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Il possidente: La saga dei Forsyte vol. 1
Il possidente: La saga dei Forsyte vol. 1
Il possidente: La saga dei Forsyte vol. 1
E-book441 pagine7 ore

Il possidente: La saga dei Forsyte vol. 1

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Info su questo ebook

Londra 1886. La ricca famiglia dei Forsyte si riunisce per festeggiare il fidanzamento della giovane June con un architetto, Philip Bosinney, di pochi mezzi ma molte ambizioni.Il fidanzamento sarà la scintilla che porterà il clan dei Forsyte, spietato contro l'esterno e apparentemente unito al proprio interno, a fare i conti con le proprie divisioni e con l'età vittoriana al tramonto.
LinguaItaliano
Data di uscita31 gen 2016
ISBN9788899403348
Il possidente: La saga dei Forsyte vol. 1
Autore

John Galsworthy

John Galsworthy was a Nobel-Prize (1932) winning English dramatist, novelist, and poet born to an upper-middle class family in Surrey, England. He attended Harrow and trained as a barrister at New College, Oxford. Although called to the bar in 1890, rather than practise law, Galsworthy travelled extensively and began to write. It was as a playwright Galsworthy had his first success. His plays—like his most famous work, the series of novels comprising The Forsyte Saga—dealt primarily with class and the social issues of the day, and he was especially harsh on the class from which he himself came.

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    Anteprima del libro

    Il possidente - John Galsworthy

    11

    John Galsworthy, Il possidente (La Saga dei Forsyte vol. 1)

    1à edizione Landscape Books, febbraio 2016

    Collana Aurora n° 11

    © Landscape Books 2016

    Titolo originale: The Man of Property

    Traduzione di Gian Dàuli dall’edizione Corbaccio 1928, riveduta e corretta

    www.landscape-books.com

    ISBN 978-88-99403-34-8

    In copertina: Autumn Morning di John Atkinson Grimshaw.

    Progetto grafico service editoriale il Quadrotto.

    Realizzazione editoriale a cura di WAY TO ePUB

    www.waytoepub.com

    John Galsworthy

    La saga dei Forsyte I

    Il possidente

    Presentazione dell’opera

    La collana Aurora si propone di recuperare classici ormai dimenticati e introvabili della letteratura italiana e internazionale, con un breve apparato critico di approfondimento.

    La saga dei Forsyte, l’opera che più di tutte ha contribuito alla fama di John Galsworthy (e al suo Premio Nobel per la Letteratura), è un curioso ed emblematico esempio di come la letteratura cosiddetta alta possa contaminarsi con i generi più popolari senza per questo perdere appeal se non agli occhi di qualche critico snob.

    La saga si compone di tre romanzi e due interludi, a cui poi seguiranno altre due trilogie meno celebri. Già in questo primo capitolo troviamo tutti gli elementi salienti dell’opera: le passioni nascoste sotto l’aplomb dell’epoca tardo-vittoriana, la lotta della upper-middle class senza sangue blu per emergere non solo economicamente, la scrittura lenta ma trascinante di Galsworthy.

    Il possidente (in originale è più pregnante, Man of property) del titolo non è, come si potrebbe pensare a prima vista, il vecchio Joylon Forsyte, il patriarca, perno morale della famiglia, ma suo nipote Soames, uomo molto più complesso e moderno nei suoi tormenti.

    Non è un caso che la vicenda prenda le mosse – dopo che Galsworthy ci ha abilmente presentato nel complesso la famiglia Forsyte – dalla decisione di Soames di costruirsi una casa in campagna. La decisione ha un doppio scopo: elevarsi in qualche modo nel confronto con gli altri membri della famiglia, e portare via da Londra sua moglie Irene, poiché sente che sta per perderla. Non baderà a spese, ma questo non potrà salvarlo dall’inevitabile destino, destino a cui Galsworthy guarda solo apparentemente con distacco.

    Nel modo in cui si dipana la vicenda umana di Soames e di Irene, c’è tutto l’impegno di Galsworthy per i diritti delle donne e in generale per il progresso dei costumi. In questo senso, La saga dei Forsyte è un perfetto ritratto del mondo vittoriano al crepuscolo e, nascosto sotto le vesti di un romanzo di famiglia, un canto d’attesa per l’arrivo di una nuova epoca.

    Nel nostro paese, nonostante la Saga sia stata una lettura obbligata per la buona società tra gli anni ’30 e ’50, è oggi sparita dai cataloghi.

    La traduzione che ripubblichiamo oggi (opportunamente aggiornata al gusto corrente) è quella di Gian Dàuli, la prima apparsa in Italia. Questo ci permette così, tra l’altro, di celebrare un pioniere dell’editoria italiana moderna, al settantesimo anniversario della scomparsa, e l’uomo che con la sua casa editrice Aurora ha idealmente ispirato il nome della presente collana.

