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La vendetta di Baccarat: Rocambole V
La vendetta di Baccarat: Rocambole V
La vendetta di Baccarat: Rocambole V
E-book372 pagine4 ore

La vendetta di Baccarat: Rocambole V

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Info su questo ebook

Dopo che Baccarat ha mandato all'aria i piani del Club dei Fanti di Cuori, il visconte Andrea alias sir Williams non desiste dal suo progetto. Ad aiutarlo è ancora il fido Rocambole, stavolta nei panni di un marchese brasiliano, ma le diverse aspirazioni cominciano a creare una spaccatura tra i due criminali.
Sarà ancora Baccarat a dover dare fondo a tutte le sue risorse per salvare la vita del conte Armand, mentre i progetti di vendetta di sir Williams si avviano verso un tragico quanto inaspettato epilogo.
LinguaItaliano
Data di uscita13 apr 2019
ISBN9788899403720
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    Anteprima del libro

    La vendetta di Baccarat - Pierre Alexis Ponson Du Terrail

    39

    Dello stesso autore nella collana Aurora:

    L'eredità misteriosa. Rocambole vol. 1

    I drammi di Parigi. Rocambole vol. 11

    Il Club dei Fanti di Cuori, parte prima Rocambole vol. 111

    Il Club dei Fanti di Cuori, parte seconda. Rocambole vol. 1v

    Pierre Alexis Ponson du Terrail, La vendetta di Baccarat

    (Rocambole vol. V) 1a edizione Landscape Books, aprile 2019

    Collana Aurora n° 39

    © Landscape Books 2019

    Titolo originale: Le Club des Valets-de-Coeur pt. 3

    Nuova edizione italiana a cura di Guido Del Duca

    www.landscape-books.com

    ISBN 978-88-99403-72-0

    Realizzazione editoriale a cura di WAY TO ePUB

    www.waytoepub.com

    Ponson du Terrail

    La vendetta di Baccarat

    Rocambole V

    Riassunto degli episodi precedenti

    Il visconte Andrea, profondamente pentito dei crimini commessi sotto le spoglie del perfido sir Williams, viene perdonato e accolto generosamente nella casa del fratellastro Armand de Kergaz, sposo felice della buona e bella Jeanne de Balder.

    Armand de Kergaz, che ha messo la sua immensa fortuna al servizio del bene, viene a sapere dell’esistenza di un’associazione che ha lo scopo di esercitare una vasta rete di ricatti ai danni di famiglie benestanti servendosi di documenti e lettere compromettenti.

    In realtà il capo di quest’associazione misteriosa, chiamata Club dei Fanti di Cuori, è Andrea, che sotto il nome e il travestimento dell’inglese sir Arthur Collins dirige una banda di furfanti: fra questi sono Rocambole, già braccio destro di sir Williams, che ha assunto il nome e l’irreprensibile condotta del visconte de Cambolh, e il bellissimo Chérubin, che col nome di Oscar de Verny si introduce abilmente nell’alta società. Quest’ultimo fa la conoscenza della bella e virtuosa marchesa Van Hop, del cui marito è follemente innamorata l’indiana Dai-Natha, pronta a tutto pur di conquistare l’oggetto del suo amore.

    Un’amica della marchesa, la signora Malassis, mira a sposare l’anziano e ricco duca de Chàteau-Mailly, ostacolata dal nipote di quest’ultimo che si oppone al matrimonio temendo di perdere l’eredità del duca.

    Andrea scopre una bellissima fanciulla, la peccatrice Turquoise, e le assegna l’infame compito di sedurre l’onesto Léon Rolland, sposo di Cerise, e Fernand Rocher, sposo di Hermine. Turquoise si rivela abilissima e riesce in breve tempo a far innamorare perdutamente di sé i due giovani che sono decisi ad abbandonare per lei le spose e i figlioletti.

    Baccarat, la peccatrice pentita, sospetta di Andrea e decide di usare tutti i mezzi pur di sconfiggere il genio del male. Non esita quindi a deporre le vesti dell’umile signora Charmet, dama di carità, per riassumere la frivola condotta della dama galante. Con l’aiuto dei misteriosi poteri di chiaroveggenza della piccola ebrea Sarah, sua protetta, e del conte Artoff, un nobile russo che si è innamorato di lei, riesce a sventare all’ultimo momento i tenebrosi piani di sir Williams (alias sir Arthur Collins) e ad avere la meglio su Turquoise.

