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I drammi di Parigi. Rocambole vol. 2
I drammi di Parigi. Rocambole vol. 2
I drammi di Parigi. Rocambole vol. 2
E-book397 pagine4 ore

I drammi di Parigi. Rocambole vol. 2

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Info su questo ebook

Riprendono da dove le avevamo lasciate le macchinazioni del genio del male, il visconte Andrea alias sir Williams, per impossessarsi della dote milionaria della giovane e ingenua Hermine.
A lui si oppone, apparentemente senza successo, il fratellastro Armand de Kergaz, votatosi a difensore dei deboli. Armand, oltre a evitare il matrimonio tra sir Williams ed Hermine, deve anche salvare l'amata Jeanne, che Andrea ha fatto rapire.
Il successo di sir Williams sembra inevitabile, tantopiù che in suo aiuto arriva un'altra mente dedicata al crimine: Rocambole.
Ma per il fronte del Bene non tutto è perduto…
LinguaItaliano
Data di uscita24 mar 2018
ISBN9788899403461
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    Anteprima del libro

    I drammi di Parigi. Rocambole vol. 2 - Ponson du Terrail

    27

    Dello stesso autore nella collana Aurora:

    L'eredità misteriosa. Rocambole vol. 1

    Pierre Ponson du Terrail, I drammi di Parigi (Rocambole vol. II)"

    1a edizione Landscape Books, marzo 2018

    Collana Aurora n° 27

    © Landscape Books 2018

    Titolo originale: L’Héritage Mystérieux pt. 2

    Nuova edizione italiana a cura di Guido Del Duca

    www.landscape-books.com

    ISBN 978-88-99403-46-1

    In copertina: I venditori di sale a Parigi di G. Canella

    Progetto grafico service editoriale il Quadrotto

    Realizzazione editoriale a cura di WAY TO ePUB

    www.waytoepub.com

    Ponson du Terrail

    Rocambole II

    I drammi di Parigi

    Riassunto del primo episodio

    Durante la ritirata di Russia dell’esercito napoleonico, l’italiano Felipone approfitta del trambusto della disfatta per uccidere l’amico conte de Kergaz, della cui moglie e delle cui sostanze vuole impossessarsi. Il terribile piano gli riesce e Felipone lo completa criminalmente gettando in mare, dai merli del castello di cui si è impadronito, Armand, il piccolo figlio del defunto conte de Kergaz. Previdente, Felipone pensa a preparare un avvenire d’oro alla creatura che attende dalla donna sposata con l’inganno: Andrea.

    E, tuttavia, Armand non muore, lo ritroviamo giovane uomo alle prese con il fratellastro Andrea per i begli occhi di una donna. I due ignorano la parentela che li lega, ma sono istintivamente nemici, e nemici accaniti. Il primo scontro lo vince Andrea, che pare avere ereditato la tenebrosità, la spietatezza del padre: si porta via la preda, lasciando Armand in un lago di sangue. Ma Armand ha mille vite, si rimette in salute, e raggiunge Andrea per vendicare se stesso e l’amata, che il crudele rapitore ha fatto morire. A questo punto, però, Felipone sul letto d’agonia conosce il pentimento, e, al corrente del fatto che Armand si è salvato, decide di lasciare a costui la propria eredità, diseredando Andrea. È da questo momento che Andrea giura un odio mortale al fratellastro: se Armand vuole essere dalla parte della giustizia, faccia pure, sia pure il genio del bene, lui sarà il genio del male.

    È di nuovo a proposito di un’eredità che i due fratellastri si scontrano. Il ricchissimo barone Kermor de Kermarouet, prima di esalare l’ultimo respiro, incarica Armand, il genio del bene, di fare avere tutte le sue sostanze alla figlia o al figlio che può essere nato da una certa Thérèse da lui sedotta quando era sottotenente degli ussari.

