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Uno che dove va non ritorna
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E-book231 pagine3 ore

Uno che dove va non ritorna

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Info su questo ebook

Poulson non sa mai  prevedere quale piega prenderanno gli eventi, i giorni scorrono senza ancora e gli incontri passano senza lasciare traccia. Grazie a un bambino, cui farà da padre, troverà la sua via di fuga.
Dello stesso autore: Con l’anima ai denti, I fiori di Tel Aviv.
LinguaItaliano
Data di uscita29 dic 2017
ISBN9788827542750
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    Anteprima del libro

    Uno che dove va non ritorna - Mario Di Desidero

    Mario Di Desidero

    Uno che dove va non ritorna

    UUID: ec860b86-730c-11e8-a144-17532927e555

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    I

    II

    III

    IV

    V

    VI

    VII

    VIII

    IX

    X

    XI

    XII

    XIII

    XIV

    XV

    XVI

    XVII

    XVIII

    XIX

    XX

    XXI

    XXII

    XXIII

    XXIV

    XXV

    XXVI

    XXVII

    XXVIII

    XXIX

    XXX

    XXXI

    XXXII

    XXXIII

    XXXIV

    XXXV

    XXXVI

    XXXVII

    XXXVIII

    XXXIX

    XL

    XLI

    XLII

    XLIII

    XLIV

    XLV

    XLVI

    XLVII

    XLVIII

    XLIX

    L

    LI

    LII

    Proprietà letteraria riservata dell’autore.

    ISBN 9788827542750

    Seconda edizione: 29 dicembre 2017

    Dello stesso autore: Con l’anima ai denti.

    In copertina foto di Georg Brintrup.

    I

    La bara è al centro della stanza. Intorno, orpelli vari: lampade votive, un arazzo con Gesù che risorge, un tappeto logoro e impolverato, un broccato di colore bordò, sistemato alla meno peggio sotto il feretro, il libro per le firme, senza firme. Le pareti sono di un bianco immacolato, ma il pavimento è grigio per lo sporco. Due panchine nere, oltre alle quattro pareti candide e al pavimento zozzo, è quanto messo a disposizione dall’ospedale per l’estremo saluto. Gli orpelli, invece, sono opera dell’agenzia funebre, li chiedono e quelli glieli danno.

    Mi guardo intorno: cerco qualcosa su cui arenare gli occhi e la mente. Poco dopo trovo, e, manco a dirlo, la mia secca è proprio il defunto. Vorrei domandargli: secondo te, che nasciamo a fare se dobbiamo morire?

    È un quesito che non ha risposta, lo so. Né io sono uno capace di perdersi dentro i dilemmi dell’uomo. E poi, a volerlo, non ho il tempo di invischiarmi. Ho da affidargli un altro enigma, più ovvio ma più impellente. E cioè: quando toccherà a noialtri?

    Lo tocco, anzi, lo sfioro, e mi segno, anche se sono ateo. Lo sono, però, da poco e perciò ignoro come si comporta un ateo in queste circostanze. Non è facile diventare dei senzadio a quaranta anni: è come programmarsi daccapo, e gettare via i santini non è che un piccolo inizio.

    Vorrei andare via, ma forse non mi sono fermato abbastanza. Meglio resti ancora, il tempo di dare sfogo a una terza meditazione, ahimè, di un livello non troppo superiore alle precedenti: sei l’unico che ha motivo di essere triste, perché non vedrai più la luce del sole.

    Meno male che non possono sentirmi. Grande dono della natura è poter scegliere le cose da dire e quelle da tacere.

    Sento di essere sulla soglia di un quarto, nobile aforisma, ma vengo distratto dal brusio intorno a me.

    Sulle panchine sono sedute quattro donne di mezza età, tra loro c’è la vedova. Fuori dall’obitorio stazionano indolenti altri visitatori, parlano del più e del meno e nemmeno a voce bassa. Ogni tanto sopraggiunge una parente o un amico, che tra i singhiozzi abbraccia la vedova:

    – Oddio, che disgrazia, com’è possibile, all’improvviso!

    Che follia! Era anziano e malato da tempo. La sua morte era più che scritta e l’unica circostanza di cui essere sorpresi è proprio che sia vissuto fino a ieri. Eppure, ognuno fa quella domanda con le stesse parole. E lei – che voglia! – a ciascuno racconta degli ultimi giorni, dell’aggravamento, dell’ambulanza, del ricovero, delle frasi dei dottori, eccetera eccetera.