    Parte prima

    1.

    Ricevimento in casa del vecchio Jolyon

    Quelli che hanno avuto il privilegio di assistere a una festa di famiglia in casa dei Forsyte hanno goduto uno spettacolo pieno a un tempo di attrattiva e di insegnamenti: e cioè la gran parata di una famiglia della ricca borghesia. Ma qualcuno di quei privilegiati che aveva per caso qualche dote di chiaroveggenza psicologica (un dono che non ha nessun valore monetario e che i Forsyte ignorano) è stato anche, in quell’occasione, testimone di una scena che getta luce su di un oscuro problema umano. In altri termini, dall’adunata di quella famiglia, nella quale non sarebbe stato possibile identificare tre membri legati fra loro da un solo sentimento che meritasse il nome di simpatia, si è sprigionata per quello spettatore l’evidenza della misteriosa e concreta forza di coesioni che fa appunto della famiglia un’unità sociale così formulabile, una così precisa riproduzione in miniatura della società.

    Egli è stato ammesso a vedere le confuse strade battute dal progresso sociale, ha compreso qualche cosa di ciò che si chiama la vita patriarcale, del brulicare delle orde selvagge, del crescere e decadere delle nazioni. Fu per lui allora come se avendo guardato innalzarsi dal giorno della piantagione un albero ammirevole per vitalità in mezzo a cento altre piante che, meno ricche di fibra, di linfa e di resistenza, soccombevano, lo vedesse un giorno aprire tutto il fogliame folto e tranquillo, nel punto culminante del rigoglio.

    Il 15 giugno dell’anno 1886, verso le quattro del pomeriggio, un osservatore che si fosse trovato nella casa del vecchio Jolyon Forsyte a Stanhope Gate avrebbe potuto proprio contemplare l’efflorescenza suprema dei Forsyte.

    La casa celebrava il fidanzamento della signorina June Forsyte, nipote del vecchio Jolyon, con Philip Bosinney. L’intera famiglia era presente – negli abbigliamenti più belli, guanti chiari, panciotti di camoscio, piume, abiti da cerimonia. La stessa zia Ann era venuta, lei che non lasciava più, se non rarissime volte, l’angolo del salotto verde di suo fratello Timothy – dove, sotto un pennacchietto di erba tinta delle pampas, che si alzava da un vaso azzurro e chiaro, restava seduta tutto il giorno a leggere e a lavorare a maglia, circondata dalle riproduzioni in effige di tre generazioni dei Forsyte.

    Sì, la stessa zia Ann era là, e il suo rigido dorso e la calma dignità della sua vecchia figura personificavano quello stretto e profondo spirito di possesso che era l’anima della famiglia.

    Quando un Forsyte nasceva, si fidanzava, si sposava, i Forsyte erano presenti: quando un Forsyte moriva… ma nessun Forsyte era morto fino a quel giorno… Essi non morivano, poiché la morte era contraria ai loro principi; prendevano contro di essa delle precauzioni; le precauzioni di una potente vitalità che respinge ogni invasione ingiusta.

    I Forsyte, che in quel giorno si mescolavano alla folla degli invitati, sembravano più accurati e più vivaci del solito; avevano una specie di arzilla baldanza, un’aria brillante di rispettabilità; si sarebbe detto che si erano preparati per sfidare qualche cosa. L’aspetto di disdegno diffidente che era abituale alla fisionomia di Soames Forsyte aveva guadagnato tutti gli ordini della famiglia che, al completo, sembrava mobilitata e di guardia. E quell’atteggiamento inconsciamente aggressivo della famiglia in quel giorno, in casa del vecchio Jolyon, segnava un momento psicologico della sua storia e il preludio del dramma che doveva lacerarla.

    Qualche cosa eccitava la loro ostilità, l’ostilità del gruppo piuttosto che dei singoli; un tale sentimento era espresso dall’accresciuta perfezione della loro toilette, da un’espansione di cordialità familiare, da una specie di esagerazione dell’importanza della famiglia e infine da quell’impercettibile aria di diffidenza e di disdegno. Il pericolo – la sola cosa che può fare affiorare la qualità fondamentale di ogni società, di ogni gruppo e di ogni individuo – ecco quello che i Forsyte fiutavano intorno. Il presentimento del pericolo li metteva in quell’atteggiamento di difesa; per la prima volta, come famiglia, sembravano intuire che si trovavano in contatto con una cosa straniera e inquietante.