    Armand, ligio al suo compito, dà inizio alla ricerca. Ma, prima di lui, identifica l’erede del favoloso patrimonio Andrea, che è tornato a Parigi dalle sue imprese criminali in terra inglese, facendosi chiamare sir Williams e affettando stile e impassibilità britannici: la donna che fu sedotta dal sottotenente degli ussari ha sposato un certo de Beaupréau, e da quel drammatico incontro giovanile ha avuto una figlia, Hermine. Andrea medita di sposare Hermine per mettere le mani sull’eredità Kermarouèt. Ma le cose non sono tanto semplici: di Hermine è innamorato, ricambiato, un dipendente di Beaupréau, Fernand Rocher. Questo Rocher ha un amico, l’ebanista Léon Rolland, il quale è innamorato, e l’amore è ricambiato, di una bella e onesta sartina, Cerise. Costei ha una sorella traviata, Baccarat, una spregiudicata cortigiana.

    Mentre de Beaupréau si invaghisce a prima vista, per strada, di Cerise, che naturalmente respinge la sua corte, Baccarat, a sua volta, si fa divorare dalla passione per Fernand Rocher, che neppure si accorge di lei. Il perfido Andrea, più che mai sotto le mentite spoglie di sir Williams, è pronto a sfruttare le debolezze altrui, e a far di quei deboli i suoi complici, soprattutto quando gli capita di scoprire che a un’amica nobile e decaduta di Cerise, Jeanne de Balder, è vivamente interessato l’odiato fratellastro. Il trionfo di Andrea pare massiccio: con l’inganno Fernand Rocher viene buttato tra le braccia di Baccarat e poi mandato in prigione sotto una falsa accusa; Baccarat viene successivamente fatta rinchiudere in una casa di cura come pazza; messa al corrente della presunta tresca tra la cortigiana e il fidanzato, Hermine rinnega costui, diventando preda persino troppo disponibile per il suo turpe pretendente. Quanto a Jeanne, è rapita senza troppi scrupoli e segregata in una casa nascosta nel bosco; Andrea medita di farne la propria amante, e intanto, sull’ala dell’entusiasmo, concepisce il proposito di lasciar le mentite spoglie di sir Williams e di spacciarsi addirittura lui per Armand de Kergaz, accusando il fratellastro di essere un impostore. Sotto l’accanirsi delle disgrazie, Armand non si è però dato ancora per battuto…

    I.

    Torniamo ora alla signora de Beaupréau e a Hermine, che erano rimaste sconvolte dopo aver letto la lettera scritta da Baccarat a Fernand Rocher.

    Il signor de Beaupréau, con la scusa di voler portare a Fernand, unendovi un suo severo commento, la lettera di Hermine, ma in realtà per correre a portare quella lettera a Baccarat, era uscito quasi subito, lasciando sole la fanciulla e sua madre.

    Hermine era rimasta zitta, con lo sguardo fisso, nel cupo atteggiamento di chi è colpito dalla fatalità con tanta violenza, che non ha neppure la forza di abbandonarsi alla disperazione e quasi dubita della realtà.

    La signora de Beaupréau guardava la figlia con l’ansiosa attenzione di una madre che vede morire la propria creatura, e non sapeva trovare una parola, un grido, uno slancio del cuore per consolarla, tanto il dolore di Hermine sembrava immenso nella sua rassegnazione.

    Infine si alzò lentamente, si avvicinò alla figlia, sempre immobile e con gli occhi asciutti, la prese fra le braccia e se la strinse al petto in silenzio.

    «Mamma» disse allora Hermine, «voglio entrare in convento… Non mi sposerò mai».

    «In convento!» esclamò la povera signora con sgomento. «Vuoi… entrare… in convento? E dunque abbandonerai me, tua madre?»

    La fanciulla gettò un grido.

    «No, no», disse, «perdonatemi, sono pazza, pazza di dolore. No, non vi lascerò, mamma».

    A un tratto scoppiò in lacrime, e pianse a lungo fra le braccia di sua madre, che la copriva di mute carezze.

