Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Il cacciatore solitario: La leggenda di Drizzt 18
Il cacciatore solitario: La leggenda di Drizzt 18
Il cacciatore solitario: La leggenda di Drizzt 18
E-book584 pagine7 ore

Il cacciatore solitario: La leggenda di Drizzt 18

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Drizzt Do’Urden ha lasciato libero sfogo al suo spirito vendicativo ed è diventato il Cacciatore, il terrore degli orchi, che vive solo per la vendetta e per ripagare la morte con la morte.
Offuscato dalle nebbie dell’ira, Drizzt riuscirà a placare la sua sete di sangue grazie all’aiuto di due elfi di superficie (Tarathiel e Innovindil), anche se la morte di Tarathiel per mano del Re degli orchi cambierà nel profondo l’animo dell’elfo scuro, mentre lontano gli amici creduti morti stanno combattendo disperatamente per salvare la propria vita contro le immani forze degli orchi.
LinguaItaliano
EditoreArmenia
Data di uscita14 ott 2019
ISBN9788834435984
Il cacciatore solitario: La leggenda di Drizzt 18

Correlato a Il cacciatore solitario

Titoli di questa serie (70)

Visualizza altri

Ebook correlati

Fantasy per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Il cacciatore solitario

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Il cacciatore solitario - R.A. Salvatore

    autorizzata.

    Preludio

    «L e tre nebbie, Obould Many-Arrows», strillò Tsinka Shrinrill, gli occhi sbarrati, i globi oculari che roteavano all’impazzata. Mentre si rivolgeva al re degli orchi e a tutti gli altri, era in trance, rapita a metà tra il mondo reale e la terra degli dei, o così almeno sosteneva. «Le tre nebbie delimitano il tuo dominio al di sotto della Spina Dorsale del Mondo: la lunga striscia del fiume Surbrin, che emana i suoi vapori nell’aria del mattino; il fetido fumo dei Trollmoors, che si leva a rispondere alla tua chiamata; l’essenza spirituale dei tuoi antenati morti da tempo, il retaggio di Fell Pass. Questo è il tuo momento, Re Obould Many-Arrows, e questo sarà il tuo regno!».

    L’orchessa sciamano concluse la propria dichiarazione sollevando le braccia in alto con una sorta di lamento, e gli altri numerosi adepti di Gruumsh Occhio-solo, dio degli orchi, seguirono il suo esempio, gridando, alzando le braccia e girando su se stessi, mentre si disponevano in un ampio cerchio attorno al re e alla statua di legno dissacrata del loro amato dio.

    La statua cava dissacrata dai loro nemici, l’insulto all’immagine di Gruumsh. La profanazione del loro dio.

    Urlgen Threefist, figlio di Obould ed erede al trono, assisteva alla cerimonia con un misto di stupore, trepidazione e gratitudine. Non aveva mai nutrito molta simpatia per Tsinka – una sacerdotessa minore, sebbene una delle più pittoresche all’interno della tribù dei Many-Arrows – e sapeva che le sue parole ricalcavano la falsariga di un copione ideato dallo stesso Obould. Fece scorrere lo sguardo tutt’intorno, osservando la caotica moltitudine degli orchi, tutti infuriati e insoddisfatti, le bocche spalancate, i denti dal colore giallastro e verdognolo, aguzzi e spaccati. Osservò gli occhi itterici e iniettati di sangue, che si spostavano rapidi qua e là, eccitati e intimoriti. Osservò i continui urti e spintoni che si scambiavano e notò gli innumerevoli insulti che volavano, ai quali seguivano spesso lanci di oggetti. Erano tutti guerrieri, arrabbiati e amareggiati – come qualunque orco della Spina Dorsale del Mondo – costretti a vivere in umide caverne, mentre gli appartenenti alle altre razze godevano degli agi delle loro rispettive città e comunità. Al pari di Urlgen, erano ansiosi, le lingue appuntite che leccavano labbra straziate. Chissà se Obould avrebbe riplasmato il destino e la miserabile vita degli orchi del nord!

    Urlgen aveva condotto l’attacco contro la città degli umani conosciuta con il nome di Shallows, riportando una vittoria decisiva. La torre del potente mago, da lungo tempo una spina nel fianco degli orchi, era stata abbattuta e il grande mago era morto, così come la maggior parte della sua gente e un buon numero di nani, tra cui Re Bruenor Battlehammer in persona, sovrano di Mithral Hall, o almeno così tutti credevano.

    Ma parecchi altri erano sfuggiti all’assalto di Urlgen servendosi di quella statua blasfema. Nel vedere il grande e imponente idolo, la maggior parte degli orchi al comando di Urlgen si era giustamente prostrata al suo cospetto rendendo omaggio all’immagine del loro spietato dio. Ma si trattava di uno stratagemma, e la statua si era aperta, rivelando al suo interno un gruppetto di feroci nani, che avevano massacrato molti ingenui orchi e fatto scappare i superstiti verso le montagne. A ciò era seguita la fuga dei restanti difensori della città capitolata, e i fuggitivi si erano uniti a un altro contingente di nani: le stime parlavano di circa quattrocento individui. Le due forze combinate avevano sbaragliato l’esercito di Urlgen che li aveva inseguiti.

    Le perdite subite dal comandante degli orchi erano state ingenti.

    Per tale motivo, quando Obould era giunto sul campo di battaglia, Urlgen si era aspettato rimproveri e probabilmente anche percosse a causa di quella sconfitta e, per la verità, il suo violento padre aveva reagito proprio così.

