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In terra straniera
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E-book77 pagine46 minuti

In terra straniera

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Info su questo ebook


Come una maledizione, la ferita di non essere stato amato, neppure da colei che lo ha messo al mondo portandolo in grembo, segnerà il modo di rapportarsi agli altri, alla ricerca di continue conferme ma con la convinzione sottostante che qualunque cosa egli faccia non sarà mai amato come avrebbe bisogno. Chi non è stato amato di quell’amore gratuito ed incondizionato finirà col credere di non essere amabile, che in fondo ci sia qualcosa dentro di sé, o inscritto nel proprio destino, che faccia in modo che gli altri non lo amino. 
Ciò che accomuna questi individui è la carica d’amore immenso per la quale essi sono capaci di amare gli altri senza remore: avendo sperimentato il non-amore desiderano, invece, donarlo agli altri; hanno sviluppato una forte empatia e desiderano che nessun altro possa sperimentare quello che loro stessi hanno sperimentato, quasi a voler ripagare se stessi in forma indiretta. (dott. Leonardo Paoletta)
 
LinguaItaliano
Data di uscita14 mag 2019
ISBN9788834111628
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    Anteprima del libro

    In terra straniera - Nicola Ferrari

    Nicola Ferrari

    In terra straniera

    Copertina: disegno automatico realizzato dall’autore in un corso di Arte Terapia.

    UUID: ece26476-6dca-11e9-a668-bb9721ed696d

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    Prima parte

    VINCENT 1

    VARIAZIONI GOLDBERG

    GUARIRE

    GLENN GOULD

    TROLLFJORD

    TROLLFJORD 2

    TROLLFJORD 3

    VINCENT 2

    LA PAROLA

    VINCENT 3

    IL BAULE E UN ABITO BIANCO

    VINCENT 4

    POTENZA VISIONARIA A DIMENSIONE SPIRITUALE

    HO PAURA

    EPPURE LO SO

    Seconda parte

    FENOMENI PASSIVI DELLA COSCIENZA E ALTRE AVVENTURE

    RICCIO

    POSTFAZIONE

    Note

    La ferita che il non amore ci ha inferto

    è il ventre dal quale veniamo generati

    molte volte.

    Peter Schellenbaum

    Sono in attesa.

    Parlami. 

    Prima parte

    VINCENT 1

    È bastato un attimo.

    Un solo bastardo attimo.

    Davanti al quadro ‘Campo di grano sotto un cielo nuvoloso’ di Vincent Van Gogh, ho pensato di mollare tutto: cambiare vita, costi quel che costi.

    Che altro posso fare - mi dico - che valga la pena di essere vissuto? Vincent ha esaurito tutte le possibilità umane, è andato oltre, ha guardato cosa c’è e adesso me lo racconta.

    Ha capito tutto, ha vissuto tutto e mi sta urlando di scegliere l’essenziale; ma niente della mia vita è essenziale, decisivo, valido.

    Vivo un pungente senso di fallimento a tutto campo: il lavoro non va, gli affetti sono un disastro, l’impegno nel sociale una frustrazione.

    La testa gira come se fossi su una giostra, lo stomaco si blocca, la bocca è spaventosamente arsa.

    Tremo e sudo, sono immediatamente sfinito, non ho una briciola d’energia.

    Vincent mi sta chiamando a sé, m’illumina e così facendo mi annichilisce.

    Distolgo lo sguardo dal quadro che si posa su un suo autoritratto.

    L’ha fatto per me: quel quadro l’ha fatto per me, per aiutarmi a capire ciò che davvero vale la pena essere vissuto.

    Vorrei appoggiare la mia fronte sulla sua, parlargli e ascoltarlo tutto il pomeriggio; un solo attimo di lucidità mi tiene lontano dal quadro: l’allarme non scatta ma singhiozzo, Dio come singhiozzo.

    Immagini rapidissime mi attraversano la mente: mia mamma nel suo capezzale, gli amori perduti, il primo giorno di scuola da insegnante, l’associazione di volontariato.

    Perché non siamo già tutti morti, perché il mondo non è morto? È là la vera vita, che bisogno c’è di penare così tanto quaggiù? Se fossimo morti saremmo per sempre definitivi, stabili, sereni.

    C’è una strana calca attorno a me, non riesco a capire chiaramente il motivo: sto forse piangendo troppo forte? Chissà, forse qualcuno mi ha detto una frase gentile in olandese, tipo ‘Ha bisogno d’aiuto? Si sente bene?’ ma non mi ricordo esattamente, potrei confonderlo con un altro episodio. E non so neanche se è stato in quel museo che ho risposto: ‘No che non sto bene, bastardo figlio di puttana. Come si fa a stare bene? Ma non ce li hai gli occhi per vedere? Non capisci proprio niente tu della vita, vegetale.’

    Ho avuto paura.

    Paura di non farcela, di non ritornare più, anche se vincoli terreni mi avrebbero comunque costretto a restare quaggiù.

    Mi sono seduto su una provvidenziale sedia e ricordo di aver pensato intensamente che a qualche centinaio di chilometri più a sud qualcuno mi stava aspettando: non si può far attendere chi ti aspetta, dicevo tra me e me.

    E poi volevo tornare per raccontare tutto: i canali di Amsterdam, il concerto di Bach, il quartiere a luci rosse, il Rijsksmuseum.

    Cosa avrei detto invece: Sai, per un attimo ho pensato di farla finita. Ma è stato solo un attimo, non ti preoccupare. Se si dice, non si fa, è chiaro no?

    Non so cosa mi ha riportato quaggiù; ricordo una tazza gigantesca di schifoso caffè bollente e una strana brioche.

    Non ci vorrei giurare ma qualcuno me l’aveva offerta.

    Trovarsi in un altro.

    È questa la costante che accompagna tutte queste

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