    Ma ancora una volta il perfido Andrea riesce a sfuggire alla meritata punizione.

    I.

    Abbiamo perso di vista sir Williams nel momento in cui, a rischio di rompersi il collo, spariva con un salto attraverso la finestra del salone che dava sui giardini del palazzo.

    Una sorta di influsso misterioso, senza dubbio un influsso infernale, sembrava proteggere quell’uomo, perché sir Williams cadde in piedi sano e salvo e il caso volle che la terra, smossa di fresco in quel punto, attutisse la violenza della caduta. Sir Williams si alzò, appena un po’ stordito, si palpò, mosse le gambe e le braccia per assicurarsi di non essere ferito e di non avere nulla di rotto, poi, soddisfatto dell’esame, si mise a correre giù per il giardino e rallentò solo quando fu ben distante dalla facciata del palazzo e dal luogo in cui era caduto.

    A questo punto cercò di orientarsi. La notte era cupa e nuvolosa e chiunque altro si sarebbe trovato senza dubbio in imbarazzo. Ma sir Williams, vedendosi sano e salvo, fuori dalla portata della pistola del giovane russo e del coltello di Léon Rolland, ritrovò subito tutto il suo sangue freddo e tutta la sua presenza di spirito.

    Sir Williams conosceva perfettamente la pianta del giardino, sistemato a parco inglese. Conosceva l’esistenza di un lungo viale circolare che conduceva a una porta, dalla quale si usciva su una stradina, quasi sempre deserta a quell’ora. Quella porta doveva essere senza dubbio chiusa a chiave, ma per lui si trattava di un particolare di scarsa importanza. Sfondare una porta, forzare una serratura, scassinare un chiavistello, erano delle sciocchezze per l’uomo che i borsaioli di Londra avevano nominato un tempo loro capo e che aveva fatto prodigi a New York. Si incamminò dunque con passo tranquillo per il viale circolare, dapprima immerso nelle sue riflessioni, poi voltandosi di quando in quando per ascoltare i rumori che venivano dal palazzo e per cercare di indovinare, dal movimento delle luci dietro le finestre, quello che succedeva laggiù.

    Le luci andavano e venivano e sir Williams capì che nel palazzo regnava una grande agitazione. Intanto andava dicendosi, fra sé e sé:

    Baccarat ha mantenuto le sue promesse e io mi sono lasciato giocare come uno sciocco. Ora è chiaro che se non mi sbarazzo al più presto di lei sono un uomo finito. Purché Rocambole non si sia lasciato prendere… Ma se anche lo hanno preso si farà tagliare a pezzi prima di dire una parola o di rivelare il nostro segreto; e però, senza di lui, io sarò costretto a scoprirmi per agire di persona. E allora…. A questo pensiero, qualche goccia di sudore imperlò la fronte di sir Williams. Quell’uomo di ferro, al quale mille traversie non erano riuscite a togliere tutta l’energia, cominciò di colpo a tremare pensando alla vendetta così a lungo, così pazientemente meditata. Il vasto piano di battaglia ch’egli aveva escogitato contro i suoi nemici era imperniato su un obiettivo dominante. Tutto il resto aveva ai suoi occhi solo un’importanza relativa. C’era un uomo per il quale sir Williams nutriva un odio implacabile e mortale, un uomo che egli voleva colpire nell’onore, nella fortuna, negli affetti, nella vita: Armand! Gli altri, Léon Rolland, Fernand Rocher, Hermine e Cerise, quei quattro esseri ch’egli aveva perseguitato e che all’ultimo momento gli erano sfuggiti, dopo tutto erano solo delle comparse nel dramma che egli andava intessendo passo passo preparandone gli incredibili episodi… Ma Armand!… Armand, l’uomo che gli aveva rubato tutto, che gli aveva tolto tutto, l’uomo ch’egli odiava come Satana può odiare il paradiso, Armand non doveva sfuggirgli…

    E il pensiero che forse Rocambole era caduto come lui in un tranello diede il capogiro a sir Williams.