    Ma poi, con grande sorpresa di tutti, erano trapelate notizie dell’arrivo di possibili rinforzi. Molte altre tribù avevano cominciato a riversarsi fuori dalla Spina Dorsale del Mondo. Ripensando a quel singolare momento, Urlgen si meravigliava ancora per la pronta reazione del padre. Obould aveva ordinato che il campo di battaglia fosse isolato da ogni contatto esterno e che ogni traccia di passaggio ai confini meridionali di quel territorio venisse cancellata. Lo scopo era quello di far credere che nessuno fosse riuscito a fuggire da Shallows: Obould capiva che il controllo delle informazioni da trasmettere ai nuovi arrivati si rivelava cruciale. Perciò, aveva chiesto a Urlgen di istruire a dovere i suoi innumerevoli guerrieri, dicendo loro che nessuno tra i nemici era sopravvissuto e mettendoli in guardia dal prestare fede a differenti versioni dei fatti.

    E le tribù degli orchi erano accorse dai profondi recessi della Spina Dorsale del Mondo al fianco di Obould. I capi avevano deposto ai suoi piedi doni preziosi e l’avevano pregato di accettare la loro offerta di fedeltà. Quei pellegrinaggi erano stati guidati dagli sciamani, o così almeno tutti dicevano. Con il loro turpe inganno, i nani avevano provocato le ire di Gruumsh, e molti tra i suoi sacerdoti avevano inviato le loro rispettive tribù affinché si unissero a Obould, che li avrebbe condotti a vendicare l’oltraggio subito. Obould, che aveva ucciso Re Bruenor Battlehammer, avrebbe fatto pagare caro ai nani il loro sacrilegio.

    Ovviamente, Urlgen aveva accolto tutto questo con grande sollievo. Era più alto del padre, ma non forte a sufficienza da sfidare apertamente il potente capo degli orchi. Se poi si aggiungeva alla considerevole prestanza e destrezza di Obould quel mirabile artefatto che era la sua nera corazza munita di creste e punte, e quel suo spadone, che non ci metteva un attimo a prendere fuoco, nessuno, nemmeno il troppo orgoglioso Urlgen, avrebbe potuto osare sfidarlo per assumere il comando della tribù.

    Ma Urlgen non si doveva preoccupare di questo. Gli sciamani, scortati dall’agitata sacerdotessa, stavano promettendo a Obould la realizzazione di molti sogni e desideri e lo stavano elogiando per la grande vittoria riportata a Shallows: una vittoria conseguita dal suo onorato figlio. Durante lo svolgimento della cerimonia, Obould lanciò ben più di un’occhiata in direzione di Urlgen, e il suo sorriso zannuto sembrava generoso. Non era quel ghigno malevolo, segno inequivocabile del grande godimento che avrebbe provato nel torturare qualcuno. Obould era soddisfatto di Urlgen, davvero soddisfatto.

    Dopotutto, Re Bruenor Battlehammer era morto e i nani erano in fuga. E, sebbene a Shallows gli orchi avessero subito quasi un migliaio di perdite, il loro numero si era notevolmente accresciuto. Altri ancora stavano arrivando, emergendo alla luce del sole (molti probabilmente per la prima volta nella loro vita), socchiudendo gli occhi accecati da quella luminosità, e avanzando lungo i sentieri di montagna diretti a sud, verso il richiamo degli sciamani, verso il richiamo di Gruumsh e di Obould Many-Arrows.

    «Avrò il mio regno», proclamò Obould dopo che gli sciamani ebbero finito con le loro giravolte e lamentazioni. «E, dopo aver occupato i territori all’interno delle montagne e delle tre nebbie, attaccheremo i popoli che ci circondano e ci sono nemici. Conquisterò Citadel Felbarr!» esclamò, e un migliaio di orchi esultò.

    «Farò scappare i nani a rotta di collo ad Adbar, dove li murerò nelle loro sudicie tane!» continuò Obould, saltando tutt’intorno e correndo lungo le prime file dei presenti, e un migliaio di orchi acclamò.

    «Farò tremare la terra sotto i piedi a Mirabar, fino ai suoi confini più occidentali!» Obould gridò e le acclamazioni si moltiplicarono.

    «Farò sì che la stessa Silverymoon vacilli al suono del mio nome!».

    Quest’ultimo annuncio suscitò l’ovazione più calorosa, mentre l’espansiva Tsinka afferrava rudemente il grande orco e lo baciava, offrendogli se stessa, offrendogli la benedizione di Gruumsh al sommo grado.

    Obould la sollevò con un braccio poderoso stringendosela al fianco, e le acclamazioni si intensificarono ulteriormente.

    Urlgen non partecipava a quel delirio collettivo, si limitava a sorridere, mentre osservava Obould trasportare la sacerdotessa su per la rampa che conduceva alla statua profanata di Gruumsh. Stava pensando alla grossa eredità che lo avrebbe presto aspettato.

    Dopotutto, Obould non sarebbe vissuto in eterno.

    E se così fosse stato, Urlgen era certo di poter trovare il modo di apportare qualche ritocco alla situazione.

    Parte 1

    Anarchia emozionale

    Ho sempre agito correttamente.

    Ogni passo del viaggio che mi ha portato lontano da Menzoberranzan è stato guidato dalla mia mappa interiore di ciò che è giusto e sbagliato, dai miei principi di comunione e altruismo. Anche nelle occasioni in cui ho mancato, cosa che del resto succede a tutti, i miei errori sono stati determinati più da incapacità di giudizio o da semplice fragilità che non da mancanza di coscienza. Poiché in essa, lo so, risiedono i più alti fondamenti e dogmi che ci fanno avvicinare agli dei che ci siamo scelti, alle nostre raffigurazioni, speranze e conoscenze del paradiso.

    Non ho abbandonato la mia coscienza, sebbene io tema che lei abbia ingannato me.

    Ho sempre agito correttamente.

    Eppure Ellifain è morta, e il fatto di averla salvata molto tempo fa non è altro che una beffa del destino.

