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La prateria
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E-book558 pagine8 ore

La prateria

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La Prateria è il terzo romanzo della serie di Calza di Cuoio, dopo "I pionieri" e il celebre "L'ultimo dei Mohicani" ed è ambientato nelle Grandi Pianure, dove il protagonista Natty Bummpo si è rifugiato in cerca di un posto dove la natura sia ancora inviolata. Ormai anziano e ridotto a fare il trapper, ha l'opportunità di fare da scout a un gruppo di coloni guidati dal sanguigno Ishmael Bush. Da qui inizierà una serie di avventure che porterà il vecchio cacciatore a incontrare i nipoti di alcuni vecchi amici e confrontarsi con le tribù di pellirossa che rivendicano i diritti sul territorio a ovest del Mississippi.
LinguaItaliano
Data di uscita31 dic 2017
ISBN9788899403430
La prateria
Autore

James Fenimore Cooper

James Fenimore Cooper (1789-1857) was an American author active during the first half of the 19th century. Though his most popular work includes historical romance fiction centered around pioneer and Native American life, Cooper also wrote works of nonfiction and explored social, political and historical themes in hopes of eliminating the European prejudice against Americans and nurturing original art and culture in America.

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    Anteprima del libro

    La prateria - James Fenimore Cooper

    25

    J. Fenimore Cooper, La prateria

    1a edizione Landscape Books, dicembre 2017

    Collana Aurora n° 25

    © Landscape Books 2017

    Titolo originale: The prairie

    Traduzione di Beatrice Boffito Serra dall’edizione Rizzoli

    del 1954, riveduta e corretta.

    www.landscape-books.com

    ISBN 978-88-99403-43-0

    In copertina: Sea Coast, Sunrise di Frederick Richard Lee

    Progetto grafico: service editoriale il Quadrotto

    Realizzazione editoriale a cura di WAY TO ePUB

    www.waytoepub.com

    J. Fenimore Cooper

    La prateria

    Presentazione dell’opera

    La collana Aurora si propone di recuperare classici ormai dimenticati e introvabili della letteratura italiana e internazionale, con un breve apparato critico di approfondimento.

    Scritto nel 1827, un anno dopo l'uscita del suo capolavoro L'ultimo dei Mohicani, La Prateria permette a James Fenimore Cooper di dare un seguito alla vicenda di Natty Bummpo, il cacciatore e scout apparso per la prima volta ne I Pionieri. Quello che ritroviamo qui è però un personaggio molto diverso da quello visto in precedenza: sono passati quasi cinquant'anni dai fatti narrati ne L'ultimo dei Mohicani e più di dieci da I Pionieri, Natty (che non viene mai chiamato per nome) ha superato gli ottant'anni e si è ritirato nelle Grandi Pianure in cerca di un posto dove non si senta il rumore degli alberi che vengono tagliati.

    Come nei precedenti romanzi di Cooper (e nei successivi due, che riprenderanno in retrospettiva le avventure della gioventù di Calza-di-Cuoio), è molto importante l'aspetto storico che fa da cornice alla vicenda.

    Sono passati pochi mesi dall'acquisto della Louisiana, e migliaia di coloni si spostarono verso Ovest in cerca di nuove terre in cui stabilirsi, spesso incuranti delle popolazioni indigene che abitavano quei luoghi. Queste figure sono ben identificate da Ishmael Bush e dalla sua famiglia, che non riconosce legge se non quella del più forte e vede gli indiani come poco più che bestie.

    È sorprendente vedere come un autore della prima metà del XIX secolo come Cooper abbia una sensibilità moderna nel trattare il tema dei nativi americani, che anche in questo caso vengono visti come bon sauvage, e anche se spesso alcune figure appaiono stereotipate agli occhi di oggi (ma non potrebbe essere altrimenti) molti dei pellerossa sono personaggi complessi e sfaccettati al pari (se non di più) dei bianchi.

    Il successo de L'ultimo dei Mohicani spinse Cooper a inserire in questo romanzo moltissimi richiami al precedente, a partire dall'inserimento della figura di Duncan Middleton, nipote di Duncan Heyward e Alice Munro, che porta come secondo nome quello di Uncas, il figlio di Chingachgook.

    PREFAZIONE DELL’AUTORE

    La formazione geologica di quel tratto della Confederazione Americana che si stende tra gli Alleghany e le Montagne Rocciose ha dato origine a molte ardite teorie. In realtà il complesso di quella immensa regione è una pianura. Per una lunghezza di circa 1500 miglia ad est e ad ovest, e di 600 a nord e a sud, non vi s’incontra una sola elevazione degna del nome di montagna. Perfino le colline vi sono rare, benché gran parte della superficie della regione presenti più o meno l’aspetto ondulato, come è descritto nelle pagine introduttive di questo volume.

    Ci sono molte ragioni per ritenere che il territorio che attualmente racchiude l’Ohio, l’lllinois, l’Indiana, il Michigan e un vasto tratto del paese ad ovest del Mississippi si trovasse un tempo sott’acqua. Il suolo di tutti gli Stati nominati presenta i caratteri di un deposito alluvionale; e vi sono rocce isolate, di natura e di aspetto tali, che è difficile confutare l’opinione che esse siano state trasportate nei loro alvei attuali dal ghiaccio galleggiante. Questa teoria presuppone che i Grandi Laghi fossero le pozze più profonde di un unico, immenso complesso d’acqua dolce, che si trovavano a un livello troppo basso per esser prosciugate dal cataclisma che mise a nudo il suolo.

    Si ricorderà che i francesi, allorché erano i padroni del Canada e della Louisiana, rivendicarono a sé tutto il territorio di cui si tratta. I loro cacciatori e le loro truppe di punta stabilirono le prime comunicazioni con i selvaggi abitatori, e i primi resoconti scritti che possediamo intorno a quelle sterminate regioni provengono dalla penna dei loro missionari. Di conseguenza, molte parole francesi sono divenute d’uso locale in questo tratto dell’America e non pochi nomi in quella lingua vi si sono perpetuati. Allorché gli avventurieri che per primi penetrarono in queste selvagge solitudini incontrarono nel cuore delle foreste tali sterminate, pianeggianti distese, ricoperte a volte di una lussureggiante vegetazione a volte di erbe marcescenti, è naturale che dessero a queste l’appellativo di prati. Quando gli inglesi succedettero ai francesi, e vi trovarono una caratteristica naturale diversissima da tutto ciò che avevano sino allora veduto sul continente e già contrassegnata da una parola che nel loro linguaggio non aveva alcun significato, conservarono a quei prati naturali il loro appellativo convenzionale. Così fu che il vocabolo prateria entrò a far parte della nostra lingua.