    «Fernand si è salvato», mormorò, «ma se anche Armand mi sfuggisse!… Ah! Credo che ucciderei con le mie mani quella Baccarat!»

    Il giorno prima, quando aveva dato le istruzioni a Rocambole, sir Williams gli aveva detto di lasciare il palazzo della rue de la Ville-l’Évèque non appena vi avesse fatto entrare Léon, ridotto a uno stato di pazzia furiosa, e di andare poi ad aspettarlo a casa sua. Il baronetto pensò che il suo complice doveva avere avuto tutto l’agio di andarsene senza incontrare ostacoli, mentre Baccarat era alle prese con lui, sir Williams.

    Quella speranza gli riscaldò il cuore proprio nel momento in cui raggiungeva la porticina del giardino che era chiusa a doppia mandata e che era di una robustezza fuori del comune. Il fuggitivo poté accertarsene, in mezzo alle tenebre che lo circondavano, grazie al tatto, un senso meravigliosamente sviluppato in lui.

    Nella sua fuga precipitosa non aveva avuto il tempo di raccogliere il pugnale che Baccarat lo aveva costretto a gettare in mezzo al salone, pugnale che, senza dubbio, gli sarebbe stato di grande aiuto per svitare la serratura o forzare il chiavistello. Ma aveva con sé un mazzetto di chiavi e le provò l’una dopo l’altra. Per un caso fortunato che di certo non si aspettava, l’ultima chiave entrò, girò nella serratura, fece scattare il nottolino e la porta si aprì.

    Una volta in fondo alla stradina, era fuori della portata di Baccarat e di coloro che ella avrebbe potuto lanciargli alle calcagna.

    Raggiunse place Beauvau, risalì a piedi il faubourg e arrivò da Rocambole che era impaziente di rivedere.

    «Il signor visconte è appena rincasato», gli disse il cameriere facendolo passare.

    Sir Williams tirò un sospiro di sollievo. Dunque, non tutto era perduto. Infatti Rocambole aveva lasciato prudentemente il palazzo della rue de la Ville-l’Évèque dopo avervi accompagnato Léon Rolland e se ne era andato senza che nessuno pensasse di sbarrargli il passo. Fidando nel genio di sir Williams, non aveva dubitato nemmeno un istante che gli avvenimenti previsti da lui si sarebbero verificati puntualmente.

    In dieci minuti il falso cocchiere si era tolto il cerone scuro che gli copriva il viso, si era sbarazzato del travestimento e il suo complice, entrando, lo trovò seduto accanto al camino, con un sigaro fra le labbra, le pantofole ai piedi e avviluppato nella vestaglia.

    Vedendo la calma del suo allievo, sir Williams capì che questi non sospettava il terribile scacco che avevano subito.

    Lui, al contrario, era pallidissimo nonostante il belletto che gli copriva il volto; aveva lo sguardo spento, quasi distratto, e Rocambole, vedendolo entrare, esclamò:

    «Buon Dio! che cosa avete, caro zio? che c’è? che cosa è successo?»

    «È successo», rispose sir Williams con voce sorda, «che siamo stati sconfitti e giocati…».

    II.

    Per un istante il silenzio regnò fra quei due uomini legati a doppio filo dal delitto. Si fissarono e tra loro passò lo stesso sguardo che può passare, la sera di una sconfitta, fra un generale e un tenente.

    Sir Williams non era ancora entrato nei particolari, ma il suo atteggiamento cupo, la sua tristezza, lo sguardo, in cui si leggevano collera e scoraggiamento, tutto era così eloquente che l'allievo dubitò per la prima volta di quel maestro infallibile e si chiese se non fosse arrivato il momento di disertare la sua bandiera.

    Forse sir Williams indovinò i pensieri che attraversavano il cervello della sua anima dannata o forse obbedì a una di quelle reazioni che di colpo ridanno coraggio alle anime forti cadute solo per un istante in preda allo smarrimento. Fatto sta ch’egli alzò subito la testa, e il suo sguardo ritrovò quel lampo selvaggio che svelava senza ombra di dubbio un’energia pericolosa e instancabile, consacrata da vent’anni alla causa del male.