    Ho sempre agito correttamente.

    E ho assistito alla caduta di Bruenor, e sono convinto che con lui siano caduti tutti coloro che amavo e le cose che mi erano care.

    Mi chiedo se ci sia un’entità divina là fuori, da qualche parte, intenta a ridere della mia stupidità. Mi chiedo addirittura se ci sia un’entità divina là fuori, da qualche parte.

    O si è trattato piuttosto di una menzogna o, peggio ancora, di un imbroglio rivolto contro me stesso?

    Ho considerato spesso il concetto di comunione e di miglioramento del singolo individuo nel contesto di miglioramento del tutto. Questo era il principio guida della mia esistenza, la percezione che mi ha spinto a lasciare Menzoberranzan. E ora, in questo momento di dolore, sono giunto a comprendere – o forse è solo adesso che mi costringo ad ammetterlo – che la mia convinzione era anche qualcosa di molto più personale. Come suona ironico il fatto che nel professare il mio desiderio di comunione stavo in effetti alimentando la mia disperata necessità di appartenere a qualcosa di più vasto che andasse al di là di me stesso.

    Nel dichiarare e nel rafforzare in privato l’onestà del mio credo, non mi comportavo diversamente da coloro che si accalcano dinanzi al pulpito del predicatore. Ero alla ricerca di conforto e guida, ma le risposte di cui avevo bisogno le volevo trovare dentro me stesso, al contrario di molti altri che le cercano all’esterno.

    Con quell’intendimento, ho sempre agito correttamente. Eppure, non mi abbandona la crescente consapevolezza, la crescente trepidazione, il crescente terrore che, in definitiva, io abbia sbagliato. In effetti, qual è stato lo scopo di tutto questo se Ellifain è morta e se la sua breve esistenza si è svolta attraverso un tale tumulto?

    Qual è lo scopo, se io e i miei amici abbiamo seguito lo slancio dei nostri cuori e creduto nelle nostre spade, solo perché io arrivassi a vederli soccombere sotto le macerie di una torre in rovina?

    Se mi sono sempre comportato rettamente, allora dov’è la giustizia, e dov’è la ricompensa di un dio riconoscente?

    Persino nel pormi quella domanda, vedo l’arroganza che mi ha infettato. Persino nel pormi quella domanda vedo gli intrighi della mia anima messi a nudo. Non posso fare a meno di chiedermi se sono diverso dagli appartenenti alla mia stessa stirpe. Sotto l’aspetto tecnico, sicuramente, ma sotto quello effettivo? E infatti, nelle mie affermazioni di comunione e dedizione, non mi pongo forse gli stessi identici fini delle sacerdotesse che ho lasciato a Menzoberranzan? Come loro, non cerco forse la vita eterna e una posizione più elevata tra i miei pari?

    Mentre le fondamenta della torre di Withegroo vacillavano e crollavano, anche le illusioni che avevano guidato i miei passi le seguivano.

    Sono stato addestrato a diventare un guerriero. Non fosse per la mia abilità con le scimitarre, credo che ricoprirei un ruolo minore nel mondo che mi circonda, e sarei meno rispettato e accettato. L’addestramento e il talento sono tutto ciò che adesso mi rimane; sono le basi su cui intendo costruire un nuovo capitolo su quella bizzarra e tortuosa strada che è la vita di Drizzt Do’Urden. È l’estensione della mia rabbia che lascerò scatenare contro le spregevoli creature che hanno infranto tutto ciò che mi era caro. È l’espressione di ciò che ho perduto: Ellifain, Bruenor, Wulfgar, Regis, Catti-brie e, in effetti, Drizzt Do’Urden.

    Queste scimitarre, i cui nomi sono Mortegelida e Lampo, diventano ora l’immagine di me stesso, e Guenhwyvar è di nuovo la mia unica compagna. Credo in entrambe, e in nient’altro.

    Drizzt Do’Urden

    1

    Il ricordo della rabbia

    A

    Drizzt non piaceva considerarlo un reliquiario. Appoggiato su un piccolo ramo a due punte, l’elmo a un corno solo di Bruenor Battlehammer dominava la piccola grotta che l’elfo scuro si era scelto come dimora. L’elmo era posto proprio davanti alla parete della rupe che fungeva da muro posteriore della piccola cavità, nell’unico punto di quel rifugio naturale in cui penetrava la luce del sole.

    Drizzt voleva che fosse così. Voleva vedere l’elmo. Voleva non poter dimenticare. E non era soltanto Bruenor che era determinato a ricordare, e neppure gli altri amici.

    Soprattutto, Drizzt voleva ricordare chi aveva compiuto quell’atto terribile nei confronti suoi e del suo mondo.

    Per entrare nella grotta doveva strisciare tra due massi, facendosi strada lentamente e con cautela. A Drizzt non importava; anzi, preferiva che fosse così. La totale mancanza di comodità, la pressoché animalesca natura della sua esistenza, lo faceva star bene, svolgeva un ruolo che andava oltre l’azione purificatrice, era un altro modo di rammentare a se stesso cos’era diventato, chi doveva essere se voleva sopravvivere. Non era più Drizzt Do’Urden della Valle del Vento Gelido, l’amico di Bruenor e di Catti-brie, di Wulfgar e di Regis. Non era più Drizzt Do’Urden, il ranger addestrato da Montolio deBrouchee secondo le leggi della natura e dello spirito di Mielikki. Era di nuovo il drow solitario che si era avventurato lontano da Menzoberranzan. Era di nuovo colui che era fuggito dagli elfi scuri, che aveva abbandonato le regole delle sacerdotesse che lo avevano trattato ingiustamente e gli avevano assassinato il padre.