    Le praterie americane sono di due tipi: quelle che si estendono a est del Mississippi sono relativamente piccole e straordinariamente fertili, e sempre circondate da foreste. Sono suscettibili di coltivazione intensiva, e si stanno rapidamente popolando di coloni. Abbondano nell’Ohio, nel Michigan, nell’Illinois e nell’Indiana. Soffrono dello svantaggio della scarsità d’acqua e di legname, svantaggi assai gravi che si protrarranno finché l’industriosità umana sarà riuscita a sopperire definitivamente alle deficienze della natura. Ma poiché sembra che il carbone abbondi in quella regione, e in genere la perforazione di pozzi artesiani è felice, gli sforzi degli emigranti finiranno certo col prevalere contro le difficoltà.

    Un altro genere di questi prati naturali è quello che si stende ad ovest del Mississippi, a poche centinaia di miglia dal fiume, ed è noto con l’appellativo di Grandi Praterie. Più che ad ogni altra parte della cristianità queste distese assomigliano alle steppe dei tartari, e sono in realtà una vastissima regione, incapace di accogliere una densa popolazione per l’assoluta mancanza dei due elementi essenziali già accennati. I fiumi vi abbondano, è vero; ma la regione è quasi completamente priva di quei ruscelli e di quei corsi d’acqua minori che contribuiscono maggiormente agli agi e alla fertilità di una terra.

    Le origini e la data delle Grandi Praterie americane rappresentano uno dei più arcani misteri della natura. Il carattere generale degli Stati Uniti, del Canada e del Messico è quello di una grande fertilità. Sarebbe difficile trovare un’altra regione del globo d’uguale estensione che offra così poco terreno inutilizzato quanto i tratti abitati della Confederazione Americana. Quasi tutte le montagne sono arabili e persino le praterie, in questa parte della Repubblica, sono di natura alluvionale profonda. Lo stesso può dirsi del territorio compreso tra le Montagne Rocciose e il Pacifico. Tra questo e quelle si stende una vasta fascia relativamente desertica che sarà il teatro di questa vicenda e che sembra frapporre una barriera alla spinta verso ovest del popolo americano.

    Le Grandi Praterie paiono voler essere il supremo luogo di raduno degli uomini rossi. I resti dei Mohicani, dei Delaware, dei Creek, dei Choctaw, dei Cherokee sono destinati a concludere il loro ciclo umano su queste vaste distese. Il numero totale degli indiani entro i confini della Confederazione è variamente calcolato da cento a trecentomila anime: quasi tutti popolano la contrada a ovest del Mississippi. All’epoca di questo racconto vi dimoravano in aperta ostilità: le faide nazionali si tramandavano di generazione in generazione. La Repubblica ha fatto molto per ridonare la pace a questi luoghi selvaggi, ed è ora possibile viaggiarvi in piena sicurezza, allorché ancora venticinque anni or sono nessun europeo osava percorrerle senza scorta.

    Il lettore che già conosce i due precedenti volumi di cui questo è il logico seguito ritroverà nel personaggio principale del racconto una vecchia conoscenza. Qui abbiamo portato a fine la sua vicenda terrena e confidiamo che gli sia concesso di riposare d’ora innanzi nella pace dei giusti.

    Parigi, giugno 1832

    CAPITOLO I

    Ti prego, pastore, se amicizia o denaro

    Possono acquistare un riparo in questo luogo deserto,

    Guidaci dove potremo sfamarci e riposare.

    Shakespeare: Come vi piace

    Molto è stato detto e scritto, a suo tempo, circa l’opportunità di aggiungere le vaste regioni della Louisiana ai già immensi ma quasi spopolati territori degli Stati Uniti. Tuttavia, quando il calore della controversia si fu placato e le considerazioni di parte dettero luogo a un punto di vista più liberale, si cominciò ad ammettere generalmente la saggezza di quella decisione. Ben presto fu chiaro anche alle menti più ristrette che, se la natura aveva posto un deserto come barriera all’espansione delle nostre popolazioni verso ovest, la decisione presa ci aveva resi padroni di una fascia di terra fertile che in quel periodo di continue rivoluzioni avrebbe potuto diventare proprietà di una nazione rivale. Essa ci permetteva di dominare in pieno le grandi vie del traffico interno e poneva interamente sotto il nostro controllo le innumerevoli tribù selvagge sparse lungo i confini; riconciliava diritti contrastanti e calmava diffidenze nazionali; apriva migliaia di strade per il traffico interno e per lo sbocco al Pacifico; e se mai il tempo o la necessità richiederanno una divisione pacifica di questo vasto impero, ci assicurerà un vicino che abbia la nostra lingua, la nostra religione, le nostre istituzioni e, speriamolo, il nostro senso di giustizia politica.

    Benché l’acquisto fosse stato compiuto nel 1803, si era iniziata la primavera dell’anno seguente prima che la prudenza burocratica dello spagnolo che reggeva la provincia per il suo padrone europeo ammettesse non solo il possesso, ma perfino l’ingresso dei nuovi proprietari. Non di meno, le modalità del trasferimento erano appena terminate e il nuovo governo riconosciuto, che già torme di quella gente irrequieta che si aggira di continuo ai margini della società americana, si riversavano nelle macchie che bordano la sponda destra del Mississippi con la stessa noncurante indifferenza alle fatiche, alle privazioni, ai pericoli che avevano sostenuto tanti di loro nell’ardua avanzata dagli Stati atlantici verso le sponde orientali del Padre dei fiumi¹.

