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L'orda degli orchi: La leggenda di Drizzt 17
L'orda degli orchi: La leggenda di Drizzt 17
L'orda degli orchi: La leggenda di Drizzt 17
E-book497 pagine6 ore

L'orda degli orchi: La leggenda di Drizzt 17

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Info su questo ebook

Il re degli orchi Obould Many-Arrows ha riunito le tribù e ha deciso che è giunto il momento dell’invasione: alleatosi con i giganti dei ghiacci e con quattro drow esuli dal Buio Profondo, che tramano per ottenere potere sul mondo di superficie, cala con il suo esercito nelle terre del nord della Spina Dorsale del Mondo, devastando intere città e spargendo terrore ovunque.
Separato dalle circostanze dai suoi amici più cari, Drizzt crede di essere rimasto solo e di aver visto morire tutti i suoi compagni, e cede al lato oscuro che è in lui, diventando un letale assassino di orchi. Il suo unico scopo è la vendetta.
 
LinguaItaliano
EditoreArmenia
Data di uscita14 ott 2019
ISBN9788834435977
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    Anteprima del libro

    L'orda degli orchi - R.A. Salvatore

    autorizzata.

    Preludio

    «T irate più forte! Avanti! Tirate… tirate forza!» gridava Tred McKnuckles ai due cavalli e ai tre nani che trainavano. «Dobbiamo arrivare a Shallows prima che il sole d’estate splenda sulla mia crapa pelata!».

    La sua voce echeggiò sulla roccia intorno, un rimbombo che si addiceva a uno come Tred. Era massiccio, tipico dei nani, con un corpo capace di sopportare dei gran colpi e braccia forzute in grado di dare il benservito. La barba bionda e lunga era spesso infilata sul davanti nel cinturone; portava un martello da lancio – noto in genere con il nome di «freccia nanica» – fissato dietro le spalle e pronto per essere scagliato.

    «Sarebbe senz’altro più facile se quel cavallo non fosse sul retro del carro, razza di maledetto imbecille!» gli urlò per tutta risposta uno dei nani che tirava.

    Al che Tred gli diede una frustata sul sedere.

    Il nano si fermò, o meglio cercò di fermarsi, ma il carro proseguiva e lui era legato alle catene, per cui si convinse che continuare a muovere le gambe forti e tozze non fosse una cattiva idea.

    «Te la farò pagare per questo, stanne certo!» ringhiò a Tred, ma i nani che trainavano e gli altri tre ancora sul carro accanto al loro capo gli risero in faccia.

    Avevano percorso un buon tratto, si erano arrischiati sulla strada a nord che seguiva il versante occidentale delle Montagne Rauvin lasciando Citadel Felbarr a venti giorni di distanza. Avanzando verso valle, il gruppo si era dato a piccoli scambi di mercanzie e si era rifornito in un grosso insediamento della tribù barbara Black Lion. Lo chiamavano Pozzo di Beorunna e, insieme a Sundabar, Silverymoon e Quaervarr, era uno dei luoghi di scambio prediletti dai settemila nani di Citadel Felbarr. In genere le carovane dei nani arrivavano, barattavano le mercanzie e infine volgevano a sud, verso le montagne e verso casa, ma questo gruppo particolare aveva colto di sorpresa i capi dell’insediamento barbaro e aveva poi proseguito verso ovest, nordovest.

    Per barattare, Tred era determinato a entrare a Shallows e nelle altre cittadine lungo il fiume Surbrin percorrendo il versante occidentale della Spina Dorsale del Mondo. C’erano voci secondo cui Mithral Hall, per ragioni oscure, aveva di recente ridotto gli scambi con le città sui monti, e Tred, l’opportunista di sempre, voleva che Felbarr colmasse quel vuoto. Altre voci, del resto, dicevano che alcune gemme di strabiliante bellezza e perfino qualche manufatto antico, a quanto pare realizzato dai nani, venissero trainati dalle miniere meno profonde sui versanti occidentali della Spina Dorsale del Mondo.

    Il tardo inverno aveva favorito le cinquanta miglia di cammino, e il carro era andato avanti senza incidenti fino alla punta settentrionale di Moonwood per poi scendere ai piedi della Spina Dorsale del Mondo. I nani si erano diretti un po’ troppo a nord e così dovettero volgere a sud con le montagne alla loro destra. Faceva abbastanza caldo, ma non al punto che gli strati di neve si sciogliessero e provocassero valanghe lungo il percorso. Tuttavia, quel mattino un ascesso aveva cominciato a manifestarsi sullo zoccolo di un cavallo e, mentre i nani toglievano abilmente la pietra, il cavallo mostrava già segni di miglioramento e l’ascesso era ormai scoppiato, ma la bestia non era ancora pronta a trainare il carro con il carico. Non si riusciva a procedere facilmente, per cui Tred si mise a capo del traino, caricò il cavallo sul retro del grosso carro e divise i sei nani in due tiri da tre.