    Appoggiato dietro al pianoforte, stava un uomo di statura imponente che portava due panciotti sul suo petto largo e due rubini sulla cravatta invece dell’unico panciotto e della spilla di diamante che metteva in occasioni più normali. La sua vecchia faccia quadrata color cuoio pallido, con pallidi occhi, aveva, sopra il colletto di seta, la massima espressione di dignità. Era Swithin Forsyte.

    Vicino alla finestra, dove poteva assorbire la propria parte e più di aria fresca, suo fratello gemello James che, come il massiccio Swithin, era alto quasi due metri ma magrissimo come se dalla nascita fosse stato destinato a ristabilire l’equilibrio in una buona media (il piatto e il filo della stessa lama, diceva il vecchio Jolyon parlando dei due gemelli), sempre curvo, meditava su ciò che vedeva. I suoi occhi grigi sembravano assorti e fissi per qualche segreta faccenda, ma di tanto in tanto facevano un esame rapido e furtivo di ciò che accadeva attorno a lui. Le sue guance smagrite da due rughe parallele e il suo labbro superiore lungo e rasato erano inquadrati dalle basette. Teneva in mano, voltandolo e rivoltandolo, un ninnolo di porcellana. Non lontano, in ascolto di quello che gli diceva una donna dal vestito color marrone, il suo unico figlio Soames – pallido, completamente rasato, bruno, un po’ calvo – alzava obliquamente il mento e il naso, portandoli con quell’aria di sdegno diffidente di cui si è già parlato, come se volesse disprezzare un uovo che sapesse di non poter digerire.

    Dietro di lui suo cugino, il gran George, figlio di Roger, il quinto dei Forsyte, ruminava una delle sue sardoniche facezie che già imprimeva alla sua faccia carnosa un’aria di contegnosa ironia.

    Ma li muoveva tutti qualche cosa d’inerente a quella circostanza speciale.

    Tre vecchie signore erano sedute in rango, vicine l’una all’altra: la zia Ann, la zia Hester – le due vecchie zitelle della famiglia Forsyte – e Juley (diminutivo di Julia) che in altri tempi, in un’età già non più troppo giovane, si era lasciata andare al punto di sposare Septimus Small, uomo di poca salute. A questo marito sopravviveva da lunghi anni: ora abitava con le sue due sorelle la casa di Timothy, il sesto e il più giovane dei fratelli, in Bayswater Road. Quelle dame avevano ognuna un ventaglio in mano e, nelle toilette, qualche nota di colore, qualche fermaglio o qualche piuma, messa in modo evidente ad attestare la solennità dell’occasione.

    Nel centro della stanza, sotto il lampadario, come si conveniva all’ospite, stava il capo della famiglia, il vecchio Jolyon. Con i suoi ottant’anni, i bei capelli bianchi, la fronte che richiamava l’immagine di una cupola, i piccoli occhi color grigio scuro e i grandi baffi, che cadevano e si stendevano più in basso della forte mascella, aveva l’aria di un patriarca e, malgrado le guance smagrite e le tempie scavate, sembrava possedere la giovinezza eterna. Stava quasi eccessivamente diritto: lo sguardo fermo e sagace non aveva in nulla perduto la sua luce. Dava così l’impressione di essere al disopra dei dubbi e delle avversioni che agitano i più piccoli uomini; avendo sempre attuato la sua volontà da un tempo così lontano che non lo si contava più, aveva conquistato una specie di imprescrittibile diritto al dominio. E non sarebbe mai venuto in mente al vecchio Jolyon che potesse essere necessario assumer un atteggiamento di inquietudine e di sfida.

    Fra lui e i suoi quattro fratelli presenti, James, Swithin, Nicholas e Roger, c’erano molte differenze e molte analogie. A sua volta ciascuno di quei quattro fratelli era diversissimo dagli altri; e tuttavia tutti avevano una somiglianza comune. Attraverso i tratti e le espressioni diverse di quei cinque visi si poteva notare una certa ferma consistenza del mento: questo tratto, sotto le dissimiglianze superficiali, era una caratteristica di razza troppo antica perché si potesse cercarne l’origine, troppo persistente perché si potesse discuterla; era come il marchio stesso della famiglia e la garanzia dei suoi successi. Nella generazione dei giovani, nel gran George con la sua aria di toro; nel tipo pallido e volitivo di Archibald; in Nicholas, il figlio dalla dolce e prudente ostinazione; nel grave Eustace ardito e fatuo, si ritrovava quello stesso tratto caratteristico: forse meno accentuato, tale tuttavia da non dar luogo a inganni: era il segno di qualche cosa d’indistruttibile nell’anima stessa della famiglia.