    Ci volle del tempo perché i numerosi coloni che affluivano dalla parte inferiore della provincia si amalgamassero coi nuovi compatrioti; ma la popolazione locale, più scarsa e più umile, fu inghiottita quasi immediatamente dal vortice che accompagnava la marea di quell’improvvisa emigrazione. L’irruzione da Oriente fu un nuovo e improvviso prorompere di un popolo che, imbaldanzito dai successi che lo avevano reso pressoché irresistibile, mal sopportava la momentanea restrizione. Quando quelle regioni immense e inesplorate, con tutti i loro vantaggi reali ed immaginari, si spalancarono al suo spirito d’iniziativa e d’avventura, tutte le fatiche e i rischi di precedenti imprese vennero dimenticati. Le conseguenze furono quelle che è facile immaginare data una offerta così allettante, posta quasi a portata di mano di una razza da tempo allenata alle avventure e indurita nelle difficoltà.

    Migliaia di padri di famiglia, di quelli che erano chiamati allora i nuovi Stati², abbandonavano il godimento degli agi conquistati con tanta fatica, e guidavano lunghe file di discendenti, nati e cresciuti nelle foreste dell’Ohio e del Kentucky, sempre più addentro nella regione, in cerca di quella che potrebbe dirsi, senza incorrere in una immagine poetica, la loro atmosfera naturale e più conforme. Faceva parte di quel numero il famoso e valoroso forestale che per primo era penetrato nelle selvagge solitudini del Kentucky. Fu visto allora quell’avventuroso e venerando patriarca compiere la sua ultima emigrazione, mettendo il fiume senza fine tra sé e la folla che il suo stesso successo gli aveva trascinato intorno, e cercando il rinnovarsi di quei godimenti che, intralciati dagli impacci delle istituzioni umane, avevano perso ogni pregio agli occhi suoi³.

    Nel perseguire simili avventure gli uomini generalmente sono guidati dalle loro abitudini o illusi dai loro sogni. Alcuni, spinti dai fantasmi della speranza e ambiziosi di improvvise ricchezze, cercavano le miniere di quella terra vergine; ma la massima parte degli emigranti si riteneva soddisfatta di stabilirsi nelle vicinanze dei grandi corsi d’acqua, contentandosi dei ricchi guadagni che i generosi terreni alluvionali non mancano mai di concedere al lavoro anche più saltuario e irregolare. In tal modo le comunità sorgevano con magica rapidità; e molti di coloro che furono testimoni dell’acquisto di un impero deserto, hanno vissuto abbastanza per vederlo diventare uno Stato popoloso e sovrano, accolto nel seno dell’Unione nazionale in termini di uguaglianza politica.

    Le avventure e gli episodi connessi alla storia che racconteremo ebbero luogo nei primissimi tempi delle imprese che hanno portato a sì grandi e rapidi cambiamenti, anzi proprio nel primo anno del nostro possesso.

    La mietitura era da tempo finita e il fogliame appassito dei pochi alberi sparsi qua e là cominciava già a presentare le sfumature e le tinte dell’autunno, quando una fila di carri emerse dal letto di un torrente prosciugato per continuare il suo cammino attraverso l’ondulata distesa di quella che, nella lingua del paese di cui scriviamo, è chiamata una rolling prairie⁴. I veicoli, carichi di utensili domestici e di strumenti agricoli, i pochi e sparpagliati capi di pecore e di buoi che formavano la retroguardia, e il rozzo aspetto e il comportamento svogliato dei vigorosi uomini che camminavano a fianco dei loro lenti animali, tutto cooperava a rivelare un gruppo di emigranti avviati verso l’Eldorado dell’Ovest. Ma contrariamente all’abitudine degli uomini della sua classe, questa comitiva aveva lasciato le fertili terre del paese basso, e con mezzi noti soltanto a simili avventurieri si era aperta la strada attraverso vallette e torrenti, paludi profonde e aride solitudini fino a un punto insolitamente lontano da qualunque abitazione civile. Dinanzi ai viaggiatori si aprivano quelle immense pianure distese con sì monotona uniformità di aspetti fino alla base delle Montagne Rocciose; e, molte lunghe e squallide miglia dietro di loro, spumeggiavano le rapide e torbide acque del La Piatte.

    La presenza di una gente simile in quel luogo triste e solitario era resa più notevole dal fatto che il paese circostante offriva così poco di tentatore alla cupidigia dello speculatore e, se possibile, ancor meno che potesse lusingare le speranze di un ordinario colonizzatore di terre nuove.

    La magra erba della prateria non prometteva nulla a favore di quel suolo duro e compatto su cui le ruote dei veicoli stridevano come su una strada battuta; né i carri né le bestie vi lasciavano una impronta profonda e si limitavano a rigare quell’erba secca e striminzita che il bestiame brucava di tanto in tanto, ma più spesso rifiutava; cibo tanto aspro che nemmeno la fame poteva renderlo gradito.

    Quale che fosse la meta ultima di quegli avventurieri o la segreta ragione della loro presenza in un luogo così remoto e in una situazione tanto precaria, è certo che nessuno di loro dava segno di incertezza o di preoccupazione. Fra tutti, si trattava di una ventina di persone di ambo i sessi e di varie età.

    A qualche distanza, davanti agli altri, camminava l’individuo che dalla posizione e dall’aspetto sembrava il capo della banda. Era un uomo alto e abbronzato, d’età più che matura, d’aspetto ottuso e svogliato. La sua corporatura sembrava dinoccolata e cascante, ma era gigantesca e, in realtà, di una forza prodigiosa. Capitava, benché solo a momenti, come quando qualche leggero impedimento si opponeva al suo sbadato avanzare, che la sua persona, la quale nel passo ordinario sembrava sfiaccolata e tarda, rivelasse improvvisamente le sue latenti energie, come avviene della greve, sonnacchiosa, ma terribile forza dell’elefante. La parte bassa del suo viso era volgare, prognante e inespressiva; mentre la superiore, ossia quelle parti più nobili che si ritiene rivelino l’essere intellettuale, era bassa, sfuggente e meschina.