    Erano bravi a trainare e, per un buon tratto, il carro aveva mantenuto il passo di prima, ma mentre il secondo tiro si avvicinava alla fine della seconda svolta iniziarono ad avanzare a fatica.

    «Quand’è che pensi di rimettere quel cavallo al lavoro?» fece Duggan McKnuckles, il fratello più piccolo di Tred, la cui barba bionda arrivava a malapena a metà del torace.

    «Domani sarà di nuovo al trotto», rispose sicuro Tred, e gli altri annuirono.

    Dopotutto, chi meglio di lui si intendeva di cavalli? Oltre a essere uno dei migliori fabbri di tutta Citadel Felbarr, era anche il maniscalco più noto del posto. Quando le carovane di mercanti arrivavano alla fortezza dei nani, Tred veniva inevitabilmente chiamato, di solito da Re Emerus Warcrown in persona, per ferrare i cavalli.

    «Che ne dite di accamparci per la notte», disse uno dei nani che trainavano davanti, «piantare le tende, mangiarci uno stufato come si deve, e alleggerirci di tutto quel carico con un bel barile di birra?».

    «E perché no?» gridarono gli altri come di consueto accadeva quando si presentava l’occasione per bere birra.

    «Piantatela, non c’è uno di voi che mi prenda sul serio!» replicò Tred irritato.

    «Vuoi soltanto battere Smig a Shallows!» dichiarò Duggan.

    Tred sputò e agitò le mani. Come insinuazione era fin troppo evidente. Tutti lì sapevano che era vera. Smig era il più grande rivale di Tred, due amici che fingevano di odiarsi, ma che, in realtà, vivevano soltanto per superarsi a vicenda. Entrambi sapevano che la piccola città di Shallows, con la caratteristica torre e il rinomato stregone, proprio prima dell’inverno aveva visto un notevole afflusso di persone – abitanti di frontiera che avrebbero avuto bisogno di armi affilate, armature e ferri di cavallo – ed entrambi avevano ascoltato il discorso di Re Warcrown che sarebbe stato lieto di stabilire rotte commerciali lungo la Spina Dorsale del Mondo. Dopo la riconquista della cittadella dei nani, che era stata nelle mani degli orchi per tre secoli, la zona a ovest di Felbarr era diventata di gran lunga più tranquilla, sebbene la regione montagnosa a est brulicasse ancora di mostri. C’era una strada che dal Buio Profondo portava a Mithral Hall, ma nessuno finora si era spinto tanto lontano da entrare nelle terre a nord della fortezza del Clan Battlehammer. Tutti quelli che accompagnavano Tred – i suoi operai, incluso il fratello Duggan, Nikwillig il calzolaio, e i fratelli opportunisti Bokkum e Stokkum che portavano le mercanzie indispensabili (principalmente birra) per altri commercianti di Felbarr – erano stati impazienti di seguirlo. La prima carovana era quella più ambita, avrebbe trasportato il meglio dei tesori raccolti dagli abitanti di frontiera. Ma non solo, portava con sé anche la gloria e il favore di Re Warcrown, cose queste che senz’altro contavano di più.

    Proprio prima della partenza, Tred aveva coinvolto Smiggly Stumpin, detto Smig, in una sfida amichevole all’ultimo bicchiere, questo non prima di aver ben pagato uno dei chierici di Moradin per una pozione capace di annullare gli effetti dell’alcool. Tred si immaginava che lui e i suoi si sarebbero allontanati da Citadel Felbarr di un giorno e più prima che il povero Smig si svegliasse, e ci sarebbe voluto un altro giorno perché il nano fosse in grado di girare la testa quanto bastava per uscire dalla porta principale della cittadella.

    Cascasse il cielo Tred non avrebbe permesso che una sciocchezza come l’ascesso sullo zoccolo di un cavallo rallentasse il passo tanto da lasciare a Smig la possibilità di recuperare.

    «E allora trottate ancora per tre miglia e potremo chiamarla una buona giornata», propose Tred.

    Tutt’intorno era una lamentela unica, perfino Bokkum aveva da ridire, lui che rischiava di perdere profitti se ci si accampava prima del tempo, dal momento che più birra si consumava meno ne restava da vendere; anche se la scommessa era che non l’avrebbe venduta a Shallows, bensì l’avrebbe tenuta per i festeggiamenti del viaggio di ritorno.

    «Facciamo due miglia allora!» sbraitò Tred. «Non vorrete dividere l’accampamento con Smig e i suoi stanotte?».

    «Piantala, Smig non è neanche partito!» fece Stokkum.

    «E se lo è, lui e i suoi avranno dovuto rallentare per via dei massi che abbiamo lasciato cadere sul sentiero dietro di noi», aggiunse Nikwillig.