    Era il Cacciatore, la creatura istintiva che aveva sconfitto le crudeli consuetudini del Buio Profondo e che avrebbe fatto pagare cara alle bellicose orde degli orchi la morte dei suoi amici più fedeli.

    Era il Cacciatore, colui che escludeva qualunque altra cosa dalla mente, fuorché la propria sopravvivenza, colui che ignorava il dolore per la perdita di Ellifain.

    Un pomeriggio, Drizzt si inginocchiò davanti al suo sacro feticcio e osservò il diffondersi della luce solare sull’elmo inclinato. Bruenor aveva perso uno dei due corni parecchi anni prima, molto prima che Drizzt entrasse nella sua vita. Il nano non lo aveva mai sostituito, aveva raccontato a Drizzt, affinché ciò fosse un monito a tenere sempre bassa la testa.

    Dita delicate risalirono lungo la superficie a toccare il contorno irregolare del corno spezzato. Drizzt riusciva ancora a cogliere l’odore di Bruenor sulla cinghia di cuoio dell’elmo, come se il nano fosse seduto accanto a lui nella buia grotta. Come se avessero appena fatto ritorno da un’altra brutale battaglia, col respiro pesante, ridendo forte e lucidi di sudore.

    Il drow chiuse gli occhi e rivide di nuovo quell’ultima disperata immagine di Bruenor. Vide la bianca torre di Withegroo, le fiamme che ne lambivano il fianco, un nano solitario che si agitava in cima, impartendo ordini fino all’ultimo. Vide la torre inclinarsi e crollare, e il nano sparire tra i blocchi di pietra che si sgretolavano.

    Serrò le palpebre con più forza per trattenere le lacrime. Doveva sconfiggerle, respingerle lontano, molto lontano. Il guerriero nel quale si era trasformato non aveva posto per tali emozioni. Drizzt aprì gli occhi e guardò di nuovo l’elmo traendo energia dalla propria rabbia. Seguì il percorso di un raggio di sole fino alla nicchia che stava dietro il copricapo, e vide i propri stivali.

    Anch’essi, al pari della debole e debilitante emozione del dolore, non gli servivano più.

    Drizzt si mise prono e strisciò attraverso la piccola apertura tra i due massi, emergendo nella luce del tardo pomeriggio. Quasi immediatamente, balzò in piedi e sollevò il naso ad annusare il vento. Si guardò intorno, gli occhi attenti che scrutavano ogni ombra e gioco di luce, i piedi nudi che avvertivano il freddo terreno sotto di lui. Dopo una rapida occhiata tutt’intorno, il Cacciatore si diresse veloce verso una postazione più elevata.

    Raggiunse il fianco di una montagna proprio quando il sole stava sparendo all’orizzonte, a occidente, e lì aspettò perlustrando la regione, mentre le ombre si allungavano e scendeva il crepuscolo.

    Infine, vide brillare in lontananza la luce di un bivacco.

    La mano di Drizzt si portò istintivamente sulla statuetta d’onice che teneva nella borsa appesa alla cintura. Ma non la tirò fuori, né evocò Guenhwyvar. Non quella notte.

    La vista gli si fece ancora più acuta a mano a mano che l’oscurità cadeva intorno a lui, e Drizzt si mise a correre, silenzioso come un’ombra, fuggevole come una piuma in un ventoso giorno d’autunno. I sentieri di montagna non rappresentavano un ostacolo per lui, poiché era troppo agile per essere rallentato dai massi caduti e dal terreno sconnesso. Si muoveva zigzagando agevolmente tra gli alberi, talmente furtivo che molti animali della foresta, persino il sospettoso cervo, non udirono né notarono il suo approssimarsi, e non seppero che era passato, se non quando il mutare di direzione del vento portò loro il suo odore.

    A un certo punto giunse a un piccolo fiume, che attraversò saltando da una pietra bagnata all’altra in tale perfetto equilibrio che nemmeno la superficie sdrucciolevole dei sassi riuscì a farlo vacillare.

    Una volta sceso dallo sperone della montagna perse quasi subito di vista il fuoco, ma aveva preso nota della posizione e sapeva dove dirigersi, come se la rabbia che sentiva dentro bastasse da sola a guidare le sue lunghe e sicure falcate.

    Dopo aver attraversato una piccola valle e aggirato una fitta macchia di alberi, il drow avvistò di nuovo il bivacco. Era abbastanza vicino da scorgere le sagome che si muovevano qua e là. Comprese immediatamente che si trattava di orchi, vista l’altezza e l’ampiezza delle spalle, e il modo di camminare leggermente curvi. Due di essi stavano discutendo – il che non lo sorprese – e, conoscendo quanto bastava la loro lingua rudimentale, capì che la disputa verteva su chi avrebbe dovuto stare di guardia. Ovviamente, nessuno voleva assumersi il compito, considerandolo solo una semplice scocciatura.

    Il drow si accovacciò poco lontano, dietro una macchia di alberi, e abbozzò un perfido sorriso. La loro sorveglianza era davvero irrilevante, pensò, dato che, per quanto fossero stati attenti, non si sarebbero accorti della sua presenza.

    Non avrebbero visto il Cacciatore.

    La rozza sentinella lasciò cadere la lancia su una grossa pietra, intrecciò le dita, e capovolse le mani. Le nocche crocchiarono con un rumore secco, ancora più forte di quello prodotto da rami che si spezzano.

    «Sempre Bellig», brontolò, lanciando un’occhiata al fuoco dell’accampamento e alle numerose figure raccolte là intorno, alcune distese a riposare, altre intente a rifocillarsi addentando rimasugli di cibo putrefatto. «Bellig fa la guardia. Voi dormite. Voi mangiate. Sempre Bellig fa la guardia».

    Continuò a borbottare e a lamentarsi, indugiando a lungo con lo sguardo rivolto verso l’accampamento.