    In un momento o in un altro, durante quel pomeriggio, tutti quei volti tanto differenti e tanto uguali avevano preso la stessa espressione di diffidenza – diffidenza che senza dubbio era diretta verso colui che la famiglia era venuto, in quel giorno, a conoscere.

    Di Philip Bosinney si sapeva che non era ricco; ma in precedenza erano avvenuti fidanzamenti e anche matrimoni di ragazze della famiglia Forsyte con giovani senza ricchezza. Non era dunque questa la vera ragione del turbamento che s’insinuava nell’anima dei Forsyte. Essi stessi non avrebbero potuto spiegare l’origine di una specie di presentimento che le chiacchiere in corso nella famiglia avevano reso anche più oscuro. Si diceva, ed era certo, che il giovane aveva fatto la sua prima visita alle zie Ann, Hester e Juley con un cappello di feltro grigio e floscio, un feltro floscio e nemmeno nuovo, una cosa polverosa e informe! La zia Hester, attraversando la piccola e scura anticamera, aveva voluto scacciare quella cosa battendo le mani, poiché – miope com’era – l’aveva presa per qualche gatto bizzarro e mal tenuto… («Tommy aveva amici inconfessabili!») ed era rimasta sconcertata vedendo che si muoveva.

    Come un artista che cerca sempre di scoprire le inezie significative nelle quali si riassume il carattere di una scena, di un luogo, di una persona, i Forsyte, questi inconsci artisti, avevano tutti istintivamente fissato la loro attenzione su quel cappello. Fu per essi il piccolissimo indice nel quale passa il senso effettivo di tutta una situazione. Ognuno infatti si era chiesto:

    «Vediamo, io avrei forse fatto questa visita con un cappello simile?»; e ognuno s’era risposto: «No» aggiungendo i più fantasiosi: «Una tale idea non mi sarebbe mai venuta!». George, quando gli fu raccontata la storiella, si mise a sghignazzare. Quel cappello! Ma evidentemente era una burla! Egli se ne intendeva.

    «Molto altezzoso», disse «il Masnadiero!».

    Questa parola, Masnadiero, fece il giro e fu presto generalmente adottata per designare Bosinney.

    Le zie rimproverarono June a proposito del cappello.

    «Noi pensiamo che tu non dovresti perdonargli questo, cara…»

    June aveva risposto nel suo modo imperioso e vivace, da quella piccola incarnazione di volontà che era:

    «Oh! che importanza può avere questo? Phil non sa mai quello che porta!».

    Ma nessuno aveva prestato fede a una risposta così urtante. Un uomo che non sa quello che porta? Ma no; ma no!…

    Dunque chi era questo giovane che fidanzandosi con June, l’erede riconosciuta del vecchio Jolyon, faceva un così buon affare? Architetto? Questo non bastava a scusare un simile cappello. Si dava il caso che nessuno dei Forsyte fosse architetto, ma uno di essi ne conosceva due che mai si sarebbero messi in testa un feltro floscio per una visita di cerimonia, a Londra, durante la season. C’era lì qualcosa di pericoloso.

    June, naturalmente, non vedeva il pericolo; ma ella, sebbene non avesse ancora compiuto diciannove anni, era già un’originale. Non aveva detto, proprio lei, alla signora Soames sempre così ben acconciata, che era troppo ordinario portare delle piume? E la signora Soames era giunta a rinunciare alle piume: quella cara June aveva modi così perentori!

    Questi dubbi, questi biasimi, questa diffidenza del tutto sincera, non impedirono ai Forsyte di riunirsi all’invito del vecchio Jolyon. Un ricevimento a Stanhope Gate era cosa rarissima: non ce n’erano stati da otto anni, e precisamente dalla morte della signora Jolyon.

    I Forsyte non si erano mai riuniti in modo così completo; poiché, misteriosamente collegati come erano malgrado ogni loro divergenza, avevano preso le armi contro un pericolo comune. A guisa di un armento allorché un cane forestiero entra nel chiuso, si stringevano testa a testa, spalla a spalla, pronti a partire in carica contro l’intruso e a calpestarlo a morte.

    Senza dubbio, però, erano anche venuti per farsi un’idea del regalo che dovevano fare. Per quanto la scelta di un regalo di nozze, generalmente, venisse preceduta da domande come questa: «Voi che cosa date? Nicholas regala dei cucchiai», la scelta stessa dipendeva molto dal fidanzato. Se questi aveva il viso florido, i capelli ben spazzolati, un’aria di benessere, diventava allora necessario regalargli qualche graziosa cosa; certo, egli ci avrebbe fatto assegnamento. E infine, per una specie di accordo di famiglia al quale si arrivava come i prezzi arrivano a fissarsi sul mercato, ognuno dava esattamente in regalo quanto era conveniente e giusto. Le ultime valutazioni venivano fatte nella casa a mattoni rossi di Timothy, gradevole casa, con una veduta sul parco, dove abitavano le zie Ann, Juley e Hester.