    L’abbigliamento di questo individuo era un misto di grossolani indumenti contadineschi e di quegli articoli di cuoio che la moda e la comodità hanno reso in un certo modo necessari per una impresa di quel genere. Si notava, tuttavia, un singolare sfoggio di ornamenti copiosi e fuori luogo, mescolati a quell’eterogeneo costume. Invece della solita cintura di pelle di daino, portava intorno alla vita una sudicia fusciacca di seta a vistosi colori; il manico di corno del suo coltello era profusa- mente decorato di placchette d’argento; la pelliccia di martora del berretto, di una finezza e di una sfumatura da far invidia a una regina; gli scintillanti bottoni del rozzo e macchiato giubbone erano di conio messicano; il calcio del fucile, di mogano bellissimo, ornato di chiodi e di placche dello stesso metallo prezioso, e i pendagli di non meno di tre orologi senza valore, ciondolavano da diverse parti della sua persona. Oltre al sacco e alla carabina, che gli pendevano sul dorso insieme al sacchetto dei pallini e al corno da polvere, riempiti ben bene e accuratamente conservati, si era gettato con disinvoltura sulla spalla un’ascia affilata e luccicante, e reggeva tutto quel peso con tanta apparente facilità come se camminasse con le membra libere e sciolte da qualunque impedimento.

    A breve distanza dietro di lui veniva un gruppo di giovani acconciati più o meno allo stesso modo e abbastanza somiglianti fra loro e con il loro capo da farsi riconoscere membri della stessa famiglia. Benché il più giovane non avesse certo passato di molto l’età che, a giudizio della legge, è benevolmente chiamata età della ragione, si era rivelato così degno dei suoi progenitori da aver portato già la sua ambiziosa persona all’altezza normale della propria razza.

    Ce n’erano altri due o tre, di diverso stampo, la descrizione dei quali, però, sarà debitamente riferita nel corso della narrazione.

    Delle donne, ve n’erano solamente due arrivate alla maturità, benché parecchie testoline dalla carnagione olivastra spiassero dal primo carro della fila, con occhi pieni di curiosità e di animazione. La più anziana delle due adulte, sciupata e già rugosa, era la madre della maggior parte della compagnia, mentre la più giovane, una vivace e attiva ragazza di diciotto anni, sembrava, a giudicare dall’aspetto, dall’abbigliamento e dalle maniere, appartenere a una classe sociale di parecchio superiore a quella dei suoi presunti compagni.

    Il secondo veicolo era ricoperto di un’ampia tela così rigidamente tirata da nascondere il suo contenuto con la massima cura. Gli altri erano carichi di rude mobilia e di effetti personali, quali ci si può immaginare che appartengano a una persona pronta in qualsiasi momento a cambiare la sua dimora senza riguardo alla stagione e alla distanza.

    Forse in quella fila di carri e nell’insieme dei suoi proprietari, non c’era granché di diverso da ciò che si vedeva giornalmente sulle strade maestre di quel paese così aperto agli spostamenti; ma il luogo strano e deserto in cui si presentava inaspettatamente dava alla compagnia un aspetto particolare di stranezza e di avventurosità.

    Nelle piccole valli che, per la regolare formazione del paesaggio, si presentavano di miglio in miglio nel loro cammino, la vista era limitata da due parti, dalle graduali e lente elevazioni che danno alla prateria il nome che abbiamo già menzionato, mentre dalle altre due lo squallido panorama si stendeva in lunghe, strette, sterili vedute appena appena ravvivate qua e là da ciuffi di vegetazione grossolana, se pur lussureggiante. Dalla cima delle ondulazioni, l’occhio era affaticato dalla monotonia e dalla scoraggiante desolazione del paesaggio. La terra non era dissimile dall’oceano, quando le sue acque agitate ondeggiano pesantemente dopo il tumulto e la furia della tempesta. Era la stessa superficie ondulata e regolare, la stessa assenza di qualunque altro oggetto, la stessa immensità aperta alla vista; anzi, la somiglianza fra l’acqua e la terra era così impressionante che, per quanto il geologo possa beffarsi di una teoria tanto ingenua, sarebbe stato difficile per un poeta non sentire che la formazione dell’una era dovuta al ritirarsi del dominio dell’altra. Qua e là un albero sorgeva dall’imo delle valli come quello di un vascello solitario, e per accrescere l’illusione, laggiù, in lontananza, comparivano due o tre boschetti rotondeggianti che torreggiavano sull’orizzonte brumoso come isole sorgenti dalle acque. Non c’è bisogno di ricordare all’esperto lettore che l’uniformità della superficie distesa e la posizione in basso degli spettatori ingigantivano le distanze; ma, poiché ondulazione compariva dopo ondulazione, isola succedeva a isola, sorgeva in cuore la scoraggiante certezza che lunghi, apparentemente interminabili tratti di quel deserto dovevano passare, prima che i voti del più umile degli agricoltori potessero essere appagati.

    Tuttavia, il capo degli emigranti proseguiva con regolarità la sua strada senza altra guida che il sole, volgendo risolutamente le spalle alla civiltà e immergendosi a ogni passo più profondamente, se pur non irrevocabilmente, nella dimora dei barbari e selvaggi abitanti del paese. Ma poiché il giorno si avvicinava al declino, la sua mente, che forse era incapace di maturare un ben connesso sistema di previdenza oltre quello che si riferiva agli interessi del momento presente, fu in qualche modo turbata dalla necessità di provvedere alle ore della notte.

    Giunto sulla cresta di una elevazione un poco più alta delle altre, sostò un momento, e gettò da una parte e dall’altra un’occhiata vagamente incuriosita, cercando i ben noti segni indicatori di un luogo dove i tre grandi benefici dell’acqua, del combustibile e del foraggio potessero essere ottenuti contemporaneamente.

    Sembrava che la sua ricerca fosse stata infruttuosa perché dopo pochi minuti di indolente e trascurata osservazione, lasciò che la sua grande corporatura scendesse giù per il lento declivio con la stessa indolenza con cui un animale supernutrito avrebbe ceduto ad una spinta verso il basso.