    Infine si voltò, per trovarsi di fronte un viso i cui tratti parevano scolpiti nell’ebano, per vedere una folta massa di capelli bianchi e un paio di occhi, ma quali occhi! Occhi purpurei! Occhi fiammeggianti!

    Bellig cercò istintivamente la propria lancia, o perlomeno fece l’atto di cercarla, prima di essere bloccato su entrambi i lati dal bagliore di lame luccicanti. Tentò di avvicinare le braccia a fermare le armi, ma fu di gran lunga troppo lento nell’afferrare le scimitarre dell’elfo scuro.

    Fece per gridare, ma a quel punto le lame ricurve avevano tracciato due solchi profondi nella gola, recidendo la trachea.

    Bellig si portò una mano a quelle ferite mortali, mentre le spade continuavano ancora a colpirlo, e poi ancora.

    L’orco ormai morente si voltò come se volesse precipitarsi dai suoi compagni, ma le scimitarre infierirono di nuovo, questa volta sulle gambe, e il loro filo tagliente tranciò senza sforzo muscoli e tendini.

    Mentre cadeva, sentì una mano che lo afferrava e lo guidava dolcemente a terra. Era ancora vivo, sebbene non riuscisse a respirare. Era ancora vivo, sebbene il suo sangue si stesse raccogliendo in una pozza rosso scuro tutt’intorno a lui.

    Il suo uccisore si mosse, in silenzio.

    «Arsh, stupido Bellig, vedi di darti una calmata», lo richiamò Oonta da sotto i rami di un grosso olmo ai margini dell’accampamento. «Me e Figgle stiamo parlando!».

    «Maledetta linguaccia», convenne Figgle il Brutto.

    Con un buco al posto del naso, un lato della bocca squarciato e i denti color verde-grigio storti e sporgenti, Figgle era un tipo appariscente, persino in base allo standard degli orchi. In gioventù, si era avvicinato troppo a un worg particolarmente cattivo e ne aveva pagato le conseguenze.

    «Oonta lo accoppa presto», dichiarò questi suscitando un sorriso sghembo nel compagno.

    Una lancia si librò nell’aria conficcandosi profondamente nell’albero tra i due.

    «Bellig!» berciò Oonta mentre lui e Figgle si scansavano incespicando. «Oonta lo accoppa davvero molto presto!».

    Con un grugnito, Oonta cercò di raggiungere la lancia ancora vibrante, mentre Figgle scuoteva la testa in segno di assenso.

    «Lasciala», intimò una voce che parlava la lingua degli orchi, ma in modo troppo melodioso per appartenere a uno di loro.

    Entrambe le sentinelle si bloccarono voltandosi a guardare nella direzione da cui era arrivata la lancia. Videro una figura snella e aggraziata, le mani nere appoggiate ai fianchi, le spalle ricoperte da una cappa di colore cupo agitata dal vento notturno.

    «Non vi servirà», spiegò l’elfo scuro.

    «Eh?» dissero entrambi gli orchi all’unisono.

    «Cosa guardate?» domandò una terza sentinella, Broos, il cugino di Oonta. Si era avvicinato di lato, alla sinistra di Oonta e Figgle e alla destra dell’elfo scuro. Osservò i due e seguì il loro sguardo pietrificato fino al drow, irrigidendosi a sua volta. «Chi sei?».

    «Un amico», rispose l’elfo scuro.

    «Amico di Oonta?» chiese questi, battendosi una manona sul petto.

    «Un amico di quelli che avete assassinato nella città della torre», spiegò l’elfo scuro, e prima che gli orchi si rendessero conto del significato di quelle parole, gli spuntarono tra le mani le scimitarre.

    Doveva averle estratte dal fodero con un gesto talmente veloce e fluido da non dare agli orchi il tempo di seguirne i movimenti, tanto che tutti e tre ebbero l’impressione che le armi fossero comparse là, semplicemente, come per magia.

    Broos rivolse lo sguardo verso Oonta e Figgle per capirne di più e azzardò un «eh?».

    E l’elfo scuro lo superò d’un balzo.

    E Broos era bell’e morto.

    L’elfo scuro ritornò per affrontare gli altri due. Oonta strappò la lancia dal tronco, mentre Figgle estraeva un paio di piccole spade, una con la lama biforcuta da duello, l’altra con la lama esageratamente ricurva.

    Oonta sollevò destramente la lancia al di sopra della spalla per sferrare un temibile colpo di punta inteso a fermare l’avversario.

    Questi schivò l’arma lasciandosi scivolare tra i due orchi. Oonta trattenne maldestramente la lancia mentre Figgle assestava un doppio fendente con le sue spade.

    Ma il drow non c’era più, poiché aveva spiccato un salto che lo aveva portato in aria, al di sopra dei due. Entrambi gli orchi, abili guerrieri, impartirono un cambiamento di direzione alle loro armi e mirarono ai fianchi dell’agile creatura.

    E là incontrarono le scimitarre, una a intercettare la lancia, l’altra a deviare con una doppia parata i colpi di Figgle. E mentre le lame dell’elfo scuro bloccavano l’assalto, i suoi piedi, uno proteso in avanti e l’altro indietro, assestavano un paio di calci andando a colpire con violenza e determinazione le facce degli orchi.

    Figgle cadde riverso, confuso e stordito, continuando a roteare le spade dinanzi a sé con movimenti convulsi per difendersi da eventuali attacchi. Anche Oonta arretrò frastornato, brandendo la lancia per aria. Si riebbero contemporaneamente e si ritrovarono a fissare il nulla in mezzo a loro.

    «Eh?» disse Oonta, non scorgendo il drow da nessuna parte.