    Ora l’episodio del cappello bastava da solo a giustificare il disagio della famiglia Forsyte. Non provare un tale disagio sarebbe stato un cattivo segno per una famiglia nella quale viveva, fortunatamente, quel culto delle apparenze che deve sempre contrassegnare l’alta borghesia… e sarebbe stato d’altra parte impossibile.

    Il colpevole di tutto questo era in piedi vicino alla porta in fondo e parlava con June. Con i suoi capelli ondulati e in disordine sembrava avesse la sensazione di essere in un ambiente insolito; e sembrava anche si divertisse fra sé e sé. George disse piano al fratello Eustace:

    «Dà l’impressione di uno che potrebbe benissimo levarsi di torno, quell’indomabile Masnadiero!».

    Quest’uomo di singolarissima apparenza, come più tardi dirà la zia Juley, era di media statura, ma di costituzione robusta. Volto pallido e bruno, baffi scuri, zigomi sporgenti e guance affilate. La fronte correva come in pendio verso il sommo della testa, ma sopra gli occhi si rilevava ad arco dando così l’immagine di quelle fronti che si vedono nella gabbia dei leoni al giardino zoologico. Aveva pupille di un bruno liquido e dorato e lo sguardo era a volte tanto distratto da sconcertare. Il cocchiere del vecchio Jolyon, di ritorno dall’aver condotto June e Bosinney al teatro, aveva detto al maggiordomo: «Non so proprio cosa pensarne. Mi fa l’effetto di un leopardo non del tutto addomesticato».

    Di tanto in tanto un Forsyte si avvicinava alla porta presso la quale i fidanzati parlavano, gironzolava lì attorno e sogguardava Bosinney.

    June si protendeva un po’ in avanti come per respingere quella inutile curiosità. Era una piccola fragile creatura – «una fiamma di capelli e di energia» si era detto di lei – con intrepidi occhi azzurri, una mascella disegnata con fermezza, un colorito luminoso; quel viso e quel corpo sembravano troppo esigui per la corona di luce della sua gran treccia di rosso oro. Una donna alta, ammirevole di linee, che un membro della famiglia aveva un giorno paragonato a una dea pagana, stava in piedi lì vicino e guardava i fidanzati, sorridendo con qualche ombra di tristezza. Le sue mani guantate in grigio stavano incrociate l’una sull’altra, il volto grave e vezzoso era chinato da una parte e attirava a sé gli occhi di tutti gli uomini. Il corpo flessuoso aveva un’armonia così precisa e così leggera che sembrava muoversi col movimento stesso dell’aria. Il colore delle guance era pallido ma caldo; una vellutata dolcezza stava nei suoi occhi grandi e oscuri; ma le sue labbra, le sue labbra che facevano una domanda o davano una risposta con quel sorriso velato da un’ombra, erano quelle che trattenevano gli sguardi degli uomini; labbra sensitive, tenere e soavi dalle quali come da un fiore sembravano generarsi il calore e il profumo.

    I fidanzati, che ella osservava, non sentivano la presenza di quella passiva deità. La notò per primo Bosinney e ne domandò il nome.

    June condusse il fidanzato dalla bella donna.

    «Irene è la mia amica inseparabile», disse. «Vi prego, tutti e due, di diventare buoni amici».

    A tale ordine della giovinetta tutti e tre sorrisero; e mentre essi sorridevano, Soames Forsyte apparve silenziosamente accanto alla bella donna della quale era il marito e disse:

    «Ah! Presentate anche me!».

    Era raro trovarlo lontano da Irene durante una riunione, e anche quando le esigenze della conversazione lo allontanavano da lei, ancora la seguiva con lo sguardo e i suoi occhi avevano una strana espressione di vigilanza e di desiderio.

    Alla finestra James, suo padre, esaminava sempre la marca del ninnolo di porcellana.

    «Mi stupisce che Jolyon abbia permesso questo fidanzamento», diceva alla zia Ann. «Mi si dice che non hanno nessuna probabilità di sposarsi prima di molti anni. Questo giovane Bosinney», egli pronunciava il cognome come un dattilo, malgrado comunemente se ne pronunciasse il Bo corto, «non ha nulla. Quando Dartie ha sposato Winifred, io volli che egli intestasse tutto a sua moglie: fortunatamente! Poiché a quest’ora non avrebbe più un soldo!».