    «Sì», disse, «siamo stati battuti; ma nulla è ancora perduto e, per l’inferno, avrò la mia rivincita!»

    Quindi raccontò con poche parole, brevemente, freddamente, in tono asciutto, gli avvenimenti della serata.

    «In effetti, caro zio, siamo stati battuti e Baccarat è una donna in gamba di cui dobbiamo disfarci. Ma, come dite voi, abbiamo perduto solo la prima partita».

    «È quello che penso anch’io».

    «E dunque, cominciamo la seconda».

    «Nella seconda», mormorò sir Williams, la cui voce, in apparenza tranquilla, dissimulava una tempesta di passioni, «nella seconda schiaccerò sotto i miei piedi Armand e Baccarat».

    Rocambole guardò sir Williams e alzò le spalle in silenzio.

    «Così voglio!» fece quest’ultimo con arroganza.

    «Caro zio», disse il falso visconte svedese, «comincio a credere che siate affetto da monomania».

    «Cosa?»

    «Ho detto monomania», ripeté asciutto Rocambole, «e mi spiego: voi avete la monomania della vendetta!»

    Sir Williams trasalì, guardò Rocambole ma tacque.

    «Voglio dire», proseguì il figlio adottivo della vedova Fipart, «che dimenticate un po’ troppo la vita reale per la vita intellettuale, la prosa per la poesia».

    «Dove vuoi arrivare?» disse con calma sir Williams.

    «A questo: che l’aspetto più triste della nostra sconfitta di questa sera è la perdita dei due milioncini in lettere di cambio; voi, al contrario, non rimpiangete tanto i milioni quanto la mancata fine di Fernand Rocher».

    «È vero», mormorò sir Williams, nei cui occhi passò un lampo di corruccio. «Lo odio tanto!»

    «Tutto questo deriva», osservò Rocambole con un tono beffardo, «dal fatto che voi siete un vero signore, un aristocratico, un uomo di genio e di gusto molto più raffinato di me. Il vostro servitore, al contrario, visconte per caso, figlio dei marciapiedi parigini, uomo positivo innanzitutto, se la prenderebbe molto meno per la fortuna toccata a Fernand Rocher se avesse due milioni in tasca».

    Questa volta fu sir Williams ad alzare le spalle. Ma quel gesto di disapprovazione lasciò indifferente Rocambole che riprese con calma: «Capisco benissimo che voi odiate mortalmente quel filantropo di Armand de Kergaz, quel galantuomo che legalmente vi ha spogliato e che con il suo virtuoso intervento vi ha fatto perdere i dodici milioni del buon Kermor de Kermarouèt. Per questo vi concedo tutto quello che vorrete… Sacrificategli gli interessi dei Fanti di Cuori, la nostra prosperità, il nostro denaro, tutto! Ne sarò forse seccato ma, dopo tutto, voi siete il capo e… a Cesare quel che è di Cesare! Ma Fernand Rocher, ma Léon Rolland, Cerise, Hermine, Baccarat, tutte quelle comparse… e via!» concluse Rocambole gettando nel camino il mozzicone del sigaro, «schiacciamole pure se ne abbiamo il tempo, ma non facciamogli l’onore di trascurare per loro i nostri affari più seri. Ecco tutto!»

    E l’ex monello di Parigi guardò con sfrontatezza sir Williams, il quale, pensoso, aveva ascoltato quel discorso con grande attenzione.

    «Insomma», disse, «che cosa dovremmo fare secondo te?»

    «Perdiana! Pensare ai cinque milioni della bella Dai-Natha».

    Queste parole risvegliarono subito l’intelligenza assopita del visconte Andrea.

    «È giusto», disse.

    «Il tempo stringe, caro zio».

    «Quanti giorni sono che Dai-Natha ha bevuto il veleno?»

    «Domani sarà trascorso il quarto giorno».

    Sir Williams sobbalzò sulla sedia.

    «Per Satana!» esclamò. «Hai perfettamente ragione, nipote mio; in realtà ho dimenticato ogni cosa per cullarmi nell’idea della vendetta. Ma ora non c’è un minuto da perdere, e se la marchesa non sarà morta fra tre giorni, allora sarà Dai-Natha che se ne andrà all’altro mondo e i cinque milioni sfumeranno come le lettere di cambio».