    «Ancora due miglia!» tuonò Tred.

    Schioccò di nuovo la frusta, e il povero Nikwillig si alzò più dritto che mai e fece in modo da voltarsi abbastanza da lanciare uno sguardo torvo a quella guida possente.

    «Prova a colpirmi di nuovo e ti farò un paio di scarpe che non dimenticherai tanto in fretta!» gridò Nikwillig.

    I suoi piedi stavano scavando piccole fosse mentre veniva trascinato, e questo bastò a far ridere Tred e gli altri fragorosamente. Prima che Nikwillig si mettesse di nuovo a bofonchiare, Duggan prese a cantare una canzone su una mitica leggenda dei nani, una grande città in una miniera profonda che avrebbe fatto felice lo stesso Moradin.

    «Forza salite quel sentiero!» canticchiò Duggan, e alcuni lo guardarono, incerti se stesse cantando o dando ordini. «C’è una porta da sfondare!» disse Duggan, incoraggiando Stokkum a gridare: «Quale porta?».

    Ma Duggan proseguì: «Ecco il tunnel e ancora un po’ di strada c’è da fare!».

    «Ma è Saliscendi!» gridò Stokkum, e il gruppo intero compreso Nikwillig non riuscì a trattenersi e intonò una chiassosa canzone, scambiandosi amichevoli pacche sulle spalle.

    Forza, salite quel sentiero

    C’è una porta da sfondare

    Ecco il tunnel e ancora un po’

    Di strada c’è da fare

    Scende un ponte fiammeggiante

    Nel profondo sottostante

    Basta con quei bronci orrendi

    Benvenuti a Saliscendi!

    Saliscendi! Saliscendi!

    Benvenuti a Saliscendi!

    Saliscendi! Saliscendi

    Basta con quei bronci orrendi.

    È qui che la birra è più saporita

    E i biscotti non sanno di roba marcita!

    Il gran chef Muglump fa stufati di cernia

    E gli infusi di Bumble combattono l’ernia!

    E nei pertugi si spaccano massi

    Che si raccolgono come sassi

    Scaldati e fusi per il mercato

    A Saliscendi l’oro è pregiato!

    Saliscendi! Saliscendi!

    Benvenuti a Saliscendi!

    Saliscendi! Saliscendi

    Basta con quei bronci orrendi.

    Andava avanti per molti versi ancora e, quando i sette nani finirono tutte le strofe della vecchia canzone, si misero a improvvisare come facevano sempre e, a seconda dei propri desideri, ognuno cantava di quel posto straordinario, la città di Saliscendi. Del resto, era quella la parte più divertente della canzone, e qualsiasi nano perspicace, dalle intenzioni espresse, poteva capire chi era un potenziale amico e chi un potenziale nemico.

    La canzone era anche un buon diversivo, soprattutto per i tre che trainavano il carro, affaticati e con le schiene piegate. Percorrevano un buon tratto quando si cantava, saltellando sul terreno roccioso con le montagne che si elevavano alla loro destra mentre si dirigevano a sud lungo il tragitto.

    Seduto al posto di guida, Tred li chiamava per nome seguendo l’ordine e a ognuno gridava di aggiungere il verso successivo. Tutto andò liscio finché toccò a Duggan, il fratello più piccolo.

    Gli altri cinque continuavano a canticchiare, facendo da sottofondo, ma proseguirono quasi per un verso intero e Duggan ancora non rispondeva.

    «Allora?» chiese Tred, e girandosi verso il fratello più piccolo vide uno sguardo molto confuso sul volto di Duggan. «Vai avanti a cantare, ragazzo!».

    Duggan lo guardò a lungo con curiosità, confusione, poi disse pacato: «Credo di essere ferito».

    Solo allora Tred guardò oltre quell’espressione smarrita e muovendo la testa indietro allargò lo sguardo sul fratello. Solo allora Tred notò la lancia che sporgeva dal fianco di Duggan!

    Lanciò un urlo, e il canticchiare dietro di lui cessò, mentre i due seduti sul retro del carro si erano voltati verso Duggan che si era accasciato. Anche davanti avevano smesso, ma non del tutto, finché un grosso macigno precipitò rumorosamente bloccando il sentiero proprio accanto ai tre nani esterrefatti, e rimbalzando su di loro colpì alla spalla Nikwillig, che rimase stordito.

    I cavalli, spaventati, presero a galoppare, e sia il cavallo ferito sia il povero Stokkum vennero scaraventati fuori dal carro, con Stokkum che rotolava sul terreno roccioso. Tred afferrò saldamente le redini, nel tentativo di far rallentare le bestie, perché davanti i poveri nani venivano trascinati e strattonati senza tregua, soprattutto Nikwillig, che sembrava aver perso conoscenza.

