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E-book215 pagine3 ore

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Info su questo ebook

SCHIAVI
Le storie di Felix e Peter sono uguali a quelle di altri mille ragazzi: un’infanzia con pochi ricordi felici, l’incontro con la violenza feroce di chi da sempre si approfitta della disperazione altrui, il sogno di fuggire per ricominciare daccapo in un paese diverso. Sono storie che possiamo solo immaginare perché appartengono a un mondo che non è il nostro, fatto di miseria e violenza. Sono le stesse storie di chi sfida la morte attraversando il mare in cerca di un domani, storie che leggiamo fra le righe di un quotidiano e che raccontano l’ennesimo naufragio, l’ennesima strage. 
Felix è solo un bambino quando perde suo padre per sempre. Peter, invece, suo padre lo conosce appena: è un uomo duro e violento, incattivito dalla vita militare al servizio di Boko Haram. Entrambi subiscono continue violenze e umiliazioni, entrambi vorrebbero che la tenerezza delle proprie madri li proteggesse. Ma per chi come loro nasce sotto i cieli infiniti e roventi del Camerun o del Sudan, la serenità sembra solo un miraggio lontano. Tutto intorno a loro è pericolo, fame, povertà. 
Che si tratti di una nazione stabile dove gli spettri della dittatura si nascondono nel buio delle strade o di un paese lacerato dai conflitti religiosi in cui non c’è spazio per chi ha una fede diversa, l’Africa è ancora la terra madre di tanto dolore. Le grandi distanze che separano le città di Felix e Peter sembrano non avere significato: il dolore che vive uno è familiare anche all’altro e la rabbia per i soprusi subiti asciuga le lacrime di entrambi. 
Felix e Peter sognano l’Europa, quell’Europa dove si vive e si lavora onestamente, dove c’è sempre da mangiare e dove nessun poliziotto si sognerebbe mai di chiudere gli occhi davanti a un bambino massacrato di botte da un familiare. Quell’Europa dove la parola “schiavo” si legge solo sui libri di storia. Senza conoscersi e senza saperlo, Felix e Peter iniziano il loro viaggio in parallelo, alla ricerca della vita che sognano, un viaggio fatto di città sconosciute, periferie immense, lavori umili e dolorose delusioni. 
Il costo della felicità è alto: bisogna rinunciare all’orgoglio, alla paura e persino all’amore. Ma quando non si possiede niente, i sogni diventano l’unico tesoro da difendere. Questa non è solo la storia di Felix e Peter. È la storia di chi lascia il proprio cuore in una casa vuota per intraprendere un viaggio spaventoso e necessario come solo la vita sa essere.


L'AUTORE
Nato a Torino nel 1960, PAOLO OSTORERO vive tuttora in Piemonte, dove lavora come impiegato. Padre di tre figli e nonno di tre nipotine, è da sempre impegnato nel volontariato. Trovatosi coinvolto in alcune situazioni legate all'immigrazione, ha poi sentito la necessità di far conoscere a tutti le vicende di Felix e Peter, due ragazzi africani che in vario modo sono entrati a far parte della sua famiglia.
Schiavi è il racconto della loro storia.
 
LinguaItaliano
Data di uscita17 giu 2019
ISBN9788834142585
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    Anteprima del libro

    SCHIAVI - Paolo Ostorero

    SCHIAVI

    romanzo

    Titolo: Schiavi

    Autore: Paolo Ostorero

    Copyright © 2019 Paolo Ostorero

    Tutti i diritti sono riservati. Ogni riproduzione dell’opera, anche parziale, è vietata.

    Indice

    1. Felix

    2. Peter

    3. Felix

    4. Peter

    5. Felix

    6. Peter

    7. Felix

    8. Peter

    9. Felix

    10. Peter

    11. Felix

    12. Peter

    13. Felix

    14. Peter

    15. Felix

    16. Peter

    17. Felix

    18. Peter

    19. Felix

    20. Peter

    21. Felix

    22. Peter

    23. Felix

    24. Peter

    25. Felix

    26. Peter

    27. Felix

    28. Peter

    Postfazione

    Note

    Alle mie nipotine Rebecca, Anna e Ginevra

    con l’augurio che il mondo di domani nel quale vivranno

    possa essere un mondo migliore, con più ponti e meno muri.