    Ma Figgle a un tratto sobbalzò, e la punta ricurva di una scimitarra gli spuntò in mezzo al petto per poi sparire quasi immediatamente, mentre l’elfo scuro si affiancava all’orco e gli tagliava la gola nel superarlo.

    Non volendo avere a che fare con un tale nemico, Oonta gettò la lancia, si voltò e se la diede a gambe, dirigendosi alla massima velocità verso il centro dell’accampamento e gridando per il terrore. Gli altri orchi si fecero attorno allo sbigottito Oonta, lasciando cadere pezzi di cibo nauseabondo – carne cruda in putrefazione – alla ricerca affannosa delle armi.

    «Cos’hai fatto?» gridò uno.

    «Chi è stato?» strillò un altro.

    «L’elfo scuro! L’elfo scuro!» rispose Oonta urlando a sua volta. «L’elfo scuro ammazzava Figgle e anche Broos! L’elfo scuro ammazzava Bellig!».

    Drizzt lasciò che l’orco se la svignasse verso la zona illuminata del campo e approfittò della distrazione creata dal bruto vociante per nascondersi nella penombra proiettata da un grosso albero situato lungo la fascia esterna. Mentre scrutava rapidamente intorno contando oltre una dozzina di quegli esseri, ripose le scimitarre nel fodero.

    Quindi, con l’aiuto delle mani, il drow si arrampicò sull’albero prestando orecchio al resoconto che Oonta stava facendo dell’uccisione dei tre compagni a opera dell’elfo scuro.

    «Un elfo drow?» udì domandare più di una voce, e uno degli orchi menzionò Donnia, un nome che Drizzt aveva già sentito in precedenza.

    Questi strisciò fino all’estremità di un ramo, a circa quindici piedi dal suolo e quasi al di sopra del gruppo degli orchi. I loro occhi perlustravano i margini dell’accampamento, soffermandosi sulle ombre proiettate dagli alberi, impressionati dalle parole di Oonta. Dal suo nascondiglio aereo, Drizzt attinse ai poteri ereditari dei drow, alle innate arti prodigiose che possedevano gli appartenenti alla sua razza, e creò un globo di impenetrabile oscurità in mezzo agli orchi là assembrati, proprio sopra al falò che costituiva la parte centrale del campo. Poi si accinse a scendere dall’albero, saltando di ramo in ramo, i piedi nudi che percepivano ogni asperità del tronco e lo mantenevano in perfetto equilibrio, i bracciali magici che gli consentivano di aumentare la velocità della propria andatura e di procedere a passo spedito ogni volta che era necessario.

    Toccò terra correndo verso il globo di oscurità, e gli orchi che si trovavano all’esterno notarono la figura dalla carnagione color dell’ebano e lanciarono un grido gettandoglisi contro, mentre uno di essi scagliava una lancia nella sua direzione.

    Drizzt schivò il tiro maldestro: di certo, avrebbe anche potuto bloccare l’arma senza problemi, se solo avesse voluto. Accolse il primo orco che uscì barcollante dal globo facendo ricorso a un altro dei suoi innati poteri straordinari e produsse un alone di fiamma blu-violacea tutt’intorno al corpo del malcapitato. Il fuoco non bruciava, ma lo avrebbe reso un bersaglio ben visibile, aiuto di cui peraltro l’abile drow non necessitava davvero.

    L’espediente ebbe anche il potere di distogliere l’attenzione dell’orco, creatura alquanto ottusa che, presa com’era a osservare le proprie gambe e braccia in preda alle fiamme e a strillare di paura, rivolse troppo tardi lo sguardo verso Drizzt, giusto in tempo per scorgere il balenio di una scimitarra.

    Dietro al primo sopraggiunse subito un altro orco, ma il drow non si fermò, abbassandosi per schivare un colpo di mazzafrusto che questo stava per assestargli e infilando con destrezza la scimitarra tra le sue gambe per recidere il tendine del ginocchio. Nel tempo che l’orco ululante impiegò a toccare terra, Drizzt il Cacciatore era già sparito all’interno del globo di oscurità.

    Una volta là, procedette puramente per istinto, muovendosi in base ai rumori che sentiva attorno a sé e alle sue sensazioni tattili. Avendo cura di tenersi a una certa distanza dal fuoco, di cui percepiva il calore, seppure non a livello cosciente, attraverso i piedi nudi, il Cacciatore manovrò con furia e rapidità le scimitarre, volteggiando e assestando colpi ogni volta che sentiva passargli accanto un orco brancicante. Ci fu un momento in cui non si accorse neppure dell’orco, non lo udì neppure, ma fu avvisato della sua presenza dal senso dell’olfatto. Un colpo secco trasversale di Lampo provocò un urlo e un tonfo, mentre l’avversario crollava a terra.

    Anche questa volta, senza averne coscienza, Drizzt il Cacciatore seppe esattamente quando sarebbe uscito dall’altra parte del globo di oscurità. In qualche modo, dentro di sé, aveva registrato e misurato ogni passo.

    Ne emerse veloce, in equilibrio perfetto, gli occhi subito puntati sul quartetto di orchi che gli si stava scagliando contro, l’istinto del guerriero che metteva già in pratica la strategia d’attacco appena elaborata.

    Si gettò in avanti, chinandosi a bloccare una lancia con una fiammeggiante doppia parata, una lama dopo l’altra. Entrambe le scimitarre avrebbero potuto mozzare di netto l’arma rudimentale, ma il drow evitò di fare un affondo con la prima e parò il colpo di piatto con la seconda. Lasciò la lancia intatta, particolare del tutto irrilevante, visto che la seconda scimitarra, con uno scarto da destra verso sinistra, la proiettò in aria.

    Quindi, i suoi piedi lo portarono in avanti con un movimento fulmineo, oltre l’orco, che rimase sbilanciato mentre una delle lame, Lampo, gli trapassava la gola.