    Un altro macigno precipitò proprio dietro al carro traballante, e un terzo cadde al suolo davanti al tiro, i cavalli deviarono bruscamente a sinistra, poi tentarono di tornare sulla strada a destra con il carro già su due ruote.

    «A destra!» ordinò Tred, ma non appena lo disse le ruote di sinistra cedettero e il carro si schiantò ribaltandosi.

    I cavalli a briglia sciolta scapparono e muovendosi alla cieca i tre nani legati rotolarono sulla strada rocciosa.

    I due nani dietro Tred vennero scaraventati via, con Duggan che ne era a malapena consapevole. Anche Tred avrebbe fatto la stessa fine se una gamba non fosse rimasta incastrata sotto il sedile del carro. Sentì l’osso rompersi mentre il carro gli si rovesciava addosso, quindi prese un forte colpo alla testa. Per un momento pensò che un fiume di sangue scorresse sopra di lui mentre il carro continuava a rotolargli di fianco, ma poi ebbe la fuggevole sensazione che fosse della birra a bagnarlo.

    E fu la fortuna che lo strappò alla catastrofe incombente, poiché non si sa come finì in un barile mezzo spaccato. Rimbalzava e rotolava giù per il pendio. Una rupe lo frenò di colpo, il barile andò in pezzi e Tred si contorse in una stramba capriola.

    Pesante come le rocce intorno a lui, il nano non riusciva a reggersi in piedi. Aveva una gamba rotta, per cui cadde in avanti contro la roccia, appoggiandosi con ostinazione sui gomiti.

    Fu allora che li vide, decine e decine di orchi che agitavano lance, mazze e spade, accalcandosi sul carro distrutto e sui nani caduti. Al seguito due giganti scendevano dalla parte più alta: non erano giganti di collina, come Tred si sarebbe aspettato, ma giganti più grossi, dalla pelle blu, i giganti dei ghiacci. Allora capì che non si trattava di una banda di furfanti qualunque.

    Sebbene la coscienza a tratti venisse a mancare, Tred ebbe la prontezza di gettarsi indietro; quindi prese a rotolare giù per un altro pendio e finì a sbattere contro una roccia sotto un groviglio di rovi. Provò ad alzarsi ancora, ma poi sentì in bocca il sapore di sangue e terra.

    E perse conoscenza.

    «Allora, sei vivo o no?» chiedeva una voce distante e cavernosa.

    Tred aprì un occhio incrostato di sangue, e in quella visione offuscata scorse la figura malconcia di Nikwillig, accovacciata davanti ai rovi e intenta a fissarlo.

    «Stai benone, si vede!» disse Nikwillig e fece scivolare un braccio per porgergli la mano. «Tieni giù le chiappe o quei bifolchi te le scuoieranno per bene».

    Tred prese la mano e la strinse con forza ma non riuscì a uscire dal groviglio di rovi.

    «Dove sono gli altri?» chiese. «Dov’è mio fratello?».

    «Nella lotta gli orchi li hanno uccisi tutti», fu la cruda risposta, «e i porci non sono molto lontani da qui. Quei dannati cavalli mi hanno trascinato per un miglio e più».

    Tred non mollava la presa, ma neppure si muoveva.

    «Avanti, zuccone!» lo riprese Nikwillig. «Dobbiamo arrivare a Shallows perché Re Warcrown sappia dell’accaduto».

    «Vacci tu», replicò Tred. «Ho una gamba rotta, ti farei andare troppo piano».

    «Piantala, parli come uno stupido! Non mi sbagliavo sul tuo conto!».

    Nikwillig diede un forte strattone e tirò fuori Tred dai rovi.

    «Piantala tu!» ringhiò Tred.

    «Stai dicendo che mi lasceresti qui se fossi al tuo posto?».

    La domanda aveva fatto centro. «Dammi un bastone, razza di stupido vecchio testardo!».

    Poco dopo, sottobraccio, con Tred che si appoggiava sia a Nikwillig sia al bastone, i due nani tenaci camminavano a passo lento verso Shallows, mentre già tramavano vendetta contro la banda di orchi che aveva teso l’imboscata.

    Non sapevano che un altro centinaio di bande simili erano uscite dai loro covi di montagna e vagavano per il contado.

    Parte 1

    UN CAMMINO

    PIÙ LUNGO

    DEL PREVISTO

    Quando Thibbledorf Pwent e il suo piccolo esercito di furiosi guerrieri arrivarono nella Valle del Vento Gelido con la notizia che Gandalug Battlehammer, primo e nono re di Mithral Hall, era morto, sapevo che per Bruenor non c’era altra scelta se non ritornare alla casa delle sue origini e assumersi di nuovo l’onere del comando. I suoi doveri verso il clan non richiedevano altro, e per Bruenor, come per gran parte dei nani, i doveri verso il re e verso il clan venivano prima di ogni altra cosa.