    Nonno Paolo

    1. Felix

    Era il giorno più caldo dell'anno, a Yaoundé. Era il 23 febbraio del 2008. L’ aria secca presente in quel periodo rendeva il clima particolarmente sopportabile rispetto al solito caldo umido di quella parte d’Africa. Mosi non stava più nella pelle e girovagava per la stanza eccitato come un ragazzino.

    – Stai sempre a studiare, eh? – disse al figlio immerso nella lettura di un libro di scuola.

    – Devo finire questo capitolo per domani perché sicuramente il maestro mi interrogherà e voglio fare bella figura. – rispose Felix senza alzare gli occhi dal libro.

    – Allora vuol dire che non potrai venire con me al concerto di Lapiro de Mbanga, stasera! – Mosi fece una smorfia di delusione, seppure fosse orgoglioso di quel figlio così diligente.

    – Dov’è che stai pensando di andare? – Alphonsine fece capolino dalla porta della cucina. Come sempre, nulla sfuggiva alla sua attenzione e anche se era indaffarata a lavare i panni nel piccolo bagno, aveva sentito la domanda del marito a Felix.

    – Hai sentito bene cherie! Hanno finalmente dato il permesso a Lapiro di fare il concerto. Sarà un evento eccezionale, lo terranno sull’esplanade del Palais des Sports, stasera!

    Felix osservò sua madre. Non sembrava condividere l’entusiasmo di Mosi. Sul suo viso era comparsa una ruga sottile di apprensione. Restò in silenzio.

    – Non potevano negargli questa possibilità! – continuò Mosi. – La gente ama Lapiro, è con lui e lui è dalla parte del popolo!

    – E tu hai intenzione di andarci, non è vero? – chiese Alphonsine.

    – Ovvio che ci vado! Seguo Lapiro da sempre e questo è il suo primo concerto gratuito qui nella capitale!

    La donna guardò con tenerezza suo marito e, dopo un istante, Felix che nel frattempo era già nuovamente ripiegato sul libro.

    – Ti metterai nei guai! – lo redarguì.

    – Sempre positiva, eh? – rispose Mosi. – Non ti accorgi che qualcosa sta cambiando? Persino Paul Biya ha dovuto arrendersi alla popolarità di Lapiro anche se nelle sue canzoni non gliele manda certo a dire al potere! Finalmente anche in Camerun stiamo diventando adulti. Re Paul[1] è sul viale del tramonto e deve cedere alla fame di democrazia che si leva da ogni parte del Paese!

    – Ma quale democrazia? Sei il solito idealista Momo! Dietro Paul Biya c’è la Francia che ha tutto l’interesse a mantenerlo al potere. E lui riuscirà a rimanere inchiodato alla sua poltrona fino alla sua morte, a meno che a Parigi si decida diversamente – sentenziò la moglie. – Non so come fai a illuderti in questo modo. Eppure hai fatto l’Università! Non lo vedi che è tutta scena? Altro che democrazia! La democrazia in Africa non esiste, è solo apparenza. Lo capisce anche un bambino come Felix che il colonialismo non è mai finito e che ha solo cambiato forma. Pensa alla tua famiglia invece di fare politica. La politica lasciala fare ai ricchi. Tu non conti nulla e se pesti i piedi a qualcuno va a finire che ti schiacciano come un insetto!

    Felix, di fronte a quella specie di comizio della madre, aveva nuovamente smesso di studiare e stava seguendo silenzioso il battibecco tra i genitori.

    – Certo che tu non riesci mai a vedere positivo, eh? – ribadì il marito. – Io da solo certo non conto nulla, ma il fatto è che non sono solo! Siamo migliaia! "From North to South my complicr them dey halla oh / From East to West oooh free boys them dey braz oooh"...