    Per qualche ora le due povere donne si tennero strettamente allacciate, mescolando i loro singhiozzi e confondendo i loro sospiri; poi Hermine si raddrizzò con aria fiera e risoluta e disse a sua madre:

    «Da tempo vostra zia, la baronessa de Kermadec, desidera vederci. Volete partire? Io non posso rimanere a Parigi; sento che qui morirei».

    La signora de Beaupréau accolse con gioia la proposta di sua figlia. Partire non significava forse ingannare per qualche tempo il dolore di Hermine, facendole mutare ambiente? Non significava cercare una distrazione di qualche giorno nella novità del viaggio?

    Il signor de Beaupréau tornò verso mezzanotte; era preoccupato e un po’ pallido in volto; aveva avuto il suo primo colloquio con sir Williams, in quella stanza della rue Serpente dove il baronetto era arrivato in tempo per strappargli Cerise. La signora de Beaupréau e sua figlia erano troppo prese dalla loro angoscia per notare il suo turbamento.

    «Il mariolo è introvabile», disse il capo ufficio, alludendo a Fernand Rocher; «l’ho cercato dappertutto al ballo e non l’ho visto. Era certamente in casa della signorina Baccarat. Ma domani, al ministero…».

    «Signore», lo interruppe la signora de Beaupréau, traendo da parte il marito e conducendolo nel vano di una finestra, «mia figlia amava quel giovane, lo amava con passione; potrebbe morirne. Bisogna distrarla a ogni costo».

    «Sono del vostro parere; ma che fare?»

    «Bisogna portarla via da Parigi».

    «E dove?»

    «La condurrò da mia zia, la baronessa de Kermadec».

    «Al castello delle Ginestre?»

    «Sì».

    «È un’ottima idea», esclamò il signor de Beaupréau, al quale era subito balenata l’idea che sarebbe rimasto libero… libero per qualche giorno, e che avrebbe potuto cercar di rivedere Cerise.

    «Se acconsentite», continuò Thérèse, «partiremo domani mattina».

    «Quanto prima, tanto meglio», rispose il funzionario. La signora de Beaupréau e sua figlia dedicarono parte della notte ai preparativi per la partenza.

    Appena fu giorno, vennero ordinati cavalli di posta e una berlina, e alle nove Thérèse e sua figlia lasciavano Parigi, prendendo la strada della Bretagna. La cameriera non mentì dunque a Fernand Rocher, quando costui, quasi pazzo di dolore, dopo aver letto la lettera fatale in cui Hermine gli diceva addio, lettera portatagli da Colar travestito da fattorino, si presentò in rue Saint-Louis. Sì, le signore erano realmente partite per il castello delle Ginestre.

    La residenza delle Ginestre, a cui Thérèse e sua figlia erano dirette, non aveva più che scarsi diritti al nome pomposo di castello.

    Era infatti un rudere mal conservato, del quale soltanto un’ala era ancora abitabile, e il cui aspetto vetusto e miserando non era riscattato che dalla bellezza della natura circostante e del laghetto che si stendeva sotto le sue finestre.

    In riva al laghetto c’era una barca, e nella bella stagione la barca e il laghetto formavano una parte importante dei rari piaceri che si potevano godere alle Ginestre.

    In passato la residenza delle Ginestre era stata realmente un castello, una vera fortezza medievale, con fossati melmosi, piombatoi, ponti levatoi e mura merlate; aveva sostenuto assalti e resistito a lunghi assedi; le vecchie sale avevano risuonato del tintinnio degli speroni dei cavalieri, e uno dei suoi signori era caduto, alla destra dell’eroico Beaumanoir, sul campo di battaglia dei Trenta.

    Ma il tempo era passato con la sua falce distruttrice e il suo soffio devastatore; sotto Enrico IV, durante le guerre della Lega, il castello era stato preso d’assalto e smantellato; ricostruito sotto Luigi XIII, era stato incendiato al tempo della Fronda.