    Ciononostante, riconobbi la tristezza sul volto di Bruenor quando apprese la notizia, e sapevo che ben poco di quella tristezza era dovuto alla perdita del re. La vita di Gandalug era stata lunga e piena di sorprese, molto più di quanto ogni altro nano avesse mai sperato. Perciò, benché fosse triste per la morte di questo progenitore che aveva a malapena conosciuto, non era quello il motivo del suo muso lungo. No, quel che più lo preoccupava, ne ero certo, era il dovere che lo chiamava a tornare a un’esistenza stanziale.

    Da subito sapevo che l’avrei accompagnato, ma sapevo anche che non sarei rimasto a lungo nei confini sicuri di Mithral Hall. Sono una creatura della strada, dedita all’avventura. Questo lo capii dopo la battaglia contro i drow, quando Gandalug fece ritorno al Clan Battle­hammer. Alla fine sembrava che la pace fosse tornata nella nostra piccola compagnia, ma questa, come compresi ben presto, era un’arma a doppio taglio.

    E così mi ritrovai a salpare dalla Costa della Spada con il capitano Deudermont e il suo equipaggio all’inseguimento di pirati a bordo del Folletto del Mare, con Catti-brie al mio fianco.

    È strano, e in qualche modo inquietante, arrivare alla conclusione che nessun posto mi tratterrà a lungo, che nessuna «casa» basterà mai fino in fondo. Mi chiedo se sto correndo verso qualcosa o se sto scappando da qualcosa. Mi lascio trascinare, come gli incauti Entreri e Ellifain? Queste domande echeggiano nel mio animo e nel mio cuore. Perché sento il bisogno di non fermarmi mai? Cosa sto cercando? Approvazione? Una maggiore fama che in qualche modo mi garantisca la rinnovata sicurezza che lasciare Menzoberranzan sia stata una scelta giusta?

    Queste domande crescono dentro di me, e a volte provocano angoscia, ma non dura a lungo. Perché considerandole razionalmente, capisco quanto siano ridicole.

    Con l’arrivo di Pwent nella Valle del Vento Gelido, la prospettiva di godere della calma e delle comodità di Mithral Hall si profilava ancora una volta davanti a noi, e non è il genere di vita che mi sento di accettare. La mia paura era per Catti-brie e la relazione che abbiamo costruito. Come cambierà? Forse Catti-brie vorrà una famiglia e una casa per conto suo? O vedrà il ritorno alla fortezza dei nani come un segno della fine del suo cammino di avventura?

    E se così fosse, cosa significherebbe per me?

    Perciò tutti noi accogliemmo la notizia portata da Pwent con sentimenti contrastanti e con ben più di un pizzico di trepidazione.

    Nonostante tutto, l’atteggiamento conflittuale di Bruenor non durò molto. Un giovane nano feroce chiamato Dagnabbit, che anni addietro era stato determinante nel liberare Mithral Hall dai duergar, e figlio del famoso generale Dagna, lo stimato comandante del braccio militare della città, aveva accompagnato Pwent nella Valle del Vento Gelido. Dopo un incontro privato con Dagnabbit, il mio amico mi era parso così pieno di eccitazione come non lo avevo mai visto, quasi saltava dall’entusiasmo, impaziente di trovarsi sulla strada di casa. E, con sorpresa di tutti, Bruenor aveva subito esposto una speciale considerazione, non un ordine diretto, ma un suggerimento di un certo peso: tutti i nani di Mithral Hall che si erano stabiliti all’ombra del Monte Kelvin nella Valle del Vento Gelido sarebbero dovuti ritornare con lui.

    Quando chiesi a Bruenor di quell’apparente cambiamento di stato d’animo, lui mi fece soltanto l’occhiolino e mi assicurò che presto avrei conosciuto «la più grande avventura» della mia vita, senza false promesse!

    Non è ancora entrato nello specifico, e neppure ha parlato a grandi linee di quello che ha in mente, e Dagnabbit ha la bocca cucita come il mio irascibile amico.

    In verità, entrare nello specifico non mi interessa. Quel che mi importa è la certezza che la mia vita continui all’insegna dell’avventura e del progresso. Questo è il segreto, credo. Vivere è arrivare sempre più in alto; battersi per diventare una persona migliore o per fare in modo che il mondo intorno diventi migliore, per arricchire la nostra vita o la vita di coloro che amiamo, questo è il segreto del più irraggiungibile dei traguardi: sentirsi realizzati.

    Secondo alcuni si può raggiungere creando ordine e sicurezza o la sensazione del calore di casa. Secondo altri, compresi molti nani, si può raggiungere accumulando ricchezza o fabbricando un oggetto magnifico.

    Quanto a me, userò le mie scimitarre.