    Il suo esempio fu seguito in silenzio da coloro che gli andavano dietro, non senza però che i giovani manifestassero un qualche maggiore interesse... nella breve inchiesta che ciascuno a turno faceva raggiungendo lo stesso punto d’osservazione. Era tuttavia chiaro, dai rallentati movimenti degli animali e degli uomini, che l’ora del necessario riposo non era lontana. L’erba intricata del fondo delle vallette presentava ostacoli che la stanchezza cominciava a rendere formidabili, e la frusta diventava necessaria per stimolare al loro compito i cavalli che si trascinavano. Nel momento in cui una generale stanchezza si impadroniva dei viaggiatori, eccezion fatta del capo, e tutti gli sguardi si protendevano ansiosamente avanti, con una specie di impulso comune, uno spettacolo improvviso quanto inatteso obbligò la comitiva a fermarsi.

    Il sole era calato dietro la cresta della più vicina ondulazione della prateria, lasciando dietro di sé il solito strascico di splendore. Nel centro di quella gloria di luce fiammeggiante era comparsa una forma umana, intagliata sullo sfondo d’oro, distinta, e, si sarebbe detto, palpabile quasi fosse stata a portata della mano stesa di chiunque. La figura colossale, dall’atteggiamento pensoso e malinconico, si ergeva proprio sulla strada dei viaggiatori; ma inquadrata com’era in quell’aureola di luce abbagliante, era impossibile distinguerne le giuste proporzioni o la vera natura.

    L’effetto di quello spettacolo fu istantaneo e potente.

    L’uomo che camminava in testa agli emigranti si fermò di colpo, e rimase a guardare quella misteriosa apparizione con uno stolido interesse che si trasformava rapidamente in un terrore superstizioso. I figli, appena calmata la prima emozione della sorpresa, gli si fecero lentamente accanto e a mano a mano che coloro che fiancheggiavano i cavalli seguivano il loro esempio, tutta la compagnia si raccolse in un gruppo silenzioso e stupito. Benché l’impressione di qualche cosa di soprannaturale fosse generale fra i viaggiatori, si udì il ticchettio dei caricatori e, uno o due dei giovani più arditi, alzarono i fucili pronti a servirsene.

    «Manda avanti i ragazzi», esclamò la risoluta moglie e madre con voce brusca e stridula. «Asa o Abner ci sapranno ben dire chi è, ci scommetto!»

    «Sarà forse bene di provare col fucile», borbottò un uomo dall’aspetto grossolano, il cui viso, per i lineamenti e l’espressione, somigliava non poco a colei che aveva parlato, e che, tirata giù la cinghia del fucile, lo imbracciava mentre esprimeva il suo parere: «Si dice che i Lupi Pawnee caccino a centinaia sulle pianure; se è così, non si accorgeranno della mancanza di uno solo della loro tribù».

    «Fermatevi!», esclamò una voce femminile dolce e allarmata che, era facile capirlo, usciva dalle labbra tremanti della più giovane delle due donne; «Non sappiamo: potrebbe essere un amico!»

    «Ebbene, chi è il capo qui?», chiese il padre squadrando frattanto il gruppo dei suoi robusti figli con uno sguardo scontento e cupo. «Giù quell’arma, giù quell’arma!», continuò stornando la mira dell’altro con un dito gigantesco e con una grinta pericolosa da contraddire. «Il mio compito non è ancora terminato; finiamo in pace il poco che resta».

    L’uomo che aveva manifestato l’intenzione ostile, sembrò capire le allusioni e si lasciò convincere. I figli volsero i loro sguardi interrogatori alla fanciulla che era stata così ansiosa di parlare, per chiederle una spiegazione; ma, quasi paga della dilazione ottenuta per lo straniero, ella era ricaduta sul sedile e affettava un pudico silenzio.

    Frattanto, i colori del cielo erano andati cambiando. Una luce grigia e più bassa era successa al fulgore abbacinante e, a mano a mano che il tramonto si spegneva, le forme e le proporzioni di quella fantastica figura diventavano meno esagerate e finalmente distinte. Vergognandosi di esitare, ora che la verità non era più da mettere in dubbio, il capo della spedizione riprese il cammino usando, tuttavia, mentre ascendeva il blando declivio, la precauzione di liberare il fucile dalla cinghia e di tenerlo pronto a servirsene.

    Non c’era ragione, tuttavia, di tanta prudenza. Dal momento in cui era così inspiegabilmente comparsa, per così dire fra cielo e terra, la figura dello straniero non si era mossa e non aveva dato il minimo segno d’ostilità. E del resto, anche se avesse avuto cattive intenzioni, l’individuo che ormai era pienamente in vista sembrava ben poco atto a metterle in pratica. Un fisico che aveva sopportato le durezze e le sofferenze di ottanta primavere, non era infatti in condizione da destare apprensioni in un individuo come l’emigrante. Nonostante gli anni e l’aspetto emaciato, per non dir sofferente, c’era tuttavia qualche cosa, in quell’essere solitario, che diceva che il tempo, e non la malattia, gravava pesantemente la mano su di lui. Benché magrissimo, non era sfinito. I tendini e i muscoli, che certo una volta avevano avuto una potenza eccezionale, benché rimpiccioliti erano ancora visibili; e tutte le membra avevano raggiunto quel grado di indurimento che se non fosse stato per la ben nota fragilità della razza umana, sarebbe sembrato capace di sfidare gli ulteriori assalti della decadenza. Il suo vestiario era composto principalmente di pelli indossate, col pelo infuori; un borsotto e un corno da polvere gli pendevano dalla spalla; si appoggiava ad una carabina di non comune lunghezza, che, come il suo proprietario, sembrava logorata da un lungo e duro servizio.

    Quando la compagnia si avvicinò al solitario e fu a distanza di essere udita, un basso ringhio uscì dall’erba ai suoi piedi; poi un segugio alto, scarno, sdentato si alzò pigramente dalla sua cuccia e, scotendosi, offrì una debole parvenza di minaccia all’avvicinarsi dei viaggiatori.

    «Giù, Hector, giù», disse il padrone con voce un poco tremula e roca per gli anni, «che c’entri tu, cucciolo, con la gente che viaggia legalmente per gli affari suoi?»

    «Straniero, se conoscete questo paese», disse il capo degli emigranti, «potete dire a un viaggiatore dove potrà trovare quel che gli occorre per la notte?»