    Accomodata nella sua poltrona di velluto, la zia Ann alzò la testa. Le coprivano la fronte alcuni ciuffi di capelli grigi che, immutabili da molte decine di anni, avevano abolito nella famiglia la sensazione del tempo. Non disse nulla, perché parlava raramente e trattava con ogni riguardo la sua vecchia voce; ma per James, che non aveva la coscienza a posto, il suo sguardo equivaleva a una risposta.

    «In fede mia! È vero che Irene non aveva denari, ma io proprio non potevo far nulla. Soames si era talmente innamorato! Nel tempo che la corteggiava era molto dimagrito». Posando con malumore sul pianoforte la tazza di porcellana, lasciò vagare il suo sguardo fino al gruppo che si era formato vicino alla porta.

    «Ho idea», disse a un tratto, «che la cosa non sia più così a mal partito».

    La zia Ann non gli domandò di spiegare questa frase singolare: conosceva il suo pensiero. Irene, poiché non aveva denari, non sarebbe tanto sciocca da dimenticare i propri doveri… Poiché si diceva – si diceva! – che Irene aveva chiesto camere separate; ma, beninteso, Soames non aveva…

    James le interruppe la meditazione:

    «Dov’è dunque Timothy? Forse non è venuto con voi?». Un sorriso di tenerezza distese le labbra strette della zia Ann.

    «No, Timothy ha pensato che non era prudente venire, con questa difterite che c’è dappertutto; è così facile per lui buscare dei malanni!»

    James rispose:

    «Ebbene, ecco uno che sa aver cura di sé. In quanto a me, non posso prendermi il lusso di curarmi tanto».

    E non si sarebbe potuto dire se in questa osservazione ci fosse più ammirazione o più invidia o più sprezzo.

    Timothy lo si vedeva di rado. Il beniamino della famiglia, editore di professione, aveva presagito qualche anno prima, in pieno periodo di abbondanza d’affari, la crisi che effettivamente non era ancora avvenuta ma che, secondo l’opinione di tutti, era inevitabile. Venduta la sua parte di una casa editrice che pubblicava principalmente libri edificanti, aveva collocato il considerevole profitto di tale operazione in titoli di Stato. Con ciò si era fatto un posto a parte nella famiglia, poiché ogni altro Forsyte voleva per il proprio denaro il quattro per cento; e questo isolamento, con azione lenta ma sicura, aveva atrofizzato l’energia di uno spirito troppo prudente. Quasi un mito era, così, divenuto Timothy; una specie d’incarnazione dello spirito di Sicurezza, sempre sullo sfondo dell’universo dei Forsyte.

    James, battendo la tazza di porcellana, riprese:

    «Questo non è del vero vecchio Worcester. Suppongo che Jolyon ti abbia detto qualcosa del giovane, non è vero? In quanto a me, tutto quello che so è che non lavora, non ha ricchezza, non ha una famiglia di cui valga la pena di parlare, ma dopo tutto io non so niente… nessuno mi dice mai niente».

    La zia Ann scosse la testa. Un tremito passò sul vecchio volto dalle linee aquiline e dal mento quadrato, le sue dita simili a zampe di ragno si premevano e s’intrecciavano fra loro, come se con questo mezzo lei riuscisse misteriosamente a ricaricare la propria volontà.

    Più vecchia (di molti anni) degli altri Forsyte, godeva fra essi di una particolare posizione. Opportunisti e individualisti tutti – senza esserlo, del resto, più che i loro vicini – i Forsyte tremavano davanti al volto incorruttibile di lei, e quando le buone occasioni di peccato contro lo spirito familiare diventavano troppo tentatrici, cercavano, nascondendosi, di sfuggirla.

    E James continuava, attorcigliando le gambe lunghe e magre:

    «Jolyon non ascolta nessuno. Non ha figli…».

    Si fermò, ricordandosi che il figlio del vecchio Jolyon viveva ancora, il padre di June, il giovane Jolyon, che aveva venduto proprio a vil prezzo la sua vita ed era caduto dalla dignità della casta il giorno in cui aveva abbandonato moglie e figlia ed era fuggito con una governante straniera.

    «Ebbene», riprese poi in fretta, «se il fare simili cose a lui dà piacere, suppongo che avrà le sue ragioni. Vediamo, che dote potrà darle? Una rendita di mille sterline, suppongo; non ha altre persone alle quali lasciare il suo denaro».

    Qui, stese la mano per stringere quella di un ometto pulito e rasato, quasi interamente calvo, con un lungo e debole naso, labbra piene, occhi freddi e grigi sotto le sopracciglia rettangolari.

    «Guarda un po’: Nick!», borbottò James. «Come stai?»