    Dunque procedevo a passo svelto quando di nuovo partimmo dalla Valle del Vento Gelido, un’allegra carovana di centinaia di nani, un halfling brontolone (ma lontano dall’essere scoraggiato), una donna avventurosa, un potente guerriero barbaro, insieme a sua moglie e a sua figlia, e io, un elfo scuro amabilmente incauto e con una pantera per amico.

    Lasciate che la neve cada, la pioggia scenda e il vento sferzi il mio mantello: chi se ne importa, ho un cammino davanti a me!

    Drizzt Do’Urden

    1

    L’alleanza

    Portava l’armatura di maglia metallica realizzata a regola d’arte come se fosse un’estensione della pelle dura. Non un solo pezzo del nero metallo intrecciato era piatto e disadorno, ovunque c’erano disegni e bassorilievi sovrapposti. Due grandi spuntoni ricurvi sporgevano da ogni lastra posta sulla parte superiore del braccio, e ogni copertura sulle giunture aveva il bordo affilato e con tre punte. La corazza stessa poteva essere usata come arma, benché Re Obould Many-Arrows preferisse la grande spada che teneva sempre legata sulla schiena, un’arma magnifica che poteva prendere fuoco a un suo ordine.

    Già, quell’orco forte e astuto amava il fuoco, amava il modo in cui indistintamente divorava ogni cosa al suo passaggio. Portava una corona di ferro nera, con quattro splendenti rubini magici incastonati, ognuno dei quali capace di produrre maestose palle di fuoco.

    Lui stesso era un’arma ambulante, forte e massiccio, il genere di creatura con cui non si fa a pugni di propria iniziativa: farlo comporterebbe danni maggiori all’aggressore che all’aggredito. Molti rivali erano stati trucidati da Obould mentre se ne stavano lì, esitanti, a chiedersi come potessero mai infierire su questo re degli orchi.

    Ma, di tutte le sue armi, quella più potente era l’ingegno. Sapeva come approfittare delle debolezze. Sapeva come dominare una battaglia e, più di tutto, sapeva come spronare la gente al suo servizio.

    E così, a dispetto di molti dei suoi, Obould entrò nel Biancore Splendente, nelle caverne di rocce e pietra della potente gigantessa dei ghiacci, Gerti Orelsdottr, guardando dritto davanti a sé, a testa alta. Era arrivato come un potenziale alleato, non come uno di secondo ordine.

    In testa, il seguito di Obould, compreso il figlio più promettente Urlgen Threefist (chiamato così per via dell’elmo che gli consentiva di dare testate come se avesse un terzo pugno), camminava a passo fiero e sicuro, sebbene i soffitti del Biancore Splendente fossero chiaramente sproporzionati rispetto all’altezza degli orchi, e molte guardie dalla pelle blu a cui passarono davanti fossero alte almeno due volte loro e pesassero di gran lunga di più.

    Perfino a Obould, dalla natura indomita, prese un colpo quando il gigante dei ghiacci che faceva da scorta condusse lui e la sua banda attraverso enormi porte a fasce di ferro che davano in una stanza gelida fatta più di ghiaccio che di pietra. Contro al muro, a destra delle porte, davanti a un trono foggiato nella pietra nera e ornato di stoffa azzurra, circondata di ghiaccio azzurro, c’era la gigantessa, erede diretta di Jarl, capo delle tribù dei giganti dei ghiacci provenienti dalla Spina Dorsale del Mondo.

    Gerti era bella stando al criterio di quasi tutte le razze. Arrivava a più di tre metri d’altezza, con un corpo dalla pelle blu muscoloso e ben fatto. Gli occhi, di una sfumatura intensa di azzurro, erano così penetranti che pareva tagliassero il ghiaccio, e le lunghe dita sembravano al contempo delicate, sensibili, e forti al punto da stritolare la roccia. Aveva lunghi capelli d’oro, tanto lunghi quanto Obould era alto. Il suo mantello, confezionato con il pelo argenteo di un lupo, era fermato con un anello tempestato di gemme, largo abbastanza perché un elfo adulto lo indossasse come cintura, e una collana di grossi denti appuntiti le ornava il collo. Portava un vestito di pelle marrone anticata che le copriva il petto florido, di fianco uno spacco svelava l’addome muscoloso e scendeva giù fino alle belle gambe consentendole di muoversi liberamente. Gli stivali erano alti e ricoperti della stessa pelliccia argentea, ed erano magici o così si raccontava in ogni storia. Si diceva che permettessero alla gigantessa di accelerare il suo lungo passo e fare più strada sul terreno montuoso di chiunque altro, a parte le creature capaci di volare.

    «Lieto di incontrarvi, Gerti», disse Obould alla quasi perfetta gigantessa dei ghiacci. Fece un inchino e l’armatura cigolò.

    «D’ora in avanti vi rivolgerete a me dicendo Madame Orelsdottr», fu la secca risposta della gigantessa, la sua voce forte e squillante rimbombò tra il ghiaccio e la pietra.