    Una delle donne, approfittando dell’assenza di estranei, a parte me, insorge:

    – E basta, mo arriva uno, mo un altro, com’è successo e come non è successo, e a ‘sta poveretta tocca rispondere, sempre con la stessa canzone. Diciamo ora un rosario, come si faceva anticamente, così o recitano l’Ave Maria o stanno zitti, e la smettono di avvilire questa cristiana.

    Quindi, con tono di sfida si rivolge alla vicina:

    – O Sabia, tu lo sai dire il rosario?

    Sabia non appare convinta, però non si sottrae.

    – Se non c’è un altro…

    – I misteri li sai?

    – Be’, abbastanza, perché, tu no?

    – Non me li sono mai imparati, non ci ho avuto pazienza.

    Inizia la preghiera. La solista esordisce col primo dei misteri dolorosi, ma la vedova, tra le lacrime, la interrompe.

    – Macché! Oggi è sabato, devi dire i gaudiosi, anzi no, i gloriosi, i dolorosi si dicono di venerdì.

    Sabia è mortificata, è troppo timida per il ruolo che le è stato imposto. Tuttavia riprova, sebbene più incerta, e a voce bassa:

    – Nel primo mistero glorioso si contempla l’ascensione di Gesù in cielo.

    Il coro attacca con il Padre nostro. La vedova si gira ancora una volta, inquieta: ha il dubbio, fondato, che quello sia il secondo e non il primo mistero. Però non interrompe, preferisce arrendersi.

    Arriva il turno del secondo mistero. Sabia confessa con un filo di voce:

    – Non lo so qual è il secondo mistero.

    Nessuno le corre in soccorso. Silenzio. Finché la sua persecutrice la rassicura:

    – Fa niente, vale lo stesso, vale l’intenzione, – e il coro, rassicurato, riavvia il Padre nostro.

    Soppraggiunge, intanto, una parente piuttosto anziana. E’ vestita di giallo e ha dei modi sicuri. Si siede e si associa alla preghiera.

    Quando si accorge che il terzo mistero non viene annunciato, protesta:

    – O mare mio! Ma che è ?! Dite il rosario senza i misteri? E che rosario è un rosario senza misteri?

    Si stringono nelle spalle e Sabia confessa:

    – Non li sappiamo.

    – O mare mio! Come va il mondo? Dite il rosario senza i misteri?

    Quella che ha ispirato la preghiera reagisce, è una che non incassa, si vede.

    – Eh, eh, zietta, perché, tu li sai?

    – Io? Io no. A memoria, non li so, ma porto il libretto nella borsa, quando mi serve, li leggo.

    Tira fuori il libretto. Lo apre e, dopo aver gettato un’occhiataccia in giro, da sopra gli occhiali, si informa:

    – Che si deve annunciare, il terzo?

    E le altre in coro:

    – Sì, il terzo.

    L’anziana prende a declamare:

    – Nel terzo mistero glorioso si contempla l’assunzione…

    La donna che le è seduta accanto, e che legge altrettanto curiosa nel libretto, la interrompe:

    – Oh, zia! Stai leggendo il quarto mica il terzo!

    – Ah, mare mio! Mi sa proprio che sto a diventare vecchia!

    Finalmente, il terzo mistero viene annunciato e il rosario può proseguire.

    Sono in cinque a recitarlo e tutte e cinque pregano, agitando ampi ventagli variopinti. Il movimento è uguale, stesso ritmo, stesso regale e impassibile atteggiamento. Una danza. E comunque, lo stratagemma funziona; ora il silenzio regna sovrano e chi arriva per visitare la salma si limita a sussurrare alla vedova qualche parola appena. Vorrei restare ad ascoltarle. E’ una scena degna di essere inclusa tra i beni patrimonio dell’umanità.

    Per la seconda volta implorano:

    – E donaci santi sacerdoti e sante famiglie cristiane!

    Stavolta non riesco a trattenere un sorriso.

    Se ne accorgono, ma posso farci nulla.

    Mi segno e vado via.

    II

    È sera.

    Per casa risuonano le canzoni di Astrud Gilberto.

    Sono solo, e la mia cena è una mela, per via della dieta. Faccio sempre le diete. Vivo in uno stato di dieta perenne. Del resto, il cibo è ormai veleno.