    Mosi si mise a cantare dondolandosi in una danza ritmica allegra e coinvolgente.

    Felix e Alphonsine si fecero immediatamente contagiare dal ritmo e accompagnarono il canto di Mosi battendo le mani a tempo.

    – Vedete cosa dice Lapiro? – Bisogna prendere consapevolezza della nostra forza! Nelle sue canzoni c’è sì denuncia, ma c’è anche tanta allegria e vitalità perché bisogna conservare la speranza!

    – Va bene, va bene, mi arrendo. Non è certo la prima volta che discutiamo. Tanto è inutile perché potremmo andare avanti delle ore a parlare e su questa cosa non ci troveremo mai d’accordo. Io rimango della mia opinione e se tu vuoi continuare ad illuderti sei padrone di farlo – rispose Alphonsine fingendosi arrabbiata. – Però Felix lo lasci qui con me. Ha dieci anni e può già aiutarmi a guardare Yannick e Céline, così io posso sbrigare le faccende di casa. E poi non voglio che lo porti con i tuoi amici, che poi gli mettete in testa le vostre idee politiche!

    – Come vuoi, cherie. – Mosi strizzò l’occhio a Felix. – Dai, non essere arrabbiata. Domani è domenica e ti prometto che ce ne andiamo tutti e cinque dopo la messa a fare un giro in centro e ci prendiamo un bel gelato. Noi cinque soli, senza zie, mamme, suocere, cugini, amici e cantanti. Solo noi cinque, ça va?

    – L’hai promesso, eh? Cerca di ricordartene. Non come l’ultima volta… Lasciamo perdere – disse Alphonsine.

    – Ecco sì, lasciamo perdere che se no faccio tardi e i miei amici saranno già tutti arrivati. Questa volta spero proprio di riuscire a incontrare Lapiro di persona e di farmi fare un autografo!

    – A proposito di autografi, io ci terrei molto di più ad avere quello di Fally Ipupa. Lui sì che è bravo. Il premio KORA che ha vinto l’anno scorso come miglior cantante africano è meritatissimo! Altro che il tuo Lapiro!

    – Sai che piace anche a me Fally! Però Lapiro significa impegno politico, voglia di democrazia, lotta contro la corruzione. Ipupa invece fa solo belle canzoni, innocue per il regime e infatti gli fanno fare un concerto sull’esplanade dell’Hotel de Ville proprio quando si esibisce Lapiro. Prova un po’ a chiederti perché? Giusto per disturbare e distogliere l’attenzione della gente per l’altro concerto! – rispose Mosi.

    – Poi Lapiro non lo capisco neanche bene con quel suo pidgin[2]. Non sono mica di Douala come te! –ribatté Alphonsine.

    – E infatti mica ti chiedo di venire! La prossima volta andremo a sentire Fally Ipupa, ma adesso fammi andare perché se no davvero faccio tardi.

    Alphonsine dette un’occhiataccia al marito fingendo di essere arrabbiata, ma appena incrociò il suo sguardo spuntò un sorriso sulle sue labbra. I loro battibecchi in realtà non erano veri litigi, ma erano più che altro un gioco delle parti e quasi dei pretesti per poi poter fare pace. Servivano a mettere un po’ di pepe nella relazione e a non fare spegnere la passione che, nonostante i tre figli, era rimasta forte come un tempo.

    Mentre Mosi si allontanava, ad Alphonsine vennero in mente come in un film, i tempi della sua infanzia a Ebolowa nel sud del Camerun. Si ricordò di quando gli insegnanti erano andati a casa sua a parlare coi suoi genitori per convincerli a farla continuare negli studi.

    – È una ragazza troppo intelligente per non farla andare a scuola! – avevano detto.

    – Ma come facciamo? Noi non siamo ricchi e non possiamo pagare la retta scolastica! – avevano risposto i suoi genitori.

    Fortuna che proprio in quegli anni i Salesiani avevano aperto una nuova Missione ad Ebolowa.