    «Madame Orelsdottr», si corresse Obould con un altro inchino, «avrete senz’altro sentito del successo della nostra razzia, vero?».

    «Avete ucciso un paio di nani», replicò Gerti con un risolino, e le sue guardie riunite risposero allo stesso modo.

    «Vi ho portato un dono da quella vittoria significativa».

    «Significativa?» ripeté la gigantessa con evidente sarcasmo.

    «Significativa non nel numero di nemici uccisi, ma poiché è il primo successo dei nostri popoli uniti», spiegò in fretta Obould.

    Il cipiglio di Gerti mostrava che quella descrizione di «popoli uniti» era a suo parere quantomeno prematura, il che quasi sorprese o piuttosto sconcertò Obould.

    «Le tattiche funzionano», continuò imperterrito Obould. Si voltò e fece segno a Urlgen. L’orco, più alto del padre ma non massiccio come lui quanto a busto e arti, si fece avanti, tirò giù dalla schiena un grosso sacco, e con fare persuasivo rovesciò al suolo il macabro contenuto.

    Cinque teste di nani rotolarono fuori, comprese quelle dei fratelli Bokkum e Stokkum, e quella di Duggan McKnuckles.

    Gerti fece una smorfia di disgusto e distolse lo sguardo.

    «Stenterei a chiamarli doni», disse.

    «Simboli di vittoria», replicò Obould, dando l’impressione per la prima volta in quell’incontro di essere colto alla sprovvista.

    «Non nutro alcun interesse nell’appendere alle mie pareti teste di razze inferiori come trofei», puntualizzò Gerti. «Preferisco oggetti di classe e non credo proprio che i nani siano all’altezza».

    Obould la fissò intensamente per un istante, e comprese appieno che avrebbe potuto con sincerità e senza porsi problemi includere anche gli orchi nell’ultima affermazione. Ciononostante riprese il controllo di sé e fece cenno al figlio di raccogliere le teste e rimetterle al loro posto.

    «Portatemi la testa di Emerus Warcrown di Felbarr», disse Gerti. «Quello è un trofeo che vale la pena di conservare».

    Obould socchiuse gli occhi e frenò la risposta. Gerti si stava prendendo gioco di lui: era palese. Un tempo Re Obould Many-Arrows aveva governato Citadel Felbarr, fino a quando qualche anno dopo Emerus Warcrown non aveva fatto ritorno ed espulso Obould e il suo clan. Fu un’amara sconfitta, la considerava il suo più grande errore, poiché a quel tempo stava lottando con il suo clan contro un’altra tribù di orchi e così aveva lasciato a Warcrown e ai suoi nani l’occasione per riconquistare Felbarr.

    Obould voleva riavere Felbarr, questo era fuori dubbio, ma la forza della città era notevolmente cresciuta negli anni, arrivando a quasi settemila nani senza contare quelli nei passaggi di pietra costruiti per difesa.

    Il re degli orchi respinse la rabbia con grande disciplina, poiché non voleva che Gerti si accorgesse della fitta dolorosa prodotta dalle sue parole taglienti.

    «Oppure portatemi la testa del Re di Mithral Hall», proseguì Gerti. «Sia esso Gandalug Battlehammer o, a quanto si sente adesso, di nuovo Bruenor la bestia. O, magari, il Marchion di Mirabar... sì, quella grassa testa e la sua irta barba rossa sarebbero un bel trofeo! E portatemi anche la Sceptrana di Mirabar. Non sarebbe una graziosa suppellettile?».

    La gigantessa si fermò un momento e guardò i suoi guerrieri divertiti, un perfido sogghigno le apparve sul viso dai lineamenti fini.

    «Vorreste portare un trofeo all’altezza di Madame Orelsdottr?» domandò maliziosamente. «Allora portatemi la testolina di Lady Alustriel di Silverymoon. Proprio quella, Obould».

    «Re Obould», corresse l’orco fiero, zittendo i giganti soldato e lasciando a bocca aperta il suo potente seguito.

    Gerti lo guardò e quindi annuì.

    A quel punto abbandonarono lo scherzo, poiché entrambi avevano compreso il livello insensato che aveva raggiunto. Lady Alustriel di Silverymoon era un obiettivo ben oltre le loro possibilità. Nessuno dei due desiderava che lei e la sua incantevole città fossero nella lunga lista dei potenziali nemici. Silverymoon era il gioiello della regione. Sia Gerti Orelsdottr sia Obould Many-Arrows bramavano i gioielli.

    «Sto preparando il prossimo assalto», annunciò Obould dopo una pausa di silenzio, parlando ancora una volta in quella strana lingua, forzando la dizione e la pronuncia in qualcosa che fosse vicino alla perfezione.

    «Di che portata?».