    Drizzt continuò ad avanzare senza fermarsi, piegandosi a ogni passo leggermente a sinistra, di modo che, nell’avvicinare l’orco successivo, poteva ruotare completamente su se stesso. Ancora una volta Lampo si fece strada con un fendente di striscio a colpire il braccio che reggeva la spada, scaraventandola lontano. Mentre Drizzt completava la piroetta, con la seconda scimitarra, Mortegelida, sferrò un colpo rapido e veloce al torace dell’avversario.

    E il Cacciatore era già oltre.

    Si chinò, evitando l’incombente colpo di una mazza, e balzò alto al di sopra di una lancia che gli era stata scagliata contro, calpestandone l’asta con i piedi per farla cadere con sé mentre tornava a terra. Con Lampo, assestò un fendente a un orco, ma questi si abbassò. Rallentando appena, Drizzt lanciò la scimitarra in aria con un movimento rotatorio, poi afferrò la lama con una presa rovesciata e impartì una stoccata dietro di sé, andando a infilzare in pieno petto lo sbigottito orco che cercava di assalirlo alle spalle con la mazza.

    Contemporaneamente, la mano del drow che reggeva Mortegelida agiva per conto suo, squarciando una, due, tre volte il braccio dell’orco che aveva tirato la lancia. Nell’estrarre Lampo, Drizzt si scansò di lato, e l’orco morente barcollò in avanti, andando a scontrarsi con l’altro, che si stava stringendo il braccio squartato.

    Il Cacciatore era già passato, caricando all’esterno verso una coppia di orchi che sembrava muoversi in apparente sincronia. Drizzt si lasciò cadere in ginocchio con uno slittamento laterale, mentre gli orchi, per reazione, dirigevano la lancia e la spada verso il basso. Ma non appena ebbe toccato terra con le ginocchia, il drow si proiettò in avanti con una capriola inarcando le spalle e arrivando, al termine della piroetta, a far presa di nuovo con i piedi sul terreno, per poi schizzare verso l’alto con quanta forza aveva in corpo, oltrepassando gli avversari interdetti, i quali si erano a malapena resi conto dei suoi movimenti.

    Drizzt atterrò leggero, in perfetto equilibrio, piegò a sinistra e assestò con Lampo un colpo di taglio facendo barcollare ulteriormente la coppia, che si era appena voltata. Dirigendo le armi verso i rispettivi fianchi dei due antagonisti, Drizzt invertì lo slancio di Lampo e portò Mortegelida di traverso, così che le lame si incrociassero in un affondo proprio in mezzo ai due orchi. Una rotazione delle braccia fece sì che le mani si posizionassero sopra le scimitarre, impartendo loro un doppio colpo di rovescio.

    Nessuno dei due avversari riuscì a parare quei fendenti. Entrambi caddero, colpiti in entrambi i modi da entrambe le lame.

    Il Cacciatore si era già spinto più in là.

    Gli orchi si agitavano tutt’intorno, rendendosi conto che non ce l’avrebbero fatta contro quel nemico dalla pelle scura. Nessuno riuscì a resistere, mentre Drizzt tornava veloce sui suoi passi e spaccava la testa all’orco dal braccio squarciato, per poi precipitarsi nel globo di oscurità, dove percepì la presenza di almeno uno di quei bruti che si stava nascondendo, rannicchiato a terra. Ancora una volta fece ricorso agli altri suoi sensi, avvertendo il calore, prestando ascolto a ogni minimo rumore. Colpì un orco che gli stava davanti, ma si accorse che un altro cercava di scansarsi chinandosi di lato.

    Un rapido spostamento laterale lo portò vicinissimo al fuoco e al treppiede che sorreggeva il paiolo. Sferrò un calcio al supporto più vicino e arretrò veloce.

    Nell’oscurità del globo magico, l’orco che gli stava di fronte non poté vedere il suo sorriso mentre l’altro compagno, colpito dal liquido bollente del paiolo, cacciava un urlo e cominciava a contorcersi.

    L’orco dinanzi a lui lo attaccò alla cieca e gridò per chiamare aiuto. Il Cacciatore avvertì lo spostamento d’aria causato da quei movimenti furiosi.

    Calcolando la loro frequenza, riuscì senza fatica a spingersi oltre.

    Uscì di nuovo dal globo, lasciando l’orco che si rivoltava a terra, mortalmente ferito.

    Dando una rapida occhiata intorno, Drizzt vide che nell’accampamento erano rimasti solo due orchi: uno intento a contorcersi a terra sanguinante, l’altro a lamentarsi e a rotolarsi per alleviare il dolore delle ustioni causategli dal liquido bollente dello stufato.

    Due fendenti di scimitarra, accuratamente assestati, posero fine all’agitarsi di entrambi.

    E il Cacciatore si tuffò di nuovo all’inseguimento, nella notte, per portare a termine la propria impresa.

    Il povero Oonta si lasciò cadere contro il tronco di un albero, respirando affannosamente. Zittì con un gesto impaziente il compagno che lo implorava di continuare a correre. Avevano già messo più di un miglio tra di essi e l’accampamento.

    «Dobbiamo!».

    «Tu devi!» ribatté Oonta mentre cercava di riprendere fiato.

    Oonta era strisciato fuori dalla Spina Dorsale del Mondo, ubbidendo agli ordini dello sciamano della sua tribù, per unirsi al glorioso Re Obould, per combattere contro coloro che avevano profanato l’immagine di Gruumsh su un campo di battaglia non lontano da quel luogo.

    Oonta era uscito alla luce del sole per combattere i nani, non i drow!

    Il compagno lo afferrò di nuovo e tentò di trascinarselo dietro, ma Oonta gli scostò bruscamente la mano, poi abbassò il capo e continuò a lottare per riprendere fiato.