    «Di conseguenza, caro zio», aggiunse Rocambole, «lasciamo in pace per un momento Baccarat».

    «È necessario».

    «A proposito, vi ha riconosciuto?»

    «No».

    «Pensate che non sospetti di voi?»

    «Ah!» disse il baronetto. «Quanto a questo, non ne so nulla. Quella donna è un mistero per me».

    «Un mistero», disse Rocambole, «di cui fra poco avremo la chiave».

    «E come?»

    «Per mezzo di Chérubin».

    «Credi?»

    «Certamente: lo ha ricevuto due volte. Chérubin ha rinunciato alla scommessa; il conte è convinto che abbia fallito e invece Baccarat gli apre la porta di casa sua alle undici di sera».

    «Sangue di Dio!» esclamò sir Williams mentre un sospetto gli attraversava il cervello. «Ma allora siamo scoperti!»

    «Perché?»

    «Ma perché Baccarat a quest’ora è forse sulle tracce dell’affare Van Hop. Credi sul serio ch’ella possa amare Chérubin?»

    «Diavolo!» mormorò Rocambole. «Questa è una cosa da vedere».

    Sir Williams non rispose. La fronte stretta fra le mani, era immerso in una profonda meditazione. Quando alla fine alzò la testa e guardò in faccia Rocambole, dalle sue labbra uscì una frase fredda e tagliente come il delenda est Carthago di Catone Uticense.

    «Il mio parere è», disse, «che bisogna assolutamente disfarsi di Baccarat, altrimenti siamo perduti».

    «Amen!» fece Rocambole.

    E i due uomini rimasero lì, uno di fronte all’altro, intenti a meditare la rovina della loro temibile nemica senza però perdere di vista l’affare Van Hop. Sir Williams era effettivamente l’uomo dallo spirito inventivo per il quale non esistevano ostacoli e che trovava sempre, in pochi minuti, il modo di risolvere le più gravi difficoltà. Dopo un momento di riflessione sollevò la testa; sulle sue labbra c’era un sorriso, quel sorriso diabolico e crudele che gli abbiamo visto tante volte nel momento in cui escogitava le sue infernali macchinazioni.

    «Mio caro», disse al suo complice, «vedrai che diventerò un ragionatore, un uomo positivo, come dici tu».

    «Sarà!» fece Rocambole con un’aria incredula.

    «Ciò non toglie che, se dovessi ascoltare il mio istinto d’artista», proseguì sir Williams, «mi piacerebbe far subire a Baccarat i più inauditi tormenti».

    «Ottima idea, caro zio!»

    «Ma purtroppo il tempo stringe e dobbiamo far presto».

    «E allora, che si fa?»

    «La uccideremo, semplicemente e senza chiasso».

    «In che modo? Con una pugnalata?»

    «È pericoloso! E poi, bisognerebbe trovare un uomo sicuro, perché penso che né tu né io vorremo agire di persona».

    «Certo che no».

    «E poi, Baccarat assassinata in casa sua e la marchesa uccisa dal marito due giorni dopo sarebbero due grossi casi di omicidio che finirebbero per dare la sveglia alla giustizia e ci costringerebbero forse a emigrare nuovamente».

    «Strangolarla?» chiese Rocambole.

    «Nemmeno».

    «Avvelenarla?»

    «Sì», fece sir Williams con un cenno del capo accompagnato da un sorriso veramente spaventoso.

    «È difficile, caro zio. Per prima cosa non abbiamo più complici nel palazzo di rue Moncey. Tutti i servi di quella Baccarat sono fedeli alla loro padrona».

    «Questo è un particolare».

    «Ma un particolare abbastanza serio».

    «Dimentichi Chérubin?»

    «Diavolo! Caro zio, quello che dite è grave. Pensate a Chérubin per avvelenare Baccarat?»

    «Certo».

    «Avete torto, zio mio».

    «Perché?»

    «Ma perché Chérubin vuole vincere la sua scommessa. Ora, se Baccarat morisse, egli perderebbe cinquecentomila franchi e si troverebbe alla mercé del conte Artoff».