    «È già piena la terra dall’altra parte del Grande Fiume?», chiese il vecchio, solennemente, quasi non avesse udito la domanda dell’altro. «O se no, perché vedo uno spettacolo che avrei creduto di non vedere più?»

    «Be’, della terra ce n’è ancora, è vero, per quelli che hanno soldi e non sono molto difficili nella scelta», ribatté l’emigrante, «ma a gusto mio, si comincia a essere in troppi. Quale sarà la distanza da qui al punto più vicino sul fiume principale?»

    «Un cervo inseguito non potrebbe rinfrescare i fianchi nel Mississippi senza viaggiare per cinquecento lunghe miglia».

    «Che nome date a questo distretto?»

    «Che nome date», ribatté il vecchio alzando la mano con un cenno significativo, «al punto dove vedete quella nuvola lassù?»

    L’emigrante lo guardò come chi non capisce e quasi quasi sospetta di essere preso in giro, ma si limitò a dire:

    «Voi siete nuovo di qui come me, scommetto, straniero, o non ci pensereste tanto a dare qualche consiglio a un viaggiatore; le parole costano poco e qualche volta fruttano un’amicizia».

    «Il consiglio non è un dono, ma un obbligo per il vecchio. Che volete sapere?»

    «Dove posso accamparmi per la notte. Io non sono schizzinoso, per il letto e la tavola; ma tutti i vecchi viaggiatori come me sanno il valore dell’acqua dolce e d’un buon pascolo per il bestiame».

    «Seguitemi dunque, e sarete padrone di entrambi; ben poco d’altro posso offrirvi in questa affamata prateria».

    Così parlando, il vecchio si gettò in spalla la carabina con una facilità alquanto notevole per i suoi anni e per il suo aspetto, e senza altre parole aprì la strada verso la valle seguente.


    ¹ Il Mississippi è così chiamato in parecchi dialetti indiani. Il lettore si farà un’idea più chiara dell’importanza di questo corso d’acqua, se porrà mente al fatto che il Missouri e il Mississippi sono in realtà lo stesso fiume, e uniti assommano a una lunghezza poco meno di quattromila miglia (seimilaquattrocento chilometri, secondo l’unità di misura italiana). (N.d.T.).

    ² Tutti gli Stati ammessi all’Unione Americana dopo la rivoluzione sono chiamati Stati Nuovi, eccezion fatta del Vermont; questo già prima della guerra accampava diritti che gli furono riconosciuti in epoca posteriore.

    ³ Il colonnello Boon, il patriarca del Kentucky. Questo venerando e intrepido pioniere della civiltà emigrò a novantadue anni in una tenuta situata a trecento miglia a Occidente del Mississippi, perché una popolazione di dieci abitanti per miglio quadrato gli sembrava intollerabilmente sovraffollata!

    ⁴ Prateria ondulata.

    CAPITOLO II

    Alzate la mia tenda: qui riposerò stanotte.

    Ma dove, domani? Ebbene, che importa!

    Shakespeare: Riccardo III

    Ben presto i viaggiatori riconobbero dai noti infallibili segni che quanto cercavano non era più molto lontano.

    Un ruscello limpido e gorgogliante sgorgava dal fianco del pendio e unendo le sue acque a quelle di altre simili fontanelle in vicinanza, formava con esse un corso d’acqua, facilmente distinguibile per parecchie miglia nella prateria dallo sparso fogliame e dalla verdura che cresceva qua e là sotto l’influenza dell’umidità. Là dunque si indirizzò lo straniero, volonterosamente seguito dai cavalli cui l’istinto dava un presentimento di ristoro e di riposo.

    Giunto a quello che reputava il posto più adatto, il vecchio si fermò e con uno sguardo interrogativo sembrò domandare se possedeva le comodità necessarie. Il capo degli emigranti girò intorno uno sguardo da conoscitore, ed esaminò il luogo con la penetrazione di chi è competente a giudicare in una così delicata questione, pur con quella sua maniera pesante e pigra che ben di rado gli permetteva di tradire la precipitazione.

    «Be’, può andare», disse poi, soddisfatto dell’esame, «ragazzi, avete visto che il sole è tramontato, sbrigatevi».

    I giovani rivelarono un curioso tipo di obbedienza. L’ordine, perché tale era per il tono e la maniera, fu, è vero, accolto con rispetto, ma tutto si limitò a lasciar cadere dalla spalla a terra due o tre asce, mentre i loro proprietari continuavano a girare intorno uno sguardo sbadato e senza curiosità. Frattanto il vecchio viaggiatore, quasi come familiare alla natura degli impulsi da cui i figli erano governati, si alleggerì del sacco e del fucile, e aiutato dall’individuo che si era rivelato disposto a ricorrere con tanta sveltezza al fucile, procedette con tutta tranquillità a staccare i cavalli.

    Finalmente il maggiore dei figli fece pesantemente qualche passo avanti e, senza sforzo apparente, immerse l’ascia fino al manico nel soffice tronco di un albero di cotone. Sostò per un momento, a guardare l’effetto del colpo con quella specie di disprezzo con cui si suppone che un gigante possa contemplare la meschina resistenza di un nano, poi brandendo l’utensile sulla testa con la grazia e la destrezza con cui un maestro dell’arte dell’offesa avrebbe maneggiato la sua arma più nobile, se pur meno utile, recise rapidamente il tronco dell’albero portandone l’alta vetta a scrosciare per terra in segno d’ubbidienza alla sua abilità. I suoi compagni seguirono l’operazione con indolente curiosità finché videro a terra il tronco abbattuto, e, quasi fosse quello il segnale dell’attacco generale, si misero tutti insieme al lavoro, e con una rapidità e una abilità che avrebbero stupito uno spettatore ignorante spogliarono uno spazio piccolo ma conveniente con tanta efficacia e quasi con la stessa rapidità di un ciclone che fosse passato sul luogo.

    Lo straniero aveva osservato in silenzio ma con viva attenzione i loro progressi. Poiché un albero dopo l’altro precipitava scrosciando, alzò gli occhi al vuoto che avevano lasciato in cielo con uno sguardo malinconico e si voltò borbottando fra sé con un amaro sorriso, come di chi sdegna di dare più udibile espressione al suo malcontento. Passando oltre il gruppo dei giovani affaccendati che avevano già acceso un bel fuoco, fissò poi la sua attenzione sui movimenti del capo degli emigranti e del suo torvo assistente.