    La mela è verde, aspra, di quelle che chiamano per i diabetici. Chissà da dove sono sbucate queste mele. Ho il dubbio che siano geneticamente modificate, perché quando ero bambino e fino all’età di venti anni, più o meno, non le ho mai viste in giro. Poi, di colpo, sono apparse sugli scaffali dei supermercati. Tuttavia, anche se le avranno concepite in un laboratorio, sono le mie preferite, amo la frutta dal gusto acre. Ciò non toglie che di questa vicenda dei prodotti della terra, cui manomettono il patrimonio genetico, non si capisce granché o, perlomeno, io non conosco bene i termini della questione. Dicono che è una invenzione delle multinazionali per sfruttare i paesi in via di sviluppo. Se fosse così, dovrei astenermi dall’acquistarle. Sì, è deciso, queste sono le ultime…e se sono sempre esistite? Tocca cercare sulla rete e, all’esito, scegliere: se proprio devo rinunciare, sarà meglio farlo dopo avere approfondito.

    Accidenti, come sono messo! Sulla maggior parte delle questioni non ho un’opinione precisa. E’ vero che uno non può avere una posizione su tutto, diventerebbe matto. E però, non va nemmeno bene ritrovarsi, a quarant’anni, sguarnito di fronte alla morte. Se ripenso a oggi pomeriggio, davanti alla salma, meno male che quelle mezze matte mi hanno distolto, sennò chi mi fermava con quelle idiozie che mi venivano in mente. Per carità, cose vere e sagge, ma se messe di fronte, che so, a Platone, che imbarazzo! Certo, sono consapevole di non essere intelligente come Platone, ma mi accontenterei di formulare almeno una riflessione assennata, una sola, intorno a colei che ogni piacere distrugge e ogni compagnia separa. In realtà, stringi stringi, la mia unica idea in materia, sono costretto a riconoscerlo, è che non voglio morire. Che non ho nessunissima intenzione di morire.

    Ecco, lo sapevo, subito mi sale il fuoco alle tempie. C’è un modo per ripetersi di non voler morire senza evocare i tumori? Ho diverse cose che non vanno: spesso mi fa male la testa, potrebbe essere la pressione o la cervicale, ma mai dire mai. Certi giorni ho la pancia gonfia e chissà se l’intestino è a posto. C’è un neo che è cresciuto, su un braccio, e ho uno strano dolore alla caviglia. In una settimana mi hanno raccontato di tre persone che hanno scoperto di avere un cancro: stavano in salute, poi, da un giorno all’altro…uno al cervello, uno all’avambraccio, uno alle corde vocali, una mattanza. Sandra, che fa ricerca oncologica da venti anni, sostiene che presto o tardi si troverà una medicina contro questa dannazione. Spero abbia ragione. Nel frattempo, cerco di donare quanto più posso alla ricerca. Mi dà sollievo, è come se assumessi un farmaco per la prevenzione.

    In realtà, devo calmarmi. A sedici anni lessi due volte di seguito Il male oscuro di Giuseppe Berto e a suo modo fu terapeutico. Per qualche anno smisi addirittura di temere di essere malato o di somatizzare le malattie di cui mi raccontavano. Forse dovrei rileggerlo.

    E comunque, per il momento, l’angoscia da tumore si è fatta troppo forte. Meglio mettere a posto la cucina. Pulire e riordinare è per me un antidepressivo efficace. Mi sterilizza ogni inquietudine. Di recente, poi, mi hanno suggerito un antidoto ancora più vigoroso: lavare i piatti a mano. Non mi capita mai, per via della lavastoviglie. Mi hanno però consigliato di provare, pare sia più salutare dello yoga: il movimento rotatorio e costante della mano, l’acqua che scorre, il profumo del detersivo, la sensazione di fresco e di pulito. Applicarsi con metodo, giorno dopo giorno, agli stessi orari, pare aiuti a purificare lo spirito e ad acquistare tranquillità.

    Perciò, ora insapono e risciacquo, anche se non c’è molto. Pazienza, la seduta questa sera sarà poco curativa.

    Astrud Gilberto sta cantando uno dei miei brani preferiti, quello che dice: never trust your dream when you are about to fall in love or you will quickly see your dream fall apart. Due candele rischiarano appena la stanza, mmmhhh, che atmosfera, quasi quasi, due o tre passi di danza al ritmo di bossa nova è quello che ci vuole davvero!

    III

    È domenica mattina.

    Sono le nove e giaccio a letto. Sto valutando se andare al mare. In più, mi interrogo su questioni di politica, se, cioè, è giusto che la Turchia entri nell’Unione e se mai esisterà comunismo senza dittatura.