    Sir Williams sorrise.

    «Sei ancora giovane», fece.

    «Ma quello che dico è sensato».

    «Lo sarebbe se avessimo l’ingenuità di dire a Chérubin: La vostra Baccarat ci dà molto fastidio e voi ce ne sbarazzerete. Ma possiamo fare in modo che Chérubin l’avveleni senza saperlo».

    «Perbacco!» esclamò Rocambole. «Sarei curioso di sapere come».

    «Lo saprai subito. Piuttosto», s’interruppe sir Williams, «tu devi avere da qualche parte una fialetta blu che abbiamo portato dall’America».

    «Il veleno dei selvaggi?»

    «Sì».

    «La conservo gelosamente. È là dentro». E indicò col dito un mobile di Boulle sistemato in un angolo del salotto.

    «Come sai», riprese sir Williams, «due gocce di quel veleno, che non esiste in Europa e che solo gli indiani conoscono, mescolate con un’essenza o un profumo qualunque, corrompono quest’essenza a tal punto che basta aspirarne l’odore per esserne colpiti mortalmente».

    «Lo so, zio».

    «Ma quello che forse non conosci», proseguì sir Williams, «sono i bizzarri effetti di quel veleno che uccide con i suoi soli vapori. Innanzitutto la morte non è istantanea; anzi, di solito passano da ventiquattro a trenta ore prima che la vittima soccomba. I primi sintomi del male, che si verificano subito, nello spazio di qualche secondo, si manifestano con un eccesso di allegria, di buonumore, che degenera quasi subito in loquacità. Colui che ha respirato il veleno prova subito un senso di ebbrezza che gli scioglie la lingua, gli fa dimenticare ogni prudenza, ogni ritegno, e lo induce a rivelare i segreti che fino a quel momento teneva nascosti con cura in fondo al cuore. Questa frenesia dura circa due ore. Poi sopravviene a poco a poco un cupo abbattimento, una sorta di stanchezza fisica e morale simile a quel beato sopore che si manifesta in coloro che abusano dell’hashish. A partire da quel momento, le forze fisiche e le facoltà intellettuali vengono meno per gradi ma rapidamente. Non si muore, ci si spegne».

    «Ma allora», disse Rocambole, «ecco un sistema meraviglioso per sbarazzarci di Baccarat».

    «Perbacco!» disse sir Williams. «Senza contare che così verremo a sapere da Chérubin le ragioni segrete del suo comportamento».

    «Dubito però che Oscar de Verny acconsenta».

    «Amico mio», disse freddamente sir Williams, «se lo volessi, dovrebbe acconsentire a tutto. Ma penso sia inutile farne il nostro complice. È molto più semplice servirsi di lui come di uno strumento ignaro e passivo».

    «E in che modo?»

    «Innanzi tutto, domattina andrai da un profumiere e comprerai un flacone di aceto aromatico».

    «Bene. E poi?»

    «Poi tornerai a casa e ti metterai dei guanti e una maschera di vetro. Ah, diamine!» fece sir Williams sorridendo, «bisogna andarci piano con quel giochetto lì. Poi stapperai il flacone di aceto, quindi la fiala. Verserai nel primo due gocce del liquido contenuto nella seconda e tapperai di nuovo il tutto con le stesse precauzioni».

    «Benissimo! Ho capito».

    «Dopo di che, consegnerai il flacone a Chérubin dicendogli: Non so fino a che punto Baccarat sia cotta di voi, ma vi giuro che se respirasse per dieci secondi il profumo di questo flacone sarebbe assalita immediatamente da una frenesia che nel giro di dieci minuti la spingerebbe ad adorarvi e la colmerebbe dei sentimenti più teneri ed affettuosi».

    «Cribbio!» esclamò Rocambole. «Questa sì che è un’idea, caro zio. Vi faccio i miei complimenti».

    «E ora», concluse sir Williams, calmo e poco sensibile agli elogi del suo allievo, «discorriamo di quelli che tu chiami gli affari seri».

    «Volete parlare di Dai-Natha?»

    «Sì».

    «Devo andare a trovarla?»

    «Senza dubbio. E ora ti darò le mie istruzioni».