    Questi due avevano già liberato il bestiame che stava brucando avidamente le gradite e nutrienti estremità degli alberi caduti, e ora si davano da fare intorno al carro, che celava con tanta cura il suo contenuto.

    Benché questo particolare veicolo fosse silenzioso come gli altri, gli uomini fecero forza contro le ruote e lo spinsero in disparte in un angolo asciutto e sopraelevato, vicino all’orlo del boschetto. Ivi recarono certi pali che, a quanto pareva, erano impiegati da tempo in questo servizio, e dopo averne fissato saldamente nel suolo l’estremità più grossa, infilarono la più piccola ai cerchi che reggevano la copertura del carro. Grandi teli da tenda furono poi cavati fuori, e dopo essere stati stesi sul tutto furono incavicchiati a terra in modo da formare una tenda abbastanza comoda e spaziosa. Dopo aver esaminato l’opera loro con occhi inquisitori e magari magari un pochino gelosi, qua accomodando una piega, là fissando più saldamente un paletto, gli uomini si attaccarono con forza al carro tirandolo per il timone, dal centro del baldacchino, finché non comparve all’aperto, spogliato della sua copertura e privo di ogni altro carico, tranne alcuni leggeri pezzi di mobilia. Questi furono subito trasportati nella tenda dal viaggiatore stesso, quasi che entrarvi fosse un privilegio a cui nemmeno il suo fidato amico avesse diritto.

    La curiosità è un vizio che la solitudine e la reclusione tendono ad attizzare anziché spegnere, e il vecchio abitante delle praterie non poteva guardare quei misteriosi movimenti precauzionali senza provarne le fitte. Si avvicinò alla tenda e stava per schiudere due teli con l’evidente intenzione di esaminare più da vicino la natura del suo contenuto, quando l’uomo che già una volta aveva messo la sua vita in pericolo, l’afferrò per un braccio e lo strappò rozzamente da lì.

    «C’è un detto onesto e qualche volta salutare», osservò l’individuo con fare asciutto, ma con gli occhi eloquentemente minacciosi, «che dice: occupati dei fatti tuoi».

    «È raro che gli uomini portino qualche cosa da nascondere in questi deserti», ribatté il vecchio, quasi desideroso di scusarsi della libertà che si era preso, «e non volevo offendervi esaminando la vostra sistemazione».

    «Di rado ne portano, e di rado ci vengono, mi pare: benché questa dovrebbe essere una terra vecchia, all’occhio mio non sembra molto popolata».

    «Questa terra è vecchia come il resto delle opere del Signore, credo; ma dite il vero, per quel che riguarda gli abitanti. Molti mesi sono trascorsi da quando ho posto gli occhi su un viso del mio colore prima del vostro. Vi ripeto, amico, non intendevo nulla di male: non so, pensavo che in quella tenda ci fosse qualche cosa che potesse riportarmi alla mente giorni passati».

    Finita questa semplice spiegazione, lo straniero si allontanò docilmente come chi riconosce il diritto che ognuno ha di godersi in pace quello che è suo senza noiose ingerenze da parte dei suoi vicini: sano e giusto principio che, probabilmente, doveva anch’esso alla sua vita segregata. Passando davanti al piccolo accampamento degli emigranti, perché tale ormai il luogo era divenuto, udì la voce del capo chiamare forte con aspro accento il nome di…

    «Ellen Wade».

    La ragazza, che abbiamo già presentata al lettore e che era occupata con le compagne intorno ai fuochi, balzò pronta al richiamo, e passando dinanzi allo straniero con la sveltezza di una giovane antilope scomparve immediatamente dietro le pieghe della tenda proibita. Non sembrava, del resto, che la sua improvvisa scomparsa, o qualcuna delle descritte sistemazioni, avessero eccitato la minima sorpresa fra il resto della compagnia. I giovani che avevano già finito il loro compito con l’ascia, erano tutti occupati, nella loro maniera tarda e sbadata, alcuni a dividere eque porzioni di foraggio fra i vari animali; altri a menare il pesante pestello di mortaio da hommany portabile⁵; e uno o due a trasportare i carri e a sistemarli in modo da formare una specie di fortificazione intorno al loro indifeso bivacco.

    Quei vari doveri erano stati eseguiti, e poiché ormai il buio cominciava a nascondere gli oggetti nella circostante prateria, la stridula bisbetica, la cui voce, dal momento della sosta, si era diligentemente prodigata fra i pigri e sonnacchiosi rampolli, annunciò, in toni che potevano essere uditi a una notevole distanza, che il pasto serale aspettava soltanto l’avvicinarsi di chi intendeva consumarlo. Quali che possano essere le qualità di un uomo di frontiera, di rado gli manca la virtù dell’ospitalità. Non appena ebbe udito lo stizzoso appello di sua moglie l’emigrante girò gli occhi intorno in cerca dello straniero, per offrirgli il posto d’onore nel modesto trattenimento a cui erano stati convitati con sì poche cerimonie.

    «Grazie, amico», replicò il vecchio al rozzo invito a sedersi accanto alla pentola fumante, «grazie di cuore; ma per oggi ho già mangiato, e non sono di quelli che si scavano la tomba coi denti. Però, se proprio lo desiderate, prenderò posto, perché da molto tempo non ho più visto gente del mio colore mangiare il suo pane quotidiano».

    «Siete un vecchio colono del posto, allora», chiese o meglio osservò l’emigrante, con la bocca piena da scoppiare del delizioso hommany preparato dalla sua esperta se pur sgraziata consorte. «Ci hanno detto, laggiù, che avremmo trovato ben pochi coloni da queste parti, e devo dire che l’informazione era giusta; perché, se non contiamo i mercanti canadesi sul Grande Fiume, siete voi il primo viso bianco che ho incontrato per cinquecento miglia buone: cioè secondo i vostri stessi calcoli».

    «Benché abbia trascorso alcuni anni in questa zona non si può dire che io sia un colono, visto che non ho dimora fissa, e che di rado passo più di un mese nella stessa parte».