    Obould si strinse nelle spalle e scosse la testa. «Niente di esagerato. Una carovana o una città. La portata dipenderà dalla nostra artiglieria di scorta», concluse con un sogghigno di malizia.

    «Qualche gigante vale quanto mille orchi», replicò Gerti, prendendo l’imbeccata più alla lontana di quanto Obould avesse sperato.

    Tuttavia, l’orco astuto le permise quella millanteria senza opporsi, ben consapevole dell’atteggiamento di superiorità di lei e senza preoccuparsene davvero in quel momento. Aveva bisogno dei giganti dei ghiacci alle spalle dei suoi soldati più per ragioni diplomatiche che per un profitto concreto.

    «È stato divertente per i miei guerrieri far cadere i nani con i macigni», ammise Gerti, e di fianco al trono un gigante che aveva preso parte alla razzia annuì e sorrise dimostrandosi d’accordo. «Molto bene, Re Obould, vi darò quattro giganti per la prossima lotta. Mandate il vostro messaggero quando sarete pronti».

    Obould fece un inchino, abbassando la testa come di consueto perché Gerti non vedesse il suo ampio sogghigno e non comprendesse quanto quei rinforzi sarebbero stati davvero importanti per lui e la sua causa.

    Si rimise dritto e batté lo stivale destro: per il seguito era il segnale di mettersi in riga dietro di lui non appena si fosse girato. Si congedarono.

    «Sono i tuoi burattini», commentò Donnia Soldou rivolgendosi a Gerti dopo che Obould e il suo seguito di orchi erano partiti.

    L’elfa scura, vestita dalla testa ai piedi in nero e in tinte molto scure di grigio, si muoveva senza difficoltà tra i giganti dei ghiacci, ignorando il piglio severo e minaccioso che molti di loro assumevano ogniqualvolta si trovava nei dintorni. Donnia camminava con la sicurezza degli elfi scuri, e con la consapevolezza che le sottili minacce rivolte a Gerti, affinché mandasse un esercito nella Spina Dorsale del Mondo per sterminare tutte le creature viventi sue nemiche, non erano cadute nel vuoto. Spesso le astuzie della diplomazia erano vincenti e metterle in atto costituiva un divertimento per gli elfi scuri.

    Di certo Donnia non poteva confermare quell’asserzione in alcun modo. Era una canaglia, faceva parte di una banda composta di soli quattro membri. Dunque, quando si tirò giù il cappuccio e scosse i capelli bianchi lunghi e folti, gettandoseli come d’abitudine di lato cosicché le trecce le coprissero metà del viso, compreso l’occhio destro, lo fece con un’aria di assoluta certezza.

    Gerti non aveva bisogno di saperlo.

    «Sono orchi», replicò Gerti Orelsdottr con evidente sdegno. «Sono burattini per chiunque lo desideri. Non è facile resistere all’impulso di spiaccicare Obould contro la roccia, semplicemente perché è così brutto, così stupido… semplicemente per il piacere di farlo!».

    «I piani di Obould rafforzano i vostri», fece Donnia. «Sono in molti a servirlo. Abbastanza per distruggere i nani e le comunità umane della regione, ma non così numerosi da combattere le legioni delle città più grandi, come Silverymoon».

    «Vuole Felbarr, per poterla chiamare di nuovo Citadel Many-Arrows. Credi che possa impossessarsi di una fortezza tanto prospera senza alimentare l’ira di Lady Alustriel?».

    «Silverymoon venne forse coinvolta quando Obould e i suoi conquistarono Felbarr?» Donnia fece una risatina. «Lady Alustriel e i suoi consiglieri hanno già abbastanza da fare lungo i loro confini, Felbarr sarà finalmente isolata. Forse Mithral Hall o persino Citadel Adbar decideranno di mandare aiuti, ma non sarà rilevante se creeremo il caos nelle montagne vicine e oltre Trollmoors».

    «Non ho alcuna intenzione di combattere i nani nei loro minuscoli tunnel», commentò la gigantessa dei ghiacci.

    «Ed ecco perché vi tenete Obould e i suoi mille orchi».

    «I nani li massacreranno».

    Donnia sorrise e fece spallucce, come se quella prospettiva non la riguardasse.

    Gerti stava per rispondere, ma annuì soltanto.

    Donnia continuò a sorridere, pensando che le cose andassero per il verso giusto. Lei e i suoi compagni erano capitati in quella situazione proprio al momento opportuno. Il vecchio Manogrigia, Jarl Orel dei giganti dei ghiacci, era ormai prossimo alla morte, e la figlia era ansiosa di prendere il suo posto. Gerti aveva una forte presunzione, di sé e della sua razza. Considerava i giganti dei ghiacci la più grande razza del Faerûn e perciò destinata a dominare. Il suo orgoglio e il suo razzismo superavano perfino

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