    E zio e nipote si immersero in un lungo colloquio di cui non è il caso di rivelare i particolari; diremo solo che la marchesa Van Hop fu condannata senza appello. Vedremo presto quale fosse il piano abominevole concepito da quel demonio la cui mente audace non indietreggiava davanti ad alcun misfatto.

    III.

    L’indomani del giorno in cui Rocambole e sir Williams avevano meditato e deciso la rovina di Baccarat, Oscar de Verny, comunemente noto come Chérubin, si accingeva a uscire di casa verso le dieci del mattino quando il cameriere gli portò un bigliettino profumato, chiuso in una busta color lilla tenero, che era stato recapitato da un lacchè in livrea. Il giovanotto si mise a sedere in poltrona, annusò il profumo delicato che si sprigionava dalla busta e, prima di rompere il sigillo, si disse: «Questo deve essere o di Baccarat o della marchesa».

    Rotto il sigillo, che non recava né stemma né monogramma, Chérubin estrasse dalla busta una lettera di cui riconobbe la provenienza, sebbene non fosse firmata. La lettera diceva:

    Sono molto contenta di voi e saprò ricompensarvi a tempo e luogo. Avete saputo conservare il mio segreto; in pieno club avete smentito e condannato la vostra condotta. Il mio merlo dorme fra due guanciali e credo che… un giorno o l’altro potrò dimostrarvi la mia riconoscenza. Questa sera alle undici, dal giardino. Il cancello sarà aperto.

    «Diamine!» esclamò Chérubin. «Questa lettera non è firmata, ma Baccarat vi ha scritto il suo nome a ogni parola. Credo proprio di aver vinto la scommessa… Se il conte Artoff è un vero gentiluomo, domani mi verserà cinquecentomila franchi in bei bigliettoni di banca».

    E, messasi in tasca la lettera preziosa, si accingeva a uscire quando si udì una scampanellata. Il signor de Verny aveva visite.

    «Scommetto che è il visconte!» pensò.

    Chérubin non s’ingannava. La porta si aprì e apparve Rocambole. L’elegantone di fresca data era più vispo che mai. Occhio calmo, sorriso sulle labbra, elegante abito da mattina, impertinente monocolo incastrato sotto l’arcata sopraccigliare, tutto denotava in lui una persona assolutamente soddisfatta.

    «Buongiorno, mio caro», disse entrando e tendendo la mano verso Chérubin con un gesto di protezione. «Come vi vanno le cose?»

    «Grazie, mi vanno a meraviglia», rispose Oscar con un tono non meno soddisfatto.

    Rocambole gettò il frustino in un angolo e si sedette accavallando le gambe racchiuse in un paio di eleganti stivali di vernice ornati da piccolissimi speroni. Il falso nobile svedese era venuto a cavallo.

    «Ah!» disse Chérubin. «Dobbiamo discorrere?»

    «Sì, mio caro».

    «Cose serie?»

    «Molto serie. Ma è questione di dieci minuti. Dopo, se volete, andremo a fare un giro al Bois».

    «John!» chiamò il signor de Verny. «Sellami Ebano e stacca Trim dal tilbury. Uscirò fra poco a cavallo».

    Lo staffiere corse a eseguire gli ordini del padrone. Chérubin si sistemò di fronte al suo visitatore.

    «Vi ascolto», disse.

    «Mio caro», riprese il visconte, «prendete una penna e scrivete quello che vi detterò».

    «A chi?»

    «Alla marchesa».

    «Ah!»

    In questa esclamazione c’era un po’ d’incredulità. Chérubin non sembrava molto convinto circa le possibilità di successo della sua lettera. Ai suoi occhi la marchesa era una torre di virtù.

    «Scrivete le stesso», disse l’allievo di Andrea, che aveva indovinato il pensiero del suo interlocutore.

    Quest’ultimo si avvicinò a un tavolino, prese una penna e attese. Rocambole dettò:

    «Signora, se una persona a voi indifferente vi scrivesse e vi chiedesse, per la sua vita, per la sua felicità, per quello che ha di più caro, ciò che io sto per chiedervi, voi non avreste certamente il coraggio di dire di no, perché siete buona come gli angeli, ai quali assomigliate».

    «Ecco

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