    «Cacciatore, scommetto?», continuò l’altro gettando un’occhiata di sbieco alla sua nuova conoscenza; «Il vostro equipaggiamento non sembra dei migliori per questa professione».

    «Tutto è vecchio ormai, e da mettere a riposo come il padrone», rispose il vecchio contemplando la sua carabina con uno sguardo in cui erano stranamente fusi affetto e rimpianto, «e posso anche dire che sono ben poco necessari. Sbagliate, amico, a chiamarmi cacciatore: io non sono niente di meglio che un trapper⁶».

    «Se siete l’una cosa, oso dire che siete anche l’altra, perché in questi distretti le due professioni vanno molto insieme».

    «Vergogna per l’uomo che è capace di maneggiare un’arma e che ricorre alle trappole!», ribatté il trapper, che in avvenire designeremo col nome della sua professione; «Per più di cinquant’anni ho portato il mio fucile nelle solitudini della foresta, nelle praterie, senza mettere un lacciuolo nemmeno per uno solo degli uccelli che volano in cielo; tanto meno per una bestia che non avesse altro che le gambe, in nome del guadagno!»

    «Io non ci vedo gran differenza se uno si procura delle pelli col fucile o con la trappola», disse il brutto compagno dell’emigrante, con la sua solita rozzezza, «la terra è stata fatta per comodo nostro, e perciò anche i suoi animali».

    «Sembra che abbiate ben poco bottino, straniero, per uno che viaggia così lontano», lo interruppe rudemente l’emigrante, quasi avesse le sue ragioni per cambiare conversazione; «spero che siate in migliori condizioni quanto a pellicce».

    «Poco mi servo dell’una cosa e dell’altra», rispose tranquillamente il cacciatore; «all’età mia, cibo e vestiario, ecco tutto quello che cerco, e poco mi serve quello che voi chiamate bottino⁷, se non per barattarlo di tanto in tanto, con un corno di polvere o una sbarra di piombo».

    «Voi non siete nato da queste parti, allora, amico», continuò l’emigrante alludendo all’obbiezione fatta dall’altro alla parola equivoca che egli stesso, secondo l’uso del paese, aveva usato al posto di bagagli o effetti personali.

    «Io sono nato sulle rive del mare, benché gran parte della mia vita sia trascorsa nelle foreste».

    Tutta la compagnia ora lo guardava a occhi spalancati, come si è soliti guardare qualche strano oggetto di interesse generale. Uno o due dei giovani ripeterono le parole: «…sulla riva del mare…»; e la donna degnò il suo ospite di una di quelle rozze cortesie con cui era poco avvezza ad aggraziare la sua ospitalità, quasi per deferenza verso la dignità di un così grande viaggiatore. Dopo un lungo e apparentemente pensoso silenzio, l’emigrante, che frattanto non aveva visto la necessità di sospendere le funzioni della sua capacità masticatoria, riprese il discorso.

    «È lunga la strada, come ho udito dire, dalle acque dell’Occidente alle rive del mare principale?»

    «È una strada lunga davvero, amico: e molte cose ho visto e qualche cosa ho sofferto, viaggiando per essa».

    «Se ne vedono di cose, facendo un viaggio così lungo!»

    «Settantacinque anni sono stato in cammino, e non c’è quasi lega, dopo aver lasciato l’Hudson, in cui io non abbia consumato cacciagione uccisa da me. Ma vantarsi è inutile. A che servono le imprese passate quando il tempo giunge alla fine?»

    «Una volta ho conosciuto uno che aveva navigato su quel fiume che dice lui», osservò il maggiore dei figli parlando a bassa voce come chi non si fida di quel che sa e stima prudente assumere un cauto atteggiamento in presenza di qualcuno che ha visto tanto; «a sentir lui, doveva essere un fiume considerevole e abbastanza profondo, per essere navigabile da un capo all’altro».

    «È un corso d’acqua ampio e profondo, e sulle sue rive sorgono molte imponenti città», rispose il trapper; «e pure non è che un ruscello in paragone alle acque del fiume senza fine!»

    «Non so che farmene di un fiume che si può percorrere tutto quanto», esclamò il brutto compagno dell’emigrante: «un vero fiume deve essere attraversato, non scorrazzato da un capo all’altro come un orso in una battuta di contea⁸».

    «Vi siete spinto molto in là verso il sole calante, amico?», intervenne l’emigrante, quasi desideroso di tenere il suo rozzo compagno fuori della conversazione; «mi sembra di essermi imbattuto in una bella estensione di terreno brullo, qui».

    «Potreste viaggiare per settimane e vedere sempre lo stesso spettacolo. Io penso che il Signore abbia posto questa sterile cintura di praterie dietro gli Stati per mettere gli uomini in guardia contro la loro follia! Sì. Settimane, se non mesi, potete viaggiare in questi prati aperti nei quali non v’è dimora o rifugio né per l’uomo né per le bestie! Perfino gli animali selvatici viaggiano per miglia e miglia per trovarsi una tana; eppure il vento di rado soffia da Oriente senza che mi sembri di avere nelle orecchie il rumore delle asce e lo scroscio degli alberi abbattuti».

    Mentre il vecchio parlava con quella gravità e dignità che la vecchiaia imprime in genere anche a sentimenti meno commossi, i suoi ascoltatori stavano profondamente intenti e silenziosi come tombe. Fu ancora il vecchio cacciatore che riprese il discorso poco dopo, rivolgendo una domanda in quella maniera indiretta che è tanto in uso fra gli abitanti delle frontiere.

    «Non vi è stata cosa facile guadare i corsi d’acqua e aprirvi una strada così a fondo nelle praterie, amico, con carri e cavalli e mandrie di animali cornuti?»

    «Ho seguito la riva sinistra del fiume principale», rispose l’emigrante, «finché non mi sono accorto che il corso risaliva troppo a nord; e allora l’abbiamo traversato con le zattere senza troppi inconvenienti. Le donne hanno perduto un po’ di lana della tosatura dell’anno scorso, e le ragazze hanno una mucca di meno nella latteria, ma del resto ce la siamo cavata benone attraversando un torrente ogni due

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