    Penso troppo, mi sa. E spesso a vuoto. Dovrei imparare a de-pensare. Riflettere equivale a documentarsi, ascoltare, confrontare, discutere, meditare…e così all’infinito! Secondo me, uno meno rimugina e meno gli viene da frugare, e ha più tempo a disposizione per occuparsi d’altro. Devo perciò guarire dal pensare. Basta con questa pretesa di avere sempre idee esatte. Nemmeno so se più tardi andrò al mare!

    Sì, fermerò la mente, dopo l’ultimo sforzo, svelare il mistero della morte.

    Il punto di partenza è che prima o poi avrò consumato i giorni a mia disposizione e la festa si concluderà con un funeralaccio. L’unico beneficio della morte è che ci proibisce di assistere alle nostre esequie, esecrabile sovrastruttura. Bah, come partenza non è granché.

    Meglio andare al mare ché si fa tardi: finché è concesso, meglio approfittarne. Fra un po’ sarà di nuovo inverno e avrò una sovrastruttura di freddo per sei mesi.

    Epperò, a cantarmi prima l’ Internazionale non rinuncio.

    IV

    Il lunedì è già di suo un giorno infausto, quando poi coincide col rientro dalle ferie, assurge a tragedia. Languo moribondo. Questo chiodo fisso della morte, l’addio alle vacanze e il cruccio del lavoro mi hanno ridotto allo stremo. Neanche per una montagna di oro, grande come la Majella, mi alzerei dal letto. Che dico, per tanto oro lo farei e come.

    Charlotte Brontë ha scritto riflessioni più nobili sul primo giorno della settimana. Si trovano nella prima pagina di Shirley: qualcosa di vero, freddo, duro è davanti a te, qualcosa di affatto romantico come il lunedì mattina, quando quelli che hanno bisogno di lavorare si svegliano, consapevoli che devono alzarsi e andare. Non avevo compiuto diciotto anni quando ho tradotto e imparato queste righe a memoria, e non le ho più dimenticate. Da allora, il lunedì mattina me le ripeto, come una sorta di de profundis.

    Ricordo quando ho visitato la casa delle Brontë, a Haworth, nello Yorkshire. Cielo nero, vento a raffiche, pioggia sottile che sferzava il viso. Solo da lì potevano uscire quelle tre, e i loro romanzi. Quante volte avrò letto Cime tempestose da ragazzo? Tre, quattro, chi se lo ricorda più. L’inglese era duro, avrò cercato sul dizionario centinaia di parole e di ciascuna, a fianco, a matita, avevo annotato la traduzione. Con più devozione di quanta se ne riserva a una reliquia, custodisco quella vecchia edizione dei Penguin Books, acquistata a Londra, di seconda mano, in un negozietto di Charing Cross. Era già malmessa e io l’ho ridotta a poco più di un manoscritto di un glossatore medievale, spaginata, piena di note.

    Che libro incredibile. Wuthering Heights Quanto ho desiderato, a quei tempi, di diventare come Heathcliff, di avere il dieci per cento della sua forza e del suo temperamento. Avevo addirittura messo a punto un esercizio per accelerare il processo di uniformazione al mio mito. Davanti a uno specchio emulavo Cathrine Earnshaw, pronunciando una sorta di formula magica: io sono in Heathcliff e Heathcliff è in me.

    Oggi, invece, sarà perché sono ancora ostaggio del funerale dell’altro ieri, mi viene naturale affermare che la suggestione più potente di quel romanzo non è Heathcliff, ma l’idea che i morti sono in mezzo ai vivi. È una formidabile intuizione quella di vedere noi stessi come un fuoco che la morte non spegne…un momento! Intravvedo qualcosa di interessante: l’uomo è immortale perché il flusso di energia che origina dalla sua mente non si arresta con la morte del corpo!

    Devo alzarmi per sviluppare questa straordinaria ipotesi, mica si riflette a letto di certe cose. Però, se mi alzo, finisco al lavoro. No, no, meglio me ne resti qui.

    Quanto ho dormito! È l’una. Tuttavia, l’attacco acuto di pigrizia non mi abbandona.

    Scorgo davanti a me tre volti. Mia madre che grida:

    – Pigrizia e povertà si danno la mano.

    Mio padre che ironizza:

    – A chi gli piace il letto l’ospedale l’aspetta.

    Mia nonna che profetizza:

    – Ricordati che dormirai in eterno.

    Saranno proverbi, ma alla fine tutti e tre gli argomenti mi suonano convincenti, specie il terzo. Perciò mi alzo. E non per lavorare. L’estate sta per spirare, i sei mesi di sovrastruttura di freddo incombono e la spiaggia chiama.

    V

    Le nove di martedì mattina. Sono seduto dietro la

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