    Per i ragazzi dotati ma con pochi mezzi finanziari erano state istituite delle Borse di Studio e così Alphonsine aveva potuto conseguire il diploma professionale. Con una punta di orgoglio rivisse la soddisfazione che aveva provato nell’ottenere il diploma con un anno di vantaggio rispetto al normale corso di studi.

    Avrei potuto anche fare l’Università come Mosi, se avessi voluto disse tra sé e sé. Com’era bello il mio Mosi la prima volta che lo vidi! Frequentava l’ultimo anno di ingegneria e sprizzava entusiasmo da tutti i pori. Mai visto un ragazzo così a Ebolowa: impossibile non innamorarsene! Certo che però potevamo anche evitare di avere Felix così presto!

    Appena questo pensiero fece capolino nella sua mente, immediatamente provò un gran rimorso. Voleva bene al suo primogenito, come ne voleva a Chanel e a Yannick. Pensare a Felix in questi termini la fece vergognare profondamente, per cui interruppe subito il suo sogno a occhi aperti e si rituffò velocemente nel vortice delle faccende da sbrigare.

    2. Peter

    Haram[3]! – urlò il gigantesco sergente. – La tua fede è haram! – gli ripeté a dieci centimetri dal viso.

    Impassibile, sull’attenti, la recluta Mekuaji deglutì senza far trapelare la minima emozione. Sapeva bene che sarebbe bastata la più piccola reazione per scatenare la cattiveria del sergente. Già aveva avuto modo di sperimentare la sua sottile perfidia che lo induceva a cercare nelle vittime a lui sottoposte il lato debole e, una volta individuato, a tormentarle nel modo più crudele possibile.

    Il soldato Mekuaji si chiamava Daniel di nome e già questo tradiva la sua fede cristiana e la probabile provenienza dal Sud del Paese.

    Era nato infatti nella città di Wau, nel Sud del Sudan, nel 1955. Figlio di una cameriera e di un giardiniere locali entrambi al servizio di una famiglia inglese, Daniel aveva vissuto i primi anni di vita nella casa coloniale dei signori inglesi. Dopo l’indipendenza del Sudan, nonostante la ricchezza di risorse naturali del Sud, la situazione economica era scesa sempre più verso la miseria e a poco a poco tutti gli europei se n’erano tornati a casa ed erano rimasti soltanto pochi missionari bianchi.

    Così, anche la famiglia Taylor, che a Wau aveva realizzato una bella azienda agricola, dopo qualche anno se n’era andata, abbandonando al suo destino la casa coloniale, l’azienda agricola e anche la famiglia di Daniel.

    Il Sud del Paese era stato depredato selvaggiamente dalla classe dirigente islamica del Nord, la quale aveva ereditato dagli inglesi le leve del comando. Così la regione si era trovata presto a languire nella povertà più assoluta e i giovani del Sud Sudan per non morire di fame dovevano spesso emigrare all’estero o nel Nord del Paese, dove venivano trattati alla stregua di schiavi.

    Anche Daniel non si era potuto sottrarre a quella sorte e, arrivato a 18 anni, aveva lasciato Wau per dirigersi a Nord. Giunto a Khartum si era adattato ai lavori più umili finché un giorno aveva avuto l’opportunità di entrare come recluta nell’esercito sudanese.

    Fin dall’inizio non era stata una passeggiata. I cristiani nella capitale erano una minoranza e a tutti gli effetti erano considerati cittadini di serie B. Tuttavia, era sempre meglio che morire di fame a Wau!

    Il sergente Omar Bashir era al comando del plotone di reclute al quale Daniel era stato assegnato. Era un omone grande e grosso, corrotto come la quasi totalità degli ufficiali e sottufficiali dell’esercito e, per giunta, dotato di una naturale predisposizione alla crudeltà.

    Non che ce l’avesse in modo particolare con Daniel! Ogni recluta era per lui una sfida. Per ogni ragazzo si ingegnava a cercare il modo di farlo crollare. Frequenti i casi di reclute i cui nervi non reggevano lo stress psicofisico e che finivano per scappare o che addirittura arrivavano a suicidarsi.