    Nicholas Forsyte, con la sua rapidità di uccello e la sua aria di scolaro superlativamente saggio (aveva fatto una grande fortuna, con mezzi del tutto legittimi, nelle società delle quali era direttore), mise nel palmo freddo di James la punta delle sue dita ancor più fredde e subito le ritirò.

    «Non sto bene», rispose con una smorfia. «Indisposto tutta la settimana; non dormo. E il mio dottore non sa spiegarmi il perché. È un ragazzo intelligente, altrimenti non l’avrei preso, ma non riesco a fargli dire altro che la cifra dei suoi onorari».

    «I dottori!», disse James, entrando con vivacità nell’argomento. «Io ho proprio visto tutti i dottori di Londra, per l’uno o per l’altro di noi, nella casa. Non servono a niente, mai, qualunque cosa dicano. Ecco Swithin, ad esempio. A lui, che bene hanno fatto i dottori? Eccolo, è più grosso che mai, è quasi enorme; essi non sono riusciti a fargli perdere una libbra di peso. Guardalo!»

    Swithin Forsyte, alto, largo, quadrato, col petto convesso come quello di un grosso piccione, nelle piume dei suoi panciotti strepitosi, si avvicinò pavoneggiandosi.

    «Euh! Come va?», disse col suo tono più chic. «Come va?»

    Ciascuno dei fratelli, guardando gli altri due, aveva un’espressione di molestia, poiché sapeva per esperienza che non gli sarebbe permesso di pretendersi più ammalato di loro.

    «Stavamo appunto dicendo», rispose James, «che tu non dimagrisci».

    Gli occhi tondi e pallidi di Swithin divennero sporgenti, nello sforzo che fece per capire.

    «Che io non dimagrisco? Certo ho una buona costituzione», disse protendendo un poco la testa; «non sono mica un palo come te!».

    Ma, nel timore di diminuire la bellezza della convessità del suo petto, si raddrizzò e rimase immobile; sopra ogni cosa egli teneva in pregio il portamento distinto.

    La zia Ann volgeva dall’uno all’altro il suo vecchio sguardo, con espressione austera, ma indulgente. A loro volta i tre fratelli guardavano Ann. Ella cominciava ad apparire indebolita. Ma che donna sorprendente! Ottantasei anni suonati; poteva viverne ancora dieci, e non aveva mai goduto molta salute. Swithin e James, i gemelli, non avevano che settantacinque anni; Nicholas settanta, un ragazzo! Tutti erano di buona costituzione e la vista di zia Ann non poteva perciò che incoraggiarli. Naturalmente, di tutte le forme di proprietà, quella che a loro stava più a cuore era la propria rispettiva salute.

    «In quanto a me, sto molto bene fisicamente», cominciò James, «ma sono i nervi che non vanno… Il minimo fastidio mi dà inquietudini mortali… Bisognerà che vada a Bath».

    «Bath!», disse Nicholas. «Io ho provato Harrogate. Tutte questo non serve a nulla. Per me è necessaria l’aria del mare. Niente vale quanto Yarmouth. Almeno, quando son là dormo».

    «Il mio fegato è in pessime condizioni», interruppe Swithin con voce lenta. «Sento uno spaventoso male qui». E portò la mano a destra.

    «Mancanza di moto», borbottò James, con gli occhi fissi sulla tazza di porcellana; e aggiunse rapidamente: «Anch’io ho male là».

    Swithin diventò rosso, tanto che sul suo vecchio viso passò l’espressione di una vaga rassomiglianza con un tacchino.

    «Moto!», disse; «ma io ne faccio molto. Al club non salgo mai con l’ascensore».

    «Non sapevo», barbugliò James in fretta. «Io non so niente su nessuno; nessuno mi dice mai niente».

    Swithin lo fissò sgranando gli occhi e gli domandò:

    «Cosa fai tu, quando senti un dolore da qualche parte?».

    A questo, la fisionomia di James si rischiarò.

    «In quanto a me», fece, cominciando, «io prendo una misura…».

    «Come state, zio mio?»

    Gli era davanti June con la mano tesa, e alzava verso lui, che era alto, la sua testolina risoluta.

    Il lume della soddisfazione si spense sul volto di James.

    «Come stai?», disse chinato su di lei con un’aria assorta. «Dunque tu parti domani per il Galles? Vai a vedere le zie del tuo giovinotto? Troverai molta pioggia laggiù. Questo non è vero vecchio Worcester» e batteva sulla tazza. «Il servizio che regalai a tua madre quando si è sposata era di Worcester vero».

    June scambiò una stretta di mano con ognuno dei suoi tre vecchi zii e si voltò verso la zia Ann. Sulla fisionomia di questa si era dipinta un’espressione dolcissima: baciò sulle gote la giovinetta con tremante fervore.