    Un signore de Kermadec, sotto Luigi XV, aveva speso le sue ultime ricchezze a restaurarlo, a rendergli la sua fisionomia feudale; ma quel Kermadec, entrato nell’associazione dei gentiluomini bretoni che sognavano l’indipendenza del loro paese, si era compromesso, era stato fatto prigioniero con il signor de La Charolais e decapitato, lasciando come unico erede un bambino in tenera età, che più tardi a sua volta era perito sotto la ghigliottina rivoluzionaria. L’ultimo Kermadec era morto combattendo in Spagna, nel 1823, come semplice ufficiale degli ussari.

    Da allora, il castello delle Ginestre non era più risorto dalle rovine, e come un vegliardo rassegnato a morire, che si accontenta di vivere alla giornata, sembrava aspettasse che la baronessa de Kermadec, madre dell’ufficiale degli ussari, unica superstite di quella vecchia stirpe di eroi, fosse deposta nella tomba, per crollare fino all’ultima pietra sopra i suoi padroni morti.

    Soltanto, accanto a quella desolati vecchiezza, a quei brandelli di pietre, a cui ogni temporale strappava un lembo, la natura sembrava sfoggiare le sue grazie più delicate.

    Le Ginestre non erano, come si potrebbe pensare, situate sull’orlo di un’arida costa dirupata e cullate dal sordo e monotono mormorio dell’oceano.

    Al contrario, il castello sorgeva in fondo a un bel valloncello verde di prati e di siepi di biancospino, che correva fra due catene di colline boscose e scendeva con un dolce pendio di circa mezza lega fino al mare, il quale lambiva una spiaggia di sabbia fine, completamente priva di scogli.

    Grandi alberi, in maggioranza querce e castagni, circondavano a guisa di parco il castello in rovina; intorno a esso si stendeva un prato sempre verde, protetto dalle aspre raffiche dei venti invernali; i fossati, riempiti per metà e trasformati in giardini, avevano dato asilo a begli alberi da frutta e a rigogliosi cespugli di biancospino, fra i quali vivevano alla rinfusa, in primavera, merli motteggiatori e capinere.

    Vedendo quella povera dimora, in cui i vecchi muri erano sorretti da edere gigantesche e nelle cui fenditure le rondini facevano il nido a primavera. Vedendola così situata in fondo alla valle, senza altro baluardo che quello della vegetazione, ci si chiedeva anzitutto come avesse potuto, nei tempi eroici, trasformarsi in piazzaforte e sostenere veri e propri assedi.

    Ma certamente a quell’epoca le colline circostanti erano irte di torri, di fortificazioni, di opere avanzate, collegate al castello.

    Fortificazioni e torri erano crollate, scomparse, e del castello stesso era rimasto abitabile solo il nucleo centrale, dove la baronessa de Kermadec, una vecchia signora quasi ottuagenaria, cercava ancora di conservare un tenore di vita degno del suo rango, con le sue tremila lire di rendita.

    Ma Dio ha pietà delle povere dimore abitate da stirpi decadute; chiude con cespi d’edera i buchi delle mura e manda di preferenza il suo primo raggio di sole, il suo primo sorriso primaverile a coloro che non godono le ebbrezze del lusso cittadino, per consolarli delle nebbie e della tristezza del rigido inverno.

    Quando la signora de Beaupréau e sua figlia Hermine giunsero alle Ginestre, il mese di gennaio stava per finire, e per la fredda e povera Bretagna le belle giornate arrivano soltanto al principio di aprile.

    Tuttavia la neve era scomparsa e gli alberi già si liberavano, ai soffi di un vento più tiepido, del mantello di brina che le tramontane di dicembre avevano lasciato cadere dalle loro ali nere sui rami spogli.

    Già sui versanti delle colline aleggiava una nebbiolina fioccosa e azzurrognola, diafana annunciatrice della primavera; l’erba ingiallita e appiattita si risollevava a poco a poco sulle rive dei ruscelli che, spezzato il ghiaccio di cui da tre mesi erano prigionieri, liberatisi dalla sua gelida stretta, ricominciavano a scorrere con un mormorio pieno di vaghe speranze.