    Ovviamente con Daniel, che era di fede cristiana, il suo principale divertimento era attaccarlo su quel fronte.

    Haram! – gli urlava ogni giorno il sergente.

    Daniel però non era un debole e non coglieva le provocazioni del sergente, ben sapendo che avrebbe solo fatto il suo gioco e che solo resistendo a oltranza non glie l’avrebbe data vinta.

    Faceva tutti gli esercizi militari senza far trapelare il minimo lamento; percorsi di guerra, marce forzate sotto il sole o qualsiasi altra incombenza a cui veniva sottoposto: il suo volto non tradiva mai il benché minimo disappunto.

    Ben presto riuscì a guadagnarsi se non la stima, idea totalmente estranea al pensiero di Omar Bashir, almeno una certa indifferenza: semplicemente il sergente non ci provava più gusto a tormentarlo e destinava le sue attenzioni ad altre più facili prede.

    Così Daniel, dopo un anno da recluta, venne arruolato nell’esercito come effettivo. La posizione di soldato era un grosso privilegio e permise al giovane una vita tutto sommato invidiabile rispetto alla situazione misera di partenza. La vita militare era però durissima e spesso Daniel si trovò impegnato in attività di repressione di rivolte locali. In queste missioni la pietà non era contemplata e l’esercizio della forza più brutale e spietata era la norma.

    Di tanto in tanto riusciva a visitare i suoi genitori a Wau e gli portava un po’ di denaro che permetteva loro di sopravvivere.

    Fu nel corso di una visita alla sua città natale che decise che era ora di prendere moglie: il tempo passava e ormai aveva trentacinque anni. La sua condizione glielo consentiva e non mancavano certo le opportunità; non sapeva né leggere né scrivere, ma aveva un requisito più importante, un posto fisso nell’esercito, e questo contava enormemente di più.

    Alla messa domenicale partecipavano tantissime ragazze e tra queste vi era anche Agnes, una ragazza che lui conosceva dai tempi dell’infanzia. Dopo la messa Daniel le si avvicinò.

    – Ciao, ti ricordi di me?

    – No, non ti conosco – rispose la ragazza.

    – Come non mi conosci? Sono Daniel ed ero tuo vicino di casa prima che mi trasferissi a Khartum.

    – Ah sì, adesso ricordo. Tu sei il figlio dei Mekuaji, quello che fa il soldato!

    – Io invece ti ho riconosciuto subito, Agnes! Sai – disse Daniel senza tanti giri di parole – ho pensato di parlare con tuo padre e di chiederti in sposa.

    – Beh, prima lo potresti chiedere anche a me – rispose pronta Agnes.

    – Da quando in qua decidete voi? – replicò Daniel tra il serio e il faceto.

    – Guarda che qui siamo nel Sud e non a Khartum! Il parere delle donne qui conta un po’ di più che lassù – rispose Agnes.

    – Ma dai che tu non aspetti altro che sistemarti e metter su famiglia! – disse Daniel ironico.

    Agnes sorrise alla sfrontatezza di Daniel.

    – Va bene, – disse – allora stasera puoi venire a casa e parlare con mio padre, visto che decidete voi uomini! Mio padre non vedrà l’ora di sistemarmi. Una bocca in meno da sfamare. Vedrai che, povero com’è, ti chiederà ben poco in pagamento!

    – Non credere che io sia ricco, ma qualcosa sono riuscito a risparmiare da quando ho un lavoro nell’esercito.

    L’accoglienza dei genitori di Agnes fu calorosa e confermò le previsioni di Agnes. Daniel costituiva un partito insperato per la figlia e quindi chiusero subito l’accordo.

    – Agnes è l’unica figlia femmina rimasta qui. I suoi fratelli sono tutti migrati, quindi pochi saranno i parenti da ospitare e sfamare nei giorni della cerimonia. Il matrimonio non ci costerà molto. Per quanto riguarda il pagamento, mi accontento di un tavolo

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