    «Ebbene, piccola!», disse. «Te ne vai dunque per tutto un mese?».

    La giovinetta si allontanò e la zia Ann l’accompagnò con lo sguardo. I suoi occhi tondi, di un grigio d’acciaio, sui quali cominciava a stendersi una macchia simile a una palpebra d’uccello, seguivano penosamente attraverso i gruppi in moto – poiché già cominciavano i commiati – la figura sottile della nipote. Nel tempo stesso congiungeva le mani e, premendo le une sulle altre le estremità delle dita, sembrava ricaricare così la propria volontà contro il grande inevitabile distacco.

    , pensava, tutti sono stati molto buoni. Quanta gente è venuta a felicitarsi con lei! Deve essere ben felice!. Nella ressa che si accalcava davanti alla porta – la folla ben vestita che rappresentava famiglie di avvocati, di dottori, di uomini di finanza, insomma tutto ciò che eccelleva nelle numerose carriere della grande borghesia – i Forsyte non erano che il venti per cento; ma alla zia Ann sembravano tutti dei Forsyte, e d’altra parte non c’era grande differenza fra gli uni e gli altri; ella non vedeva che quelli della sua carne e del suo sangue. Quella famiglia era il suo universo, il solo forse che mai avesse conosciuto: tutti i loro piccoli segreti, le malattie, i fidanzamenti, i matrimoni, i loro progressi e i loro guadagni: tutto questo formava la proprietà della zia Ann e anche la sua gioia e la sua vita; e al di là di questo non c’era per lei che un’oscura e indistinta nebbia di avvenimenti e di persone senza effettiva realtà. Questo universo ella avrebbe dovuto abbandonare, il giorno in cui fosse venuta la sua volta di morire; ciò le dava l’importanza, quella segreta importanza in cospetto di noi stessi, senza la quale nessuno di noi può sopportare la vita. A questo si aggrappava con un’apprensione e con un’avidità che ogni giorno crescevano. Se piano piano la vita le sfuggiva, almeno questo potrebbe conservarlo fino alla fine.

    Pensava al padre di June, al giovane Jolyon che era fuggito con una straniera. Ah, che colpo per Jolyon e per tutti loro! Un giovane che prometteva tanto! Che colpo davvero, sebbene non ci fosse stato pubblico scandalo: fortunatamente la moglie di Jolyon non aveva domandato il divorzio. Era passato molto tempo! E quando la madre di June era morta, erano allora otto anni, Jolyon aveva sposato quella donna e aveva avuto due figli, a quanto si diceva. Comunque, egli aveva perduto il diritto di essere lì; e per colpa sua Ann non poteva riposarsi nella pienezza del proprio orgoglio familiare; egli le aveva tolto la legittima gioia di vederlo e di baciarlo, proprio lui che la rendeva un tempo così superba, giovane che prometteva tanto! Tale pensiero s’inaspriva per tutta l’amarezza di un’offesa patita a lungo nel vecchio cuore tenace; e alcune lacrime le inumidirono gli occhi. Le asciugò furtivamente con un fazzoletto di finissimo lino.

    «Ebbene, zia Ann!», disse una voce dietro di lei.

    Soames Forsyte, faccia tutta glabra, guance piatte, spalle piatte, vita piatta, e tuttavia con qualcosa di sfuggente e segreto in tutta la persona, abbassava sulla zia Ann uno sguardo obliquo, come se tentasse di vedere attraverso il suo stesso naso.

    «Che cosa pensate di questo matrimonio?»

    Gli occhi della zia Ann si posavano su di lui con orgoglio. Il più grande dei suoi nipoti, poiché il giovane Jolyon aveva lasciato il cerchio della famiglia, era divenuto ora il suo preferito: indovinava in lui un sicuro depositario dello spirito familiare del quale presto avrebbe dovuto abbandonare la tutela.

    «Il giovane ha trovato fortuna», rispose. «Del resto ha una bella figura. Mi domando se è proprio il fidanzato che conveniva alla cara June».

    Soames palpava lo sporto di un lampadario dorato.

    «Lo addomesticherà», disse, e furtivamente si bagnò un dito per passarlo sul rigonfio del lampadario. «Vera doratura antica. Adesso non se ne trovano più. Ci si farebbe del denaro, all’incanto, da Jobson».

    Metteva nelle sue parole una certa anima, come se le credesse adatte a riconfortare la vecchia zia. Di rado si mostrava tanto incline alle confidenze.

    «Non mi dispiacerebbe averlo per me, questo lampadario», aggiunse, «la doratura vecchia la si vende per quanto si vuole».

    «Tu t’intendi molto di queste cose», disse la zia

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