra e increspata, poi mi fagocitò. O meglio, immagino che debba avermi fagocitato; ma così rapido fu il mio passaggio che l’avevo appena vista a media distanza e già me la stavo lasciando alle spalle.

    Prestissimo la Terra fu soltanto una stella. Dico prestissimo, ma il mio senso del tempo era molto confuso. I minuti e le ore, forse anche i giorni e le settimane, erano indistinguibili.

    Mentre stavo ancora tentando di riprendermi,

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