    Il passero riprendeva a cinguettare la sua monotona canzone alle lucertole del campanile della chiesa rustica, e il contadino spingeva davanti a sé, col pungolo in mano, i buoi bianchi e rossi, canterellando quel ritornello monotono e bizzarro del villaggio, che in tutti i paesi si ripete quasi con le stesse note, anche se con parole diverse.

    Il fuoco ardeva ancora nei focolari delle casupole e nei camini del castello; ma il fumo, invece di strisciare rasente ai tetti, saliva verticalmente in spirali grigie verso un cielo interamente azzurro, dove il sole prodigava generosamente i suoi raggi d’oro.

    C’era come una gioia segreta nella natura, quasi un inno misterioso e confuso, eseguito da un’orchestra di migliaia di voci per festeggiare la dipartita dell’inverno, di quella tetra stagione che Dio ha inflitto al creato per ricordargli che nulla è perfetto, tranne Lui.

    Scendeva la sera, quando la berlina da viaggio che trasportava la signora de Beaupréau e sua figlia comparve sul versante della costa, dall’alto della quale si scorgeva il valloncello in fondo a cui si trovava il castello delle Ginestre.

    La brezza marina, impregnata dell’acre profumo delle alghe, cominciava a soffiare, curvando i fusti delle ginestre dorate che crescevano sul bordo della strada.

    La berlina scese a trotto serrato, guidata da un raggio del sole al tramonto, che faceva fiammeggiare come una fornace – secondo la bella espressione di Victor Hugo – i vetri delle finestre ogivali del castello, ed entrò con gran fragore nel cortile delle Ginestre, passando per una breccia, perché la gran porta, quella che portava sul frontone l’antico stemma dei Kermadec, era crollata di recente.

    Da molto tempo, forse da un secolo, il vecchio castello non aveva assistito a un avvenimento così insolito e non aveva visto arrivare una diligenza guidata da un postiglione dai pantaloni gialli e dal farsetto rosso, i cui schiocchi di frusta risvegliavano mille echi addormentati fra i muri malfermi.

    A quel rumore due servitori, quasi altrettanto attempati quanto la loro padrona, accorsero tutti sbalorditi.

    Il primo era un gran vecchio dalla barba bianca a ventaglio, dal corpo ancora solido e diritto, e che al tempo delle guerre della Vandea aveva dovuto essere un fiero combattente, un temibile avversario dei rivoluzionari.

    L’altro era una donna, una specie di governante, che cumulava le funzioni di cuoca, di guardarobiera e di cameriera.

    Quei due formavano tutta la servitù della baronessa de Kermadec, con l’aggiunta di un piccolo guardiano di mucche, che mangiava e dormiva nella fattoria, ma che viveva nel castello e che la vecchia signora aveva preso in simpatia.

    «La baronessa de Kermadec è al castello?» chiese la signora de Beaupréau, scendendo dalla carrozza.

    «La signora baronessa non esce mai», rispose il vecchio, che si chiamava Yvon; «da quasi un anno, ahimè, non può lasciare la sua poltrona».

    E fece entrare Thérèse e la figlia nel castello, precedendole con solennità, come il maggiordomo di una casa signorile che sente il peso delle sue funzioni.

    La signora de Beaupréau attraversò un vestibolo oscuro, pavimentato di grosse lastre di pietra grigia, che i passi di molte generazioni avevano reso lucide, poi un gran salone del tempo di Luigi XIV, a giudicare dalle tappezzerie scolorite, dai mobili tarlati e dai neri ritratti di famiglia, che rappresentavano i defunti Kermadec in armatura guerresca, in rocchetto da prelato o in abito di corte.

    All’estremità opposta del salone, il bretone aprì una porta a due battenti e annunciò:

    «La signora e la signorina de Beaupréau».