    «Fate con comodo», disse una voce alle loro spalle nella lingua degli orchi, ma in tono così melodioso che nessun orco avrebbe mai potuto imitarlo.

    «Dobbiamo andare!» insistette il compagno di Oonta, voltandosi verso il punto da cui provenivano quelle parole.

    Oonta, conoscendone la fonte e sapendo di essere praticamente già morto, non si diede neanche la pena di alzare la testa.

    «Possiamo parlare», udì il compagno implorare l’elfo scuro, e udì anche la sua arma che cadeva a terra.

    «Io posso», replicò l’elfo scuro, mentre faceva apparire una diabolica scimitarra, affilata come un rasoio, e tagliava di netto la gola dell’orco. «Ma dubito che tu troverai la voce per farlo».

    Per tutta risposta, l’orco boccheggiò e gorgogliò.

    E cadde.

    Oonta rimase in piedi immobile e non si voltò a guardare il micidiale avversario. Avanzò verso un albero, tenendo le mani in fuori, senza difendersi, sperando che il colpo di grazia arrivasse presto.

    Sentì sul collo il fiato caldo del drow, sentì la punta di una lama sulla schiena, e l’altra sulla nuca.

    «Vai dal comandante del tuo esercito», gli disse il drow. «Digli che gli farò presto visita. Digli che lo ucciderò».

    Poi, con un colpetto, la seconda scimitarra recise di netto l’orecchio di Oonta: l’orco grugnì e fece mille smorfie, ma era troppo esperto e scaltro per cercare di scappare e di voltarsi indietro.

    «Diglielo», gli sussurrò la voce nell’orecchio. «Dillo a tutti quanti».

    Oonta fece per rispondere al suo assalitore che lo avrebbe fatto.

    Ma il Cacciatore se n’era già andato.

    2

    Fermezza e coraggio

    I

    dodici nani sporchi e affaticati avanzavano ad andatura veloce producendo un rumore sordo, saltando attraverso le fenditure del terreno segnato dalle intemperie e schivando le innumerevoli sporgenze rocciose e i vecchi macigni. Nonostante la loro evidente paura, formavano un gruppo compatto, e se uno inciampava c’era sempre qualcuno pronto a soccorrerlo e assisterlo lungo il cammino.

    Alle loro spalle veniva l’orda degli orchi, più di duecento esseri bavosi, urlanti e ululanti che sbatacchiavano armi e agitavano pugni in aria. Di tanto in tanto, uno di essi scagliava contro i fuggitivi una lancia, che inevitabilmente mancava il bersaglio. Gli orchi non stavano guadagnando terreno, ma neppure lo stavano perdendo, e la loro smania di acciuffare i nani non era inferiore all’apparente disperazione dimostrata da questi ultimi, mentre cercavano di sfuggire atterriti alle grinfie del nemico. A differenza dei nani, però, se un orco vacillava non trovava compagni disposti a sostenerlo. Anzi, se il malcapitato finito a terra impediva l’avanzata degli altri, rischiava di venire investito, preso a calci, o persino accoltellato. Di conseguenza, la fila degli orchi si era in qualche modo allungata, anche se quelli in testa si mantenevano comunque a breve distanza dal gruppetto dei nani.

    Questi si stavano inoltrando lungo un tratto di terreno in salita delimitato a destra, e cioè a ovest, da un grande sperone roccioso, e a sinistra da uno spazio più aperto. Continuavano a correre gridando, in apparenza fuori di sé dalla paura; ma se gli orchi fossero stati più attenti alle loro mosse e meno concentrati sulla caccia, avrebbero potuto notare che i nani sembravano muoversi in una direzione ben precisa e con un intento determinato, pur avendo dinanzi a sé varie scelte di percorso.

    In formazione compatta, i nani emersero dall’ombra proiettata dal rilievo montuoso e imboccarono un passaggio situato tra due massi ben distanziati. Gli inseguitori prestarono a malapena attenzione a quelle grosse pietre, che in realtà delimitavano l’ingresso di un canale che si snodava lungo il terreno roccioso, ampio a sufficienza da permettere il transito a tre orchi allineati. Per quelle feroci creature, l’itinerario seguito dai nani significava solo che non avrebbero potuto sparpagliarsi qua e là. E gli orchi erano talmente presi dall’inseguimento da non notare che, su entrambi i lati, erano presenti cunicoli laterali abilmente dissimulati da pietre, dall’oscurità dei quali scrutavano occhi naneschi.

    Gli orchi in testa alla colonna si erano ormai ben addentrati nel canale e oltre la metà delle loro forze aveva già varcato i due massi posti all’entrata, quando i primi nani balzarono fuori dai nascondigli, sferrando colpi a destra e a manca con picconi, martelli, asce e spade. Alcuni, in particolare quelli appartenenti alla Brigata Gutbuster, comandata da Thibbledorf Pwent e formata dai nani più tenaci e sudici di tutto il Clan dei Battlehammer, non portavano armi, ma solo copricapi muniti di una punta acuminata, guanti di ferro chiodati e armature guarnite di creste. Questi si gettarono allegramente nel mezzo della mischia, avventandosi sugli orchi più vicini e picchiando selvaggiamente. Alcuni di quegli stessi orchi erano stati colti di sorpresa dal medesimo gruppo appena alcuni giorni prima, fuori dalla città distrutta di Shallows. Tuttavia, a differenza della volta precedente, gli orchi non fecero dietrofront per scappare, ma sostennero l’assalto.

    Ma i nani possedevano armi ed equipaggiamento più adatti a combattere nell’angusto spazio del canale. E poiché avevano modificato il terreno di battaglia in base alle loro esigenze e

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1