    Madre e figlia varcarono la soglia di una camera da letto dove la baronessa passava la vita, occupata a frugare fra i suoi cimeli o a leggere romanzi cavallereschi, che la divertivano sempre molto e con l’aiuto dei quali si rifugiava in un mondo ideale e dimenticava l’amarezza del presente.

    La baronessa de Kermadec era un’ex dama di corte in tutta l’accezione del termine; era stata dama d’onore di Maria Antonietta, era rimasta da cima a fondo un personaggio dell’ancien régime, malgrado le rivoluzioni. Il suo abbigliamento, le sue abitudini, il suo linguaggio non erano mai cambiati.

    Indossava abiti di broccatello, aperti davanti, incipriava ogni mattina i suoi capelli bianchi e talvolta metteva un finto neo all’angolo delle labbra e invitava a pranzo qualche vecchio vicino. Pranzava a mezzogiorno, cenava alle sette di sera, non permetteva mai ai suoi vecchi servitori la minima infrazione alla più rigorosa etichetta, e si faceva baciare la mano dai visitatori.

    Inoltre parlava come si parlava a Versailles mezzo secolo prima, si esprimeva in termini molto liberi sul re, sulla regina e sulle principesse, insisteva a chiamare Luigi Filippo il duca d’Orléans, e trovava che il giovane coadiutore della vicina parrocchia aveva idee molto rivoluzionarie, da quando, giocando con lei a tric trac, il povero prete aveva espresso l’umile opinione che tutti gli uomini sono uguali davanti a Dio.

    D’altronde la baronessa de Kermadec era la più seducente vecchia signora della sua epoca. Malgrado i suoi ottant’anni, non era né sorda, né cieca, conservava una memoria perfetta degli uomini e delle cose, aveva molto spirito e faceva la gioia di due o tre cavalieri di San Luigi un po’ più giovani di lei e residenti nelle vicinanze, fra cui il cavaliere de Lacy, un bravo gentiluomo cacciatore, che abitava in un piccolo castello dei dintorni chiamato il Maniero.

    La baronessa de Kermadec non aveva che un debole, amava i romanzi cavallereschi e finiva per credere in ciò che raccontavano. Avrebbe giurato che Amadigi di Gaula era realmente esistito, e che suo figlio Esplandian era sempre stato un modello di eroismo e di virtù. Quando si intratteneva su questi soggetti, Amadigi, Esplandian e Galaor le facevano un po’ girare la testa e la sua ragione finiva per vacillare; ma, riportata la conversazione su soggetti più moderni, la baronessa dava prova di uno spirito serio, sensato e penetrante.

    Quando la signora e la signorina de Beaupréau entrarono nella sua camera – una stanza che, fra parentesi, era ammobiliata interamente nel gusto del Settecento e ricordava un salottino di Madame du Barry – la baronessa era semi coricata su una bergère gialla, alla quale la inchiodava un attacco di gotta, e aveva accanto a sé Jonas.

    Il piccolo Jonas era al tempo stesso guardiano di mucche e cacciatore di animali selvatici nel bosco. Era bracconiere; passava spesso lunghe notti sdraiato nell’erba e fra i cespugli, facendo la posta a un capriolo.

    Quella passione della caccia era stata la causa indiretta del favore di cui godeva presso la baronessa. Una notte se ne stava in agguato, quando il suo sguardo era stato attirato da una colonna di fumo.

    Un incendio era scoppiato alle Ginestre.

    Jonas era corso al castello, aveva svegliato gli abitanti e salvato la baronessa de Kermadec.

    Jonas era un ragazzo di quindici anni, smilzo, slanciato, con capelli biondi e grandi occhi azzurri, un volto da Serafino, i modi garbati di un paggio sotto la giacca bretone e malgrado gli zoccoli.

    Il suo sguardo era al tempo stesso malizioso e dolce; il suo viso esprimeva un misto di spirito beffardo e di vaga malinconia. Sembrava uno di quegli angeli compromessi nella rivolta degli spiriti infernali, e che Dio, non trovandolo abbastanza colpevole per precipitarlo nel fondo dell’abisso, aveva semplicemente esiliato sulla terra. Era ironico e scettico, ma il fondo del suo cuore era triste e pieno di bontà.

    Sia che avesse intuito in lui un’indole più fine di quella di un contadino, sia per puro egoismo e per semplice bisogno di compagnia, la baronessa aveva fatto grande amicizia con Jonas. Lo teneva presso di sé tutte le sere e si faceva leggere da lui ad alta voce i suoi cari romanzi, nei quali la fantasia del ragazzo rischiava di esaltarsi oltre la giusta misura.

    Scorgendo la signora de Beaupréau e sua figlia, la vecchia baronessa si sollevò a metà e, sebbene non vedesse sua nipote da molti anni, la riconobbe immediatamente, ancor prima che il maggiordomo l’avesse annunciata.

    «Zia», disse la signora de Beaupréau, gettando le braccia al collo della baronessa, «veniamo, mia figlia ed io, a chiedervi ospitalità per qualche giorno».

    Il viso della baronessa de Kermadec si illuminò di una gioia indicibile.

    Era povera, ma era troppo gran dama per abbassarsi a calcoli meschini; si sarebbe indebitata ogni anno per offrire banchetti a tutta la provincia, se l’intera provincia fosse venuta a sedersi alla sua tavola.

    Nell’arrivo della nipote e della pronipote vide, quindi, un’unica cosa: che per quindici giorni, o forse venti, non sarebbe più stata sola, ma avrebbe avuto compagnia.

    L’età aveva un po’ inaridito il cuore della baronessa; non piangeva più i morti e parlava di suo figlio, l’ultimo dei Kermadec, senza troppa emozione. Per lei ormai l’essenziale era vivere, vivere il più a lungo possibile, senza scosse, senza dolori, con quante distrazioni potesse trovare; e le distrazioni per lei diventavano sempre più rare, soprattutto da quando l’infermità la inchiodava nella sua poltrona e non le permetteva più, come in passato, di far attaccare l’unico cavallo del castello a un biroccio semi-centenario e di andarsene, con quel misero equipaggio, a far visita ai castellani dei dintorni. Ogni anno aveva visto morire intorno a sé qualche piccolo nobile suo coetaneo. Ormai non era più rimasto che il cavaliere de Lacy, che abitava a circa una lega di distanza, l’unico che ancora venisse a farle visita una o due volte la settimana.

    E anche questo era possibile solo quando quel degno gentiluomo non soffriva lui stesso di gotta, o quando la caccia era chiusa; perché, finché poteva dedicarsi al suo sport prediletto, egli vi si abbandonava con passione e trascurava la sua vecchia vicina, tanto da non consacrarle più che il pomeriggio della domenica, giorno in cui il pio gentiluomo non andava a caccia.

    Perciò l’arrivo della signora de Beaupréau la riempiva di gioia, e soprattutto era felice che fosse venuta con sua figlia, che aveva visto solo da bambina, nell’ultimo viaggio che aveva fatto a Parigi durante la Restaurazione.

    Interruppe senza rimpianto, sebbene si trattasse per lei di un sacrificio non indifferente, la lettura del suo caro Amadigi, per far festa alle nipoti e mettere in moto tutta la servitù, cioè i due vecchi domestici e Jonas, allo scopo di riceverle al suo meglio.

    Il giorno dopo, la signora de Beaupréau e sua figlia erano completamente installate alle Ginestre. Tre giorni dopo si erano ormai abituate a quel nuovo genere di vita. Sia per effetto dell’aria pura, sia forse anche per merito delle distrazioni del viaggio, sembrava a Thérèse che il pallore nervoso di Hermine si attenuasse a poco a poco, che il suo sguardo fosse meno triste.

    E Thérèse sperava molto, per la guarigione morale di sua figlia, in quell’allontanamento temporaneo da Parigi e in quell’assenza di persone, luoghi